di Sandro Moiso
Un tempo i cacciatori di teste costituivano argomento di interesse antropologico oppure ottimo materiale per romanzi di avventure ambientati in Amazzonia o nel Borneo.
Poi, tra gli anni sessanta e ottanta, migrarono dalle pagine di Salgari o di altri scrittori di evasione agli schermi, inseguiti dalla macchina da presa di registi a caccia di emozioni forti.
Così cannibali e teste mozze entrarono a far parte degli antenati del moderno gore attraverso film come “Mondo cane” o “Cannibal Holocaust”.
Nonostante l’uso, all’epoca raccapricciante, di sangue finto e di immagini di documentari ritenuti maledetti, e spesso fasulli, il pubblico usciva dalle sale cinematografiche rilassato e contento.
Non importava che le riprese dall’alto del Rio delle Amazzoni fossero sempre di repertorio e che le scene più atroci fossero girate sulle rive del lago di Bolsena o del lago Trasimeno: un po’ di ragazze bionde con abiti lacerati ad hoc e gran roteare di occhi e interiora di plastilina oppure rubate a qualche animale domestico dismesso colmavano abbondantemente le lacune di sceneggiatura, di interpretazione e di regia. Oltre che, naturalmente, di scarso rispetto per il “politically correct” nei confronti degli indigeni chiamati in questione.
Poi, con il reaganismo e il tatcherismo e la susseguente ondata yuppie, i tagliatori di teste sbarcarono sul suolo del mondo occidentale…e il pubblico iniziò ad assistere ad eventi che, dopo le iniziale perplessità, lo lasciarono tutt’altro che soddisfatto e contento. Anzi.
Head choppers li chiamavano e avevano l’importante funzione di individuare il personale in esubero nelle aziende in crisi per renderle più attraenti agli occhi degli investitori.
Per un certo periodo la novità costituì un autentico dilemma per gli analisti economici o per tutti quelli che si occupavano di economia e società utilizzando strumenti derivati dalla teoria economica classica oppure marxista: più licenziamenti c’erano, più le aziende interessate risalivano le chine delle quotazioni di borsa.
Facendolo, spesso, senza che il tutto fosse accompagnato da una reale ripresa produttiva e senza un reale incremento del valore aggiunto.
Anzi, succedeva spesso che le stesse aziende, dopo un breve ed intenso periodo di splendore finanziario accecante finissero col fallire e con l’essere chiuse ed abbandonate come frutti spolpati.
Si scoprì così, e lo scoprirono anche interi eserciti di lavoratori esclusi dal ciclo produttivo, che ciò che interessava agli squali della finanza non era tanto la ripresa produttiva o il rilancio reale di determinati settori industriali, ma, piuttosto, l’impadronirsi nel più breve tempo possibile dei profitti realizzati attraverso trucchi contabili nemmeno troppo complicati. Robe da ragionieri truffaldini di provincia o da commedia all’italiana degli anni sessanta.
Solo che adesso quei ragionieri da strapazzo si chiamavano manager oppure maghi della finanza creativa. Molto creativa.
Così il mago Zurlì di Cino Tortorella si era ritrovato ad essere una fonte di ispirazione per i manager di successo e la loro voglia di zecchini d’oro.
Bastava spostare dalla colonna delle spese a quella delle entrate e/o degli attivi i risparmi effettuati attraverso i licenziamenti e, quindi, i mancati pagamenti degli stipendi al personale messo in “esubero” per avere nell’anno successivo congrui dividendi per gli azionisti.
Chiaro che dopo di ciò arrivava prima l’inevitabile chiusura e, poi, la vendita degli impianti, delle macchine e delle aree fabbricabili su cui sorgevano.
Compreso il licenziamento di tutti quei lavoratori che si erano illusi di essere apprezzati dagli azionisti proprietari e il rapido abbandono delle azioni, un tempo incensate ed ormai ridotte a carta straccia, nelle mani dei creduloni che avevano pensato di far affari all’infinito grazie alle capacità dei nuovi manager. Così lo speculatore, spesso piccolo ed ignorante, che rimaneva con il cerino in mano si ritrovava con una bella ustione da perdita di capitale.
Cazzo! Davvero formidabili quegli anni!
L’adrenalina del fare surf su un mare di merda teorica, economica, finanziaria e mediatica doveva essere davvero potente. Così potente da spingere, negli anni successivi, gli stessi maghi, oppure gnomi se dislocati a Zurigo, a cercare onde sempre più alte. Si era aperta negli anni ottanta l’epoca degli hedge funds, delle speculazioni al ribasso, dei titoli futures (compro oggi con i soldi che non ho per pagare domani con i guadagni sulla vendita di un titolo che non è mai stato mio).
In fin dei conti, se l’operazione era riuscita così bene con le aziende perché non tentarla anche con qualche nazione? Eh!? Magari in uscita da anni spaventosi? L’Argentina per esempio.
Quella nazione che, grazie ai militari pilotati da Washington e dal Vaticano, aveva visto sparire un’intera generazione e quella successiva tra omicidi, sequestri, torture, stupri ed autentici rapimenti di bambini e neonati, fu il banco di prova ideale.
Non vi era più resistenza possibile in un paese in cui le forze antagoniste erano state scientificamente fatte a pezzi e dove i restanti cittadini si erano accontentati di assistere in silenzio allo stupro collettivo di un’intera società autoconvincendosi che forse, insomma, i montoneros, i militanti dell’ERP o i sindacalisti e gli oppositori democratici qualcosa di male dovevano pur averlo fatto.
L’operazione economica, mediatica e politica, riuscì benissimo.
Stipendi, imprese, risorse primarie e petrolio finirono nelle fauci del capitale finanziario internazionale. Agli argentini non rimase nulla o quasi.
Che fiesta, però, per la finanza! Che magnifica esperienza! Che splendido stage di formazione per i futuri manager d’assalto! Che scuola! Che classe!
Classe, appunto, lotta di classe: spietata, feroce, implacabile e, soprattutto, a senso unico.
Anche le regole dell’imperialismo passato venivano stravolte. Qui non si trattava più di impiantare nuove attività in paesi arretrati con la manodopera a bassissimo costo.
Non si ripeteva l”errore” di creare un nuovo e, in futuro, combattivo proletariato, ma di depredare l’esistenza di nazioni con un’economia moderna per precipitarle in un’arretratezza vera, senza le più elementari risorse che avevano permesso, nei secoli, la sopravvivenza anche delle società più primitive.
Miseria vs. profitti, quindi. Profitti rapidi, enormi, separati da ogni rischio di investimento.
Operazioni “search and destroy” di tipo economico su scala globale.
La nuova frontiera del capitale! Riservata, però, ai grandi investitori, ai fondi sovrani, alle volpi di Moody’s, Goldman Sachs, ai lupi e agli squali che si crogiolano al bagliore dei terminali delle borse e della rete informatica che permette spostamenti di cifre enormi in pochi secondi e, nello stesso tempo, di impadronirsi del destino di milioni di persone. Testimoni impotenti della propria rovina.
Più la produzione si andava concentrando in nuove e giovani aree industriali del globo terracqueo, più lo stanco capitale usuraio cercava nuovi sfoghi per la sua libidine senescente.
Nuove emozioni, un nuovo Viagra finanziario destinato a soddisfare rapporti di breve durata senza passare per il troppo impegnativo amplesso produttivo dell’investimento “reale” in macchine, progetti, uomini e prodotti.
Magnifica l’idea della produzione snella, poi sempre più leggera, virtuale, invisibile appunto.
E allora, immemori di rivoluzioni e crisi catastrofiche, eccoli alla ricerca di stati e nazioni sempre più grandi da divorare attraverso il loro debito pubblico, i cui titoli dal rendimento troppo alto sono sì a rischio, ma attraenti. Tanto attraenti. Come quelli argentini, ma su scala europea. Fantastico!
Basta mettere al governo uomini e donne di provata fiducia che ne garantiscano il pagamento.
Servi fedeli come Monti, Papademos, Rajoy. Tagliatori di teste su scala gigantesca e in più travestiti da salvatori della patria (e dell’euro).
La più grande operazione politico- mediatica della storia, destinata a far impallidire gli sforzi propagandistici di Mussolini, Stalin, Goebbels e Roosvelt.
That’s All Folks!
Così quando Monti si presenta ai massimi finanzieri internazionali a Sun Valley nell’Idaho, altro non fa che rassicurare i suoi soci e padroni che sì, stiano pure tranquilli: l’Italia onorerà i suoi impegni col sudore e col sangue, se servirà, dei suoi lavoratori e dei suoi giovani.
E, ancora, che stiano pure tranquilli perché anche i tedeschi prima o poi saranno costretti a pagare. Parola di Terminator.
Così come è stato avvertito il lombardo Squinzi, presidente di Confindustria con ancora qualche velleità produttiva: “Ehi minchione, vuoi capire sì o no che sei sotto la dittatura del capitale finanziario internazionale ed anglo-americano in particolare? Sveglia! Il tempo delle fabbriche e della concertazione è finito! Manifacturers Go Home! ” Il fascismo industriale è finito, è arrivata la democrazia della finanza. Evviva!
Il manager moderno è oggi Marchionne che, come il vento in una vecchia canzone degli anni cinquanta, è “la forza che passa, distrugge e che va”. A Detroit appunto.
Dopo aver chiuso stabilimenti in Italia e in Europa adducendo la scusa della scarsa produttività e trasformando i mancati investimenti in ricerca, innovazione ed impianti in dividendi per gli azionisti.
Che poi quella cazzo di concertazione, ereditata dritta dritta dalla Carta del lavoro fascista, abbia solo e sempre giocato a sfavore degli operai e dei lavoratori non importa più a nessuno.
Stiamo andando oltre con la benedizione del PD e della Chiesa che ha visto anche il papa tedesco piegarsi ad una enciclica di carattere finanziario, la Caritas in veritate.
In cui si parla, naturally, di finanza etica. L’ultima panzana, l’ultima barzelletta!! Quella che piace tanto ai vari Travaglio, Grillo e moralizzatori di ogni specie che separano la finanza buona da quella cattiva, la circolazione monetaria dal profitto, il capitale dallo sfruttamento. Complimenti.
Ma intanto, nell’ombra, gli eredi di Sarah Connor stanno crescendo… e saranno ben presto milioni.