di Mauro Baldrati
Si potrebbe riassumere il gradiente di questo film con un “Mah…”, puntini di sospensione compresi. Il nostro Magister filmico, Dziga Cacace, sulla pagina FB del suo alter ego ha postato “Boh…”
“Mah…” è leggermente meno negativo di “Boh…”, però entrambi rivelano una difficoltà, quello stato d’animo di strisciante insoddisfazione che ci accompagna all’uscita dalla sala, quando ci chiediamo: “Ma cosa ho visto, e perché?” Domanda insidiosa, alla quale è sempre difficile rispondere, perché alcune cose ci sono piaciute ma non ci hanno convinto e la linea di confine è danzante, frastagliata. Proviamo a farlo qui.
La perplessità emerge subito, già dalle prime scene. Soprattutto nei dialoghi. C’è una sorta di innesto del grottesco – alla Coen per capirci – o un registro super-avant-pop alla Tarantino? – con un parlato sopra le righe e personaggi eccessivi, quasi macchiettistici, in una storia estremamente seria, con implicazioni drammatiche. In musica classica questo procedimento si chiama “contrappunto”: “La presenza, in una composizione o in una sua parte, di linee melodiche indipendenti che si combinano secondo regole tramandate dalla tradizione musicale occidentale” (Wikipedia).
Si combinano. Ecco, un problema – il problema? – è che non si combinano granché. Tutto avviene tra Mildred e i poliziotti locali, parodie viventi degli amerikani della provincia profonda, razzisti e omofobi (Trump qui ha totalizzato il 56.8 dei voti). Il loro esponente tipo è l’agente Dixon, sempre alticcio, violento, in odio viscerale contro i negri, i froci, e contro Mildred, per la questione dei tre manifesti. Su di lui pende un sospetto di omosessualità, o quanto meno di ermafroditismo: vive ancora con “mammina”, una vecchia malvagia che lo inonda di consigli malevoli e pericolosi. I dialoghi sono infarciti da raffiche di vaffanculo, fucking, motherfucker, il classico slang post-puritano che imperversa negli ambienti rustici e working class americani. Il personaggio di Mildred è ben delineato: è una donna dura e disperata per la perdita della figlia, stuprata e uccisa, una ragazzina con la quale aveva un rapporto conflittuale, che l’accusava di essere una “maledetta troia” e una “stronza” e “vaffanculo”. Ma è anche decisa a tutto. Nulla e nessuno possono fermarla, né le minacce né le aggressioni più o meno verbali. La cittadina di Ebbing è un ambiente asfittico, popolato da mostri, che forse il regista ha cercato di sdrammatizzare col ricorso al grottesco.
Un’altra scelta, altrettanto posticcia, magari per non incartarsi in un conflitto difficilmente gestibile tra personaggi, riguarda lo sceriffo Bill, interpretato dal sempre ottimo Woody Harrelson. Benché parli coi suoi poliziotti-bestia con lo stesso fucking-slang, Bill è un brav’uomo. Va a trovare Mildred, cerca di spiegarle lo stato delle indagini e le difficoltà di trovare le prove. Un personaggio impegnativo da gestire nell’ingranaggio, semplice ma abbastanza rigido, della storia. Obbligherebbe a uno spostamento del baricentro verso un genere più thriller, con nuove indagini e colpi di scena.
Così gli fanno venire un cancro terminale. Più o meno a metà film si spara una rivoltellata in testa. E’ una scelta già operata dai Coen in Non è un paese per vecchi. Uno dei personaggi chiave, col quale buona parte del pubblico si identifica (perché è l’eroe inseguito dall’assassino) viene tolto di mezzo all’improvviso. Lo trovano morto in una scena secondaria, così, en passant. In realtà questa scelta risale a uno dei massimi capolavori della storia del cinema, che proprio a causa di questa breaking bad rischiò di non trovare un produttore: Psycho, di Hitchcok. Quasi subito fa morire la protagonista, nella leggendaria scena della doccia (circa quaranta secondi che hanno richiesto una settimana intera di riprese). Il pubblico restò senza punto di riferimento. Non era mai successo. Un’autentica rivoluzione.
Il regista Mc Donagh la fa a sua volta, ma con una modalità di nuovo posticcia, affrettata addirittura.
Così la stazione di polizia rimane senza capo, in uno stato di violenta anarchia e di svacco. Poi arriva un nuovo sceriffo che è… un negro. Sicuramente qualcosa decollerà, ma ormai è tardi, possiamo solo immaginarlo.
Perché ora che siamo a tre quarti e oltre è giunta l’ora della redenzione.
Bill ha lasciato delle lettere, e quella per Dixon otterrà un risultato inaspettato. Dixon, dopo avere quasi ucciso un ragazzo, muta da così a così. Bill gli ha spiegato l’importanza dell’amore e lui diventa generoso, cambia addirittura il linguaggio. Passa dalla parte di Mildred, l’anello debole, dopo averla più volte insultata e derisa. Indaga, perché è sicuro di avere scoperto l’identità dell’assassino della figlia. Lui, teppista picchiatore, si fa addirittura massacrare di botte pur di raccogliere un indizio che potrebbe incastrare lo stupratore.
E così, con Dixon come nuovo alleato di Mildred, marciamo a vele spiegate verso il finale. Lo capiamo dal ritmo più lento, dalla faccia degli attori (Dixon e Mildred, in auto insieme), dalla musica di sottofondo. E sarà un finale classico, da manuale: il finale aperto. Un finale che più politicamente corretto non si può.
Ora non pretendiamo finali-cult come in “Taxi Driver”, o nel più recente “Cold in July”, ma il politicamente corretto, in questa storia malata, è poca cosa, un tentativo consolatorio e facilone che non può che evocare il nostro strascicante “Mah…”.
P.S. Abbiamo deciso di sorvolare sulla trama perché gran parte delle recensioni uscite sul web e sui giornali si occupa quasi solo di questo; e Wikipedia ne contiene una, utile per il recensore che preferisce conoscere a fondo lo spoiler, che spiega anche i dettagli.