di Angelo Salento
David Graeber, La rivoluzione che viene. Come ripartire dopo la fine del capitalismo, San Cesario di Lecce, Manni, 2012, pp. 184, euro 10
Reduci da una stagione di depoliticizzazione lunga circa trent’anni — quelli che ci separano dalla sconfitta del movimento operaio e dalla rimozione del conflitto distributivo — e tuttora incapaci di comprendere se (e soprattutto come) ce la si possa lasciare alle spalle, possiamo leggere i saggi di David Graeber raccolti in questo volume come una risorsa di senso.
Senza un briciolo di vocazione consolatoria, e soprattutto rifiutando scorciatoie profetiche, l’antropologo americano — che nei contesti anglosassoni gode di pieno riconoscimento scientifico, ma in Italia conosciamo essenzialmente come animatore del movimento Occupy Wall Street — restituisce lucidità e ragioni d’azione a chi abbia vissuto l’ultimo decennio come un periodo di sconfitte e di marginalizzazione.
Certo, i movimenti di opposizione alla globalizzazione neo-liberale hanno subìto colpi duri: negli Stati Uniti l’11 settembre ha di fatto costretto a rompere le righe. Nello stesso anno, anche in Italia lo scempio del G8 di Genova ha riportato un movimento unitario a una condizione molecolare: come ha scritto Marco Imarisio, «il destino del popolo di Genova è stato quello di rifugiarsi altrove» (anche se in fin dei conti nessuno è più riuscito a rintanarsi “nel privato”, a maturarne il desiderio; e l’impegno molecolare si è fatto qualche volta reticolare). Ma è proprio negli anni di massimo scoramento, tra il 2004 e il 2010, che David Graeber ha provato a mettere insieme, in questi saggi, una collezione di buoni motivi — anzi, di fondate ragioni — per non rinunciare a una prospettiva di trasformazione.
Anche se non si tratta di scritti sistematici, non è difficile riconoscere nel volume due tesi essenziali.
La prima tesi è che il neo-liberismo non ha funzionato: e non può funzionare. Se dopo il 2000 esso ha assunto connotati chiaramente dispotici, è precisamente perché i suoi promotori erano pienamente consapevoli del suo fallimento: «i pezzi grossi che si riunivano nei summit erano probabilmente più consapevoli di noi che l’intero sistema — basato su un’antica alleanza tra potere militare e potere finanziario, tipica dell’ultimo periodo degli imperi capitalisti — si reggeva ancora per miracolo» (p. 8).
L’idea di Graeber, più esattamente, si costruisce come un’inversione del senso comune critico: mentre solitamente i critici del neoliberismo lo pensano come una dottrina che antepone il calcolo economico alle valutazioni politiche, Graeber sostiene che il neoliberismo abbia fallito proprio in quanto sistema di organizzazione economica, poiché persegue un programma intrinsecamente politico che si rivela (si è rivelato molte volte, ma si è sempre guadagnato l’assoluzione) fallimentare sotto il profilo economico. Esso si presenta — oggi più chiaramente che mai — come un dispositivo di sfruttamento assolutamente incapace di produrre sviluppo, comunque questo sviluppo lo si voglia concepire e/o misurare: «il neoliberismo è stato il sistema che è riuscito a convincere tutti al mondo che le élite finanziarie erano le uniche in grado di gestire e misurare il valore di qualsiasi cosa, anche se poi per farlo quelle élite finivano con il promuovere una cultura economica così irresponsabile che l’intera architettura finanziaria dell’economia globale è crollata» (pp. 174 s.).
Questa modalità interpretativa — per la quale il neoliberismo è un programma politico camuffato con elementi di teoria economica — è del resto la sola in grado di spiegare il fatto (assurdo sul piano della razionalità economica) che i governi neoliberisti riproducano ostinatamente le loro ricette anche quando esse hanno dimostrato chiaramente — PIL e spread alla mano, per non dire degli indici del mercato del lavoro — il loro fallimento.
La seconda tesi di Graeber è che, se oggi possiamo constatare che il neo-liberismo non ha funzionato, questo lo dobbiamo anche al fatto che le sue contraddizioni sono state fatte valere, con una qualche efficacia, dai movimenti di opposizione. Il volume — che nasce da riflessioni annotate a margine dell’impegno diretto — è pieno di esempi, attinti non soltanto dall’esperienza del movimento per la giustizia globale, ma anche dal movimento antinuclearista, da quello per i diritti civili, da quello femminista e via dicendo.
Questa seconda tesi ha un corollario essenziale, che nell’economia del libro è più importante della tesi stessa, e che attiene alla capacità dei movimenti di riflettere — potremmo forse aggiungere: riflettere serenamente, cioè senza imboccare spirali di riflessività gratuita e ipertrofica, narcisistica o masochistica — sulle proprie potenzialità. Secondo Graeber, il problema essenziale dei movimenti è quello di non saper gestire le proprie vittorie: di non saper prenderne atto tempestivamente, per elaborare subito la mossa successiva. «Il problema reale che questi movimenti devono affrontare — spiega Graeber con disarmante chiarezza — è la sorpresa della rapidità del successo iniziale. Non siamo mai preparati alla vittoria, ci manda in confusione. Cominciamo a litigare tra di noi. Il governo risponde invariabilmente con qualche avventura militare in un altro continente. La morsa della repressione e gli appelli al nazionalismo che inevitabilmente accompagnano un’altra mobilitazione militare sono poi uno strumento nelle mani degli autoritari di ogni parte politica. Ne risulta che quando l’impatto della nostra vittoria iniziale diventa chiaro, siamo troppo occupati a sentire di aver fallito per accorgercene» (p. 22).
Oggi, in definitiva, non c’è alcun motivo per pensare che la capacità trasformativa dei movimenti di opposizione sia estinta; semmai, essa può volgersi adesso — a crisi conclamata — verso la progettazione di un futuro post-capitalista: «ci sono buone ragioni per credere che, nel giro di una generazione, il capitalismo non esisterà più» (p. 53). Senza necessariamente negarne l’importanza, Graeber suggerisce di accantonare le questioni di strategia, il pensiero rivoluzionario: e darsi invece l’obiettivo «di provare a capire se si possa lavorare al contrario partendo dall’esperienza dell’azione diretta fino a creare nuovi strumenti teorici, che non sono da considerare definitivi. Potrebbero persino risultare inutili. Ma forse possono contribuire ad un progetto più ampio di re-immaginazione» (p. 103).
Una recensione a parte meriterebbe La tristezza del post-operaismo, il saggio forse meno centrale rispetto al tema complessivo del volume: ma certamente prezioso per i lettori italiani. Qui David Graeber propone «un certo resoconto» di un seminario che, il 19 gennaio 2007, vide riuniti alla Tate Modern Gallery di Londra «alcuni pezzi grossi tra i teorici del post-operaismo italiano» (Negri, Bifo, Lazzarato e Revel), invitati a discutere di arte contemporanea e lavoro immateriale.
Con precisione da etnografo, Graeber rendiconta un incontro fondamentalmente malinconico; ma soprattutto annota osservazioni assai lucide e assai poco compiacenti sulle modalità argomentative dei post-operaisti. Modalità — spiega, laconico — che producono «la combinazione di una sorta di post-modernismo sfrenato con un goffo determinismo marxista fuori moda» (p. 139), inseguendo la rappresentazione di presunti mutamenti epocali (fra cui appunto la presunta éra della presunta centralità del presunto lavoro immateriale) pur di indicare l’inverarsi della profezia fondamentale: ossia dimostrare, sulla carta e senza riguardo per l’evidenza empirica, che è giunta l’ora della “riappropriazione della funzione del comando sulla cooperazione”.
Nulla da obiettare alle profezie, nota Graeber: il problema nasce invece quando le profezie vengono scambiate per teorie sociali. Può capitare allora che la profezia contribuisca a far credere — qualcuno ci ha creduto — che viviamo l’epoca dell’autonomia del lavoro.
La lezione dell’antropologo espulso da Yale non potrebbe essere più chiara: non c’è bisogno di ingannarsi per non farsi passare il desiderio di agire. Anzi.