di Iuri Lombardi
Il simbolismo di De Amicis e Collodi, tra socialismo e sentimento popolare. L’approdo di Giovanni Pascoli
Storicizzare sul simbolismo come corrente letteraria e nel suo insieme e in Italia nello specifico non è assolutamente semplice, soprattutto riguardo l’influenza che esso ha avuto nella narrativa per l’infanzia. Non è difficile sostenere che il Simbolismo a differenza di quello Europeo di Valéry e Mallarmé, del suo capostipite e iniziatore Baudelaire sia lontano dal nostro e che quello italiano coincida per buona parte con una sorta di patriottismo. Si tratta di un sentimento non solo di fedeltà alla patria che proprio in quel periodo nasceva, ma di una attitudine a pensare la letteratura come mezzo popolare di trasmissione.
Un mezzo che a differenza della Francia e dell’Europa che nulla ha di politico (si può parlare di sentimento patriottico in Francia con Hugo come in Inghilterra nell’età pre-romantica) agisce sul piano dello stile come netto tentativo sperimentale, al punto di intervenire propriamente solo sul piano dei significanti e per buona parte in poesia. Si tratta quindi di due aspetti che non sono marginali al discorso e non possono esserlo e che vanno valutati attentamente. Al di là dell’aspetto patriottico nel nostro caso il Simbolismo come corrente entra anche nella narrativa trovando terreno fertile e con prepotenza esplica una serie di elementi tipici nel suo insieme.
Stabilisce nelle pagine dedicate ad un pubblico ragazzo, ad i lettori bambini, uno stato di possibilità rivoluzionario, un modus operandi del tutto nuovo; il simbolismo di De Amicis e di Collodi inaugura una letteratura che si cala nel quotidiano, tra le piccole cose e ne fa oggetto di narrazione. Il decadentismo in Italia, o l’età propriamente così definita, che dall’ottocento di Collodi arriva sino agli scapigliati di Praga e Boito, mette in moto una dinamica senza precedenti; avvia ad uno svelamento sinora inedito in cui la poesia – in senso lato- scivola dall’olimpo, dal grande regno del sublime e della liricità ad un piano più basso e popolare: creando una eguaglianza tra le cose per cui tutto diventa degno di essere oggetto narrativo.
Si tratta in poche parole, come ebbero a battezzarlo voci autorevoli della critica e della storiografia: di un socialismo letterario. Di un modo di scrivere e di fare letteratura calando il sipario dell’austerità, al punto di stravolgere la logica per cui la storia la fanno i vincitori e rendendo eroe ogni personaggio; si tratta quindi di una lettura drammaturgica che si inserisce in un quadro di scala sociale capovolto. Da qui il patriottismo come sentimento che unisce e non divide rendendo universale il più piccolo e ovvio gesto umano.
Si parla quindi di una rivoluzione che a mio avviso prende avvio con la stampa di Pinocchio nel 1883 dello scrittore Fiorentino Carlo Lorenzini e che prosegue nel 1886 con Cuore di Edmondo De Amicis per raggiungere il suo apice, spostandosi dalla narrativa alla poesia, con la edizione del 1891 di Myricae del poeta romagnolo Giovanni Pascoli (il vero innovatore della poesie italiana).
Ma vediamo in dettaglio la dinamica.
Il simbolismo per una certa parte di narrativa, almeno quella ispirata ad un pubblico bambino, che è forse quella più strumentalizzata per certi versi- ed è sufficiente pensare i romanzi per l’infanzia di certi autori sotto il periodo fascista, dove gli adolescenti vivevano eroiche vicende legate alla guerra- in Italia coincide con una sorta di patriottismo, almeno nella stagione prossima all’unità del paese e che compie una rivoluzione sul piano dei contenuti mai vista in precedenza: si ha lo svelamento del quotidiano.
Il bambino, l’adolescente, la persona comune si fanno protagonisti di vicende epiche, eroiche al punto di scombinarne la logica per cui sull’ordinario prevale un senso dello straordinario. Si tratta quindi uno svelamento, di un tentativo di successo di squarciare il velo dell’olimpo, di togliere il sipario consunto della letteratura classica e di fare ascendere su di uno stato completamente nuovo, rovesciato dal punto di vista antro-sociologico, i vinti e non più i vincitori. È il caso di Cuore del ligure Edmondo De Amicis in cui il corpo del romanzo dal punto di vista stilistico non è altro che una cronaca di un anno scolastico, dal semplice diario di un alunno del Piemonte savoiardo, intervallato da novelle di grande impatto emotivo.
Se nel diario la narrazione punta il proprio obiettivo sulle vicende quotidiane di una Italianetta tutta patriottica e monocorde, i racconti spezzano la monotonia e compiono nel loro insieme quella rivoluzione appena detta. Ragazzi della patria regia, giovinastri senza arte e ne parte diventano eroi, diventano straordinarie figure e simbolo di un sentimento universale. È il caso del Piccolo scrivano fiorentino, che di notte all’insaputa del padre, si mette alla scrivania del genitore portando a compimento i suoi lavori di ragioniere. Il ragazzo, l’umile giovane sanfredianino è oggetto quindi di una metamorfosi sociale e di ruolo; da umile figlio diventa il risolutore delle fatiche del padre, il salvatore della famiglia che, altrimenti, sarebbe in procinto di fallire.
Stessa sorte avviene per la piccola vedetta lombarda nel cui caso un ragazzotto di campagna si presta per spirito di cortesia a fare un favore a degli ufficiali dello stato italiano e salendo su di un albero per spiare gli austriaci – siamo durante il conflitto dell’impero Austroungarico- riceve una fucilata e muore. L’eroismo di questo personaggio è straordinario; in esso si riscontra l’amore non solo per le vicende politiche di un paese (non ancora nazione) ma una serie di sentimenti che non sono più relegabili o leggili da un solo piano prospettico. Stessa sorte si ha nella novella Sangue Romagnolo il cui protagonista Ferruccio difende fino a rimanerne colpito a morte la propria nonna dall’incursione dei ladri. Il discorso della valenza eroica dell’infanzia e del patriottismo nella narrativa per ragazzi di De Amicis prosegue con la novella di Gennaio del Tamburino Sardo storia in cui il bambino protagonista per amore del proprio reggimento perde una gamba.
Patriottismo, buon senso, sentimento per la famiglia ed il creato lo si ritrova in una logica del tutto sua nel Pinocchio di Carlo Collodi. Storia universale, che non ha bisogno di presentazioni, l’opera dello scrittore fiorentino stravolge ogni canone previsto della narrazione e muovendosi su di una sequenza spazio-temporale, allegorica e simbolista porta a mio avviso a termine l’apogeo del percorso “sovversivo” della letteratura simbolista in Italia. E per ovvie ragioni.
Collodi non solo si allinea in termini più poetici alle dinamiche del modus operandi del suo tempo ma compie un passo ulteriore; il raccontare per simboli, cioè per significanti permette lui di nascondere dietro l’ausilio della metafora altre realtà in apparenza scomode. L’allegoria in Lorenzini diventa scudo, il significante il passaporto per mondi sommersi. La figura stessa del burattino di legno che si incarna in un bambino ogni qualvolta fa il bravo, l’immagine di un povero falegname di paese, di un borgo sperduto nel Gran Ducato di Toscana, talmente povero da non potersi permettere neppure il fuoco in casa e che viene premiato dal divino con l’arrivo di un bambino non era stato detto sino ad allora, è cosa inedita.
Nell’opera delle opere, nel Pinocchio di Lorenzini attraverso la figura del burattino confluisce tutta l’intera cultura occidentale, dall’età socratica sino ai giorni dell’unità d’Italia; vi confluisce il cristianesimo – il burattino di legno ha un anima soggetta a metamorfosi proprio come Cristo, è oggetto di passione per un ricatto unanime-: infine vi approda l’idea della polis intesa in termini egeliani come la summa dello spiritualità di un popolo. Tutti aspetti che si evincono dagli altri personaggi dell’opera come il Gatto e la Volpe, la Fata dai capelli turchini (metafora di dio, di una divinità al femminile), Mangiafuoco (il burattinaio cui si nasconde l’immagine dello scrittore che, accantucciato dietro la teatrale immagine dell’uomo di spettacolini di marionette, sintetizza colui che tira le fila della favola stessa), sino ad arrivare a Lucignolo attorno al quale il romanzo pare realizzare a pieno la questione allegorica.
Lucignolo infatti, se scoviamo dietro i significanti, se apriamo il sipario di tale finzione, non è e non vuole rappresentare un semplice amico per Pinocchio, il ragazzaccio toscano che lo conduce al paese dei balocchi (esempio traslato di perdizione), ma un possibile compagno. Dietro quindi l’allegoria di questa amicizia nata tra i banchi di scuola si nasconde un amore omosessuale e perfetto: un amore-specchio in cui il protagonista Pinocchio si identifica nel corpo del compagno sino ad essere poi una unica persona. Per Lucignolo Pinocchio tocca il fondo della perdizione, arriva ad essere oggetto di una punizione e prima da parte delle autorità e dopo da parte di dio (la fata turchina) trasformandosi in un asino venduto per due scudi alla fiera del bestiame. Si tratta di un legame che solo attraverso l’uso della traslazione astratta del simbolismo si può ottenere visto i tempi, e che solo attraverso il nascondiglio dei significanti possiamo interpretare con il senno di poi.
Questa tipica impronta tetralogica non è da ritenersi scontata e per varie ragioni; in primo luogo, perché il simbolismo di una certa letteratura cancella ogni tradizione prestabilita e precedente e in secondo luogo, nell’età in cui tramonta il positivismo e quindi la scientificità nelle lettere – da qui il naturalismo di Zola e il verismo di Verga, il romanzo della stagione londinese di Dickens – il tempo del simbolismo in Italia permette di accedere alla modernità. Attraverso la nuova stagione la letteratura si fa oggetto di sperimentazioni inedite, di grandi atti di coraggio stilistico: si fa attentatrice della storia. E l’attentato e sul piano dello stile e sul piano del contenuto avviene nel 1891 quando Giovanni Pascoli dà alle stampe Mirycae.
L’avventura pascoliana non solo si trova al centro di questa stagione, non solo essa stessa è promotrice di una rivoluzione universale; non solo scardina le regole della poesia rendendole moderne; non solo ripristina certi archetipi per scompaginare una logica e servendosene come alibi per il suo armato ideologismo: Giovanni Pascoli con la poetica del Fanciullino canonizza le tematiche presenti nel suo tempo restituendo una dignità storica e al contempo sublime. In altre parole, il poeta romagnolo ricostruisce un mondo per sopperire alla civiltà precedente che aveva fallito; da umanista accoglie nelle proprie pagine tutti quegli esclusi dalla storia e ne fa non eroi, come nel caso di Collodi e De Amicis, come nel caso del Prati o del Carducci: ma uomini in quanto figli di un medesimo creato.
Il poeta diventa così cantore dell’universo e delle armonie del creato e non solo ha la capacità leopardiana di mirare il cielo ma ha il coraggio di scendere sulla terra e di raccogliere a sé tutti gli elementi per edificare una nuova drammaturgia della storia. Gli umili, i peccatori, i contadini popolano i versi del poeta come fossero Re Magi giunti al presepe del signore. L’idea della civiltà in Pascoli viene quindi a collimare con un senso tipico del proprio tempo ma applicata su di una dimensione georgica, paleo-industriale. Esperimento che sia in Myricae sia nei Primi Poemetti riesce a maturare sino ad inaugurare un nuovo filone della poesia in uno spirito europeista. Pascoli diventa la summa del simbolismo; il poeta maggiore della modernità. Per assurdo, cioè per paradosso in lui si sintetizzano tutti quegli aspetti che apriranno una nuova stagione europea, quello strano senso dello stare come riscatto della storia.
Un riscatto che il simbolismo come corrente e Pascoli nella poesia nello specifico e Collodi e De Amicis per la narrativa, ha esplicato edificando una nuova concezione umanista; una teatralizzazione del reale senza precedenti e di grande impatto emotivo. Un estetismo socialista, nel senso lato della parola, che fa dell’escluso la promessa e il protagonista di un’altra età la cui alba accenna orizzonti ancora tutti da esplorare.