di Valerio Evangelisti
[Questo testo è apparso quale introduzione al libro di Richard Boyer, Herbert Morais, Storia del movimento operaio negli Stati Uniti 1861-1955, ed. Odoya, Bologna, a cura di M. Maffi, 2012. In versione abbreviata, l’articolo è stato pubblicato da “Il Venerdì di Repubblica”, 9 marzo 2012.]
La storia del movimento operaio statunitense di Boyer e Morais ha un’origine “militante”, in quanto fu commissionata agli autori da un sindacato degli elettricisti tra i più combattivi. Per molto tempo è rimasta in Italia il testo di riferimento, dato che nessuna delle opere rivali era altrettanto completa e dettagliata, e altri saggi più ambiziosi non sono mai stati tradotti nella nostra lingua.
L’identità dei committenti fa sì che il libro possieda una particolare vivacità e un taglio largamente “popolare”, senza che ciò vada a scapito del rigore di fondo e dell’esattezza dei fatti narrati. Notevole è poi l’attenzione posta all’evoluzione del capitalismo negli Stati Uniti, e alla sua commistione col potere politico. Un intreccio che va ben oltre il 1955 — anno in cui il saggio fu pubblicato per la prima volta — e si prolunga fino ai giorni nostri.
Una caratteristica del movimento operaio americano risulterà evidente a ogni lettore: l’estrema violenza dello scontro in cui fu impegnato fin dalle origini, e l’assoluta spietatezza dei suoi avversari. I massacri di lavoratori, almeno fino agli anni Trenta del ‘900, non si contano; e accanto a questi, anche in epoca successiva, gli arresti, le deportazioni, l’uso di squadre di vigilantes, i provvedimenti legislativi utili a schiacciare ogni forma di insubordinazione sociale, le condanne a morte. Ciò ben prima che maccartismo e guerra fredda dessero alla repressione un’impronta sistematica. Solo sindacati disposti al più totale compromesso sociale e politico, come l’American Federation of Labor (AFL), riuscirono a conservare qualche diritto e a uscire in qualche modo indenni — non sempre e non ovunque – dall’inferno. Altri pagarono col sangue, con la diffamazione, con il discredito la loro ostinazione a resistere. Anche organizzazioni nate in contrapposizione all’AFL, quale il Congress of Industrial Organizations (CIO), furono costrette a piegarsi.
Per capire le ragioni di una conflittualità così estrema, bisogna comprendere il contesto sociale e culturale in cui si manifestò. Ricchezza e virtù, nella mentalità americana dominante, andavano e vanno di pari passo. Ciò in conformità al pensiero dei “padri fondatori”, appartenenti ad alcune delle sette protestanti più oltranziste. La miseria era invece indice di vizio e peccato. Se ne poteva uscire in forma individuale, assoggettandosi a un duro lavoro. I più virtuosi ce l’avrebbero fatta, migliorando il loro stato. Conquistato il benessere, questo non doveva essere né discusso né contestato. Stessa cosa per il potere associato alla ricchezza. Guai al “fannullone” che avesse voluto condividere l’uno o l’altra. Sarebbe finito in crisi non tanto e non solo un sistema economico, quanto un assieme di valori fondamentali.
Tale visione fu inizialmente incoraggiata dalle molte risorse che quella parte di continente sembrava offrire. Furono accaparrate con la stessa furia usata a suo tempo dagli spagnoli in America Latina. La differenza fu che non si pensò minimamente di assimilare gli indigeni, e nemmeno di renderli schiavi. Si praticò nei loro riguardi una politica di puro e semplice sterminio. Con un background del genere, non meraviglia che, dopo la vittoria del Nord industriale sul Sud agricolo, si imponesse una élite di capitani d’industria portati a esercitare un potere che nessuno doveva permettersi di contestare.
Uno dei vantaggi di cui costoro godettero fu l’afflusso costante e sovrabbondante di una manodopera illimitata, proveniente dall’Asia e dall’Europa. Si sommava all’esercito degli ex schiavi liberati, divenuti braccianti e manovali generici. Uno strato di immigrazione si sovrapponeva all’altro, e l’ultimo era sempre il più sfavorito, in concorrenza con i precedenti sul mercato del lavoro. Ne discesero salari infimi, condizioni di lavoro infami, uso di minori, prepotenze e ricatti.
Ciò malgrado il proletariato, anche il più disperato, seppe reagire. Dall’Europa erano arrivate non solo braccia, ma anche le idee della Comune di Parigi, del marxismo, dell’anarchismo, del sindacalismo rivoluzionario. Le prime organizzazioni operaie ebbero, necessariamente, la forma di società segrete (Molly Maguires, Knights of Labor). In seguito, acquistata forza, poterono manifestarsi alla luce del sole, e avviarsi a uno scontro che si annunciava epocale. Questo libro narra, per l’appunto, i sommi capi di quel conflitto.
Come finì? Male, per molti versi. Il potere politico non fu nemmeno scalfito (nel Congresso americano ha per esempio seduto un solo rappresentante grosso modo comunista, l’italo-americano Vito Marcantonio), quello dei monopoli industriali e finanziari fu indebolito solo un poco e per brevi periodi. Furono varate leggi, operanti anche dopo la fine del maccartismo, per tenere lontani i sindacati non complici — ma pure quelli complici — dai luoghi di lavoro. E’ ancora così, e l’azione di Marchionne con la Fiat, insolita per l’Italia, rappresenta per gli Stati Uniti la norma.
Tuttavia non tutto l’antagonismo andò perduto. Dopo la storia narrata da Boyer e Morais, la parola passò alle rivolte dei neri, degli studenti, delle femministe. Alcuni sindacati, come quello dei portuali della Costa Occidentale, quello degli elettricisti e altri mantennero la propria integrità. Li si trova ancora oggi a lato del movimento Occupy Wall Street. Persino gli Industrial Workers of the World, che sembravano estinti, hanno avuto un rilancio quali organizzatori del precariato, soprattutto nel settore trascurato della ristorazione veloce.
La storia di Boyer e Morais ha dunque un seguito, che si prolunga nel presente. Per capirlo, però, occorre conoscerne le origini. L’opposizione di sinistra americana è viva e vegeta, e personaggi come il reverendo Jackson e Angela Davis seguitano a incarnarla. Con loro migliaia di lavoratori di tutte le razze, e non pochi sindacati. Prigionieri di un sistema politico presunto democratico, che non dà visibilità a chi non possa comperarla.