di Alessandro Villari
Maria Elena Scandaliato, La strategia del maglione. Sergio Marchionne e l’Italia, ed. Aliberti, 2011, pp. 314, € 17,00.
“Milano, autunno del 1988. Walter Molinaro, operaio specializzato dell’Alfa Lancia di Arese, è convocato nell’ufficio del direttore del personale”. Gli viene offerta una super promozione, un posto in uno dei reparti più prestigiosi dell’azienda. “In cambio, la FIAT gli pone solo una piccola, trascurabile condizione: che abbandoni la tessera della FIOM”. Ma “Molinaro dice no. Saluta il direttore ed esce dall’ufficio, rifiutando l’offerta.”
Inizia così La strategia del maglione di Maria Elena Scandaliato, uno dei libri più importanti che abbia letto ultimamente: il “Maglione”, naturalmente, è Sergio Marchionne, vero e proprio emblema della classe padronale italiana che negli ultimi 30 anni si è ripresa tutto, o quasi, quello che i lavoratori avevano faticosamente conquistato nei decenni precedenti.
Il conflitto di classe è la lente attraverso cui l’autrice racconta la parabola della FIAT dagli Anni Ottanta a oggi, soffermandosi in particolare sugli ultimi 7 anni, quelli della gestione Marchionne, con chiarezza, precisione e una straordinaria attenzione alle fonti.
Il primo risultato di questa prosa è smontare il mito dell’Amministratore Delegato uomo della Provvidenza, che con una serie di colpi di genio avrebbe salvato FIAT senza chiedere un soldo allo Stato: questa è la vulgata che circola nei bar, nelle trasmissioni di Fabio Fazio e nei circoli del PD. Ma non è che una favola: automazione e deroghe al contratto nazionale erano stati abbondantemente sperimentati già a Melfi nel 1993, ben prima che a Pomigliano; la ricerca spasmodica di finanziamenti pubblici non solo non è cessata con l’avvento di Marchionne, ma è anzi la molla principale della fuga della FIAT presso altri lidi (Brasile, USA, Serbia) più generosi dello Stato italiano, ormai prosciugato dopo decenni di incentivi e ammortizzatori sociali regalati all’azienda di Torino; neppure c’è nulla di nuovo nel tentativo di emarginare il dissenso organizzato, in particolare quello organizzato dalla FIOM. Insomma, si può ben dire che Marchionne si è mosso in realtà nel solco dei suoi predecessori, seguendo una linea che era già tracciata da almeno 20 anni in casa Agnelli.
La vera differenza rispetto al passato sta nei risultati e nella facilità con cui il manager italo-canadese è riuscito a imporli: come è stato possibile per Marchionne ottenere in così poco tempo l’abolizione del contratto nazionale per tutto il gruppo FIAT, l’emarginazione della FIOM, il ritorno a condizioni di lavoro in fabbrica non dissimili da quelle degli Anni Cinquanta, e il tutto raccogliendo consensi quasi unanimi? La tesi dell’autrice, condivisibile, è che Marchionne in effetti sia stato fortunato: “abile e spregiudicato, certo: ma anche fortunato. Gli operai di piazza Statuto, infatti, non ci sono più. Al posto loro, si offrono lavoratori polacchi e serbi … È grazie all’esistenza di queste nuove braccia, e alla scomparsa di un’efficace cultura di lotta, che Marchionne ha potuto vincere la battaglia delle relazioni industriali italiane, riportando il padronato agli antichi fulgori del Novecento.”
Proprio la scomparsa di un’efficace cultura di lotta è il tema davvero centrale del libro: “in fondo Marchionne non ha fatto altro ce il lavoro per il quale è lautamente pagato. Ovvero «generare profitto, unico fine dell’impresa», come diceva Cesare Romiti. È il sindacato, piuttosto, ad aver tradito la sua missione naturale, ad aver smesso di combattere al fianco dei lavoratori.”
Qui è scontato (ma non inutile) puntare il dito contro CISL e UIL, ormai totalmente integrate e organiche alle logiche dell’azienda. Giorgio Cremaschi, nella bella intervista che chiude il volume, definisce con ragione questo fenomeno, di vero e proprio sindacalismo giallo. Ma non basta. Le colpe maggiori, secondo la Scandaliato, ricadono sulla CGIL, che ha rinunciato da tempo a organizzare le lotte dei lavoratori per assumere sempre più marcatamente un ruolo di controllo e freno del conflitto, in favore di una concertazione sempre più al ribasso. Il culmine di questo processo è l’accordo del 28 giugno 2011, dettagliatamente spiegato nei suoi effetti deleteri: la firma di Susanna Camusso, ribadita ancora in settembre, decreta la fine del principio della inderogabilità in peggio dei contratti collettivi nazionali da parte di quelli aziendali, esponendo tutti i lavoratori italiani ai capricci e ai ricatti del padronato. Non manca neppure l’appello congiunto delle “parti sociali” al governo (il governo Berlusconi!) perché intervenga legislativamente in favore della contrattazione aziendale.
Ed ecco spalancata la porta all’affondo finale: passano poche settimane e l’art. 8 della manovra di Ferragosto conferisce al contratto aziendale il potere di derogare addirittura alla legge, con tanto di efficacia retroattiva ritagliata ad hoc per blindare gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, come chiedeva Marchionne. Con un colpo di penna sono di fatto cancellati tutti i diritti acquisiti dai lavoratori italiani in decenni di lotte, compreso il diritto alla reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, sancito dall’Articolo 18 dello Statuto. E, come commenta giustamente l’autrice, “Sacconi non aveva dovuto neppure faticare troppo, per costruire la gabbia in cui costringere gli operai: bastava richiamarsi all’accordo del 28 giugno, sottoscritto dalla CGIL di Susanna Camusso”.
Neppure la FIOM si salva da un giudizio, quantomeno, di inadeguatezza di fronte agli attacchi padronali. Pesano i cedimenti di ieri (ad esempio i citati accordi in deroga per lo stabilimento di Melfi nel 1993, spiegati in modo fin troppo eloquente nell’intervista a un ex funzionario FIOM, oggi dirigente del PD) e le contraddizioni di oggi (come l’adesione all’accordo in deroga per lo stabilimento di Grugliasco, pur identico a quelli rifiutati altrove). Potranno sembrare critiche ingenerose nei confronti di un sindacato che pure ha offerto una resistenza di valore di fronte ai ricatti padronali, e in pressoché totale isolamento; tuttavia le considerazioni della Scandaliato colgono nel segno: ne è una conferma il fatto che nelle scorse settimane (dunque dopo la pubblicazione del libro) la maggioranza della FIOM abbia accettato che vengano sottoposti a referendum gli accordi che estendono a tutto il gruppo FIAT il modello di Pomigliano e Mirafiori. Referendum che erano stati respinti come illegittimi ricatti in Campania e a Torino.
Senza più poter contare sul sostegno e la guida delle loro organizzazioni tradizionali, come possono i lavoratori italiani riconquistare i propri diritti? Non è lo scopo del libro rispondere a questa domanda. Eppure qualche spunto si trova tra le righe: a Pomigliano “milleseicentocinquantasette uomini e donne avevano messo la dignità e il futuro dei loro figli, con grande coscienza politica, prima del più elementare bisogno di lavoro e di salario, per quanto misero fosse.” A Mirafiori sono stati ancora di più a rispondere al padrone con un “No”. Proprio come Walter Molinaro nel 1988. Finché ci saranno lavoratori come questi, il padronato non avrà vinto la guerra.