di Marilù Oliva
“La banda degli invisibili” di Fabio Bartolomei, edizioni e/o, 2012, euro 16,50
Il tempo è in gran parte trascorso, la vita volge alla parabola discendente per i membri de “La banda degli invisibili”, nuova interessante prova narrativa — uscita proprio oggi in libreria —, del pubblicitario e sceneggiatore Fabio Bartolomei, dopo “Giulia 1300 e altri miracoli”, voluti entrambi da edizioni e/o. Un gruppo di ottuagenari, annoiati dall’inattività e vilipesi dalle precarie condizioni economiche, impiega il proprio tempo in bricconerie esilaranti. Gag di svenimento, auto blu bloccate, dispetti inflitti a proprietarie di cagnolini che defecano senza ritegno, bambini molesti addormentati: queste e molte altre imprese inventano, i vecchietti, e se qualcuno chiede loro se non abbiano niente di meglio di fare, la risposta arriva senza esitazioni: «No, alla nostra età non abbiamo niente di meglio da fare che continuare a occuparci delle assurdità del nostro Paese».
La voce narrante è quella di Angelo, ex partigiano che da giovane tendeva agguati alla Wehrmacht e ora è costretto a fare i conti con una pensione minima, ma soprattutto con le anomalie di una democrazia che si è sudato col sangue, insieme a compagni con il valore della libertà ben saldo e quindi non barattabile con la bonifica delle paludi pontine o con le altre così dette “cose buone del fascismo”. I nonni sono disorientati e si sostengono a vicenda, in un quartiere romano — la Montagnola — in cui sono cresciuti e in cui ciascuno è stato spettatore di nascite, morti e miracoli degli altri autoctoni. Pochissimi soldi, quasi miseria, scarsa considerazione raccolta in giro: ecco il loro pane quotidiano. Ma loro si nutrono di altro — anche se non disdegnano lauti pranzetti fuorisede. Ciascuno col suo testamento, ciascuno coi suoi acciacchi, hanno però la lucidità disincantata di leggere la vita quale essa è, senza fronzoli. E a maggior ragione la politica, tanto diversa dai tempi di guerra: «Combattevo un esercito e sapevo cosa fare. Adesso è diverso, il nemico è subdolo, si presenta in giacca e cravatta e parla forbito. Come si combattono questi? Come si reagisce quando uno t’insulta nascosto dentro un televisore privandoti codardamente del tuo diritto di rispondergli? Siamo vecchi ma non così rimbambiti da ascoltare in silenzio certe assurdità». In questo clima di insofferenza partoriscono la grandiosa idea: rapire Berlusconi e costringerlo a chiedere scusa agli italiani. Ce la faranno? Da me non lo saprete, però concludo dicendo che il romanzo è spassosissimo, pur con le sue punte di amarezza e perfino di romanticismo. Eh sì, perché il tenerissimo Angelo è innamorato dell’attempata Lauretta, passo da bersagliere e cuffiette alle orecchie, devota al suo corso di francese. Nemmeno quest’attrazione vi dico come andrà a finire, anticipo solo che quando lei saluta, il suo bonjour dalla flessione romanesca è ancora in grado di smuovere più di un anziano.
“Scomparso” di Joseph Hansen, Elliot Edizioni, 2012, euro 14
Primo romanzo della serie Dave Brandstetter Mysteries, “Scomparso” racconta le indagini di Brandstetter, investigatore per una società di assicurazioni. Il participio passato del titolo si riferisce a Fox Olsen, ammirato speaker radiofonico e musicista nonché scrittore mancato, di cui viene trovata la macchina sotto a un ponte. Qualcuno pensa che sia morto — in primis la polizia, che lo dichiara deceduto causa incidente — e già si staglia nell’immaginazione di alcuni interessati il consistente rimborso assicurativo. Di fatto, però, il corpo è sparito.
Cosa c’entra, col tempo, questo romanzo ambientato nella californiana cittadina di Pima? C’entra eccome, perché le atmosfere sono le stesse di “Cronaca di una morte annunciata”: una storia ricomposta attraverso le testimonianze, i ricordi, momenti sovrapposti appartenenti a un duplice passato: prossimo e remoto. Sono proprio le reminescenze le tracce sui cui si orienta Brandstetter, sfogliando il tempo in pagine a volte amare, altre interrotte, altre nostalgiche. Come i ricordi della prima interrogata, la moglie di Olson, una donnina minuta dai capelli castano grigi con taglio da maschio. Dalle sue parole comincia la costruzione all’indietro di una vita apparentemente inghiottita dal nulla, detection portata avanti da un protagonista ben lontano dagli stereotipi dell’hard boiled: veterano della guerra di Corea, Brandstetter è fermo ma educato e addirittura incline alla pietas. Finalmente un uomo disinteressato al fascino di eventuali dark ladies, vive la sua omosessualità senza tentennamenti: bellissimi sono i momenti in cui torna col pensiero alla grande storia d’amore della sua vita.
Quanto alle atmosfere, si è parlato di Chandler e Ross Macdonald, ma, oltre a una scrittura impeccabile — ottima resa dei dialoghi, personaggi verosimili, padronanza maestra degli elementi classici del whodunit — la parola d’ordine è delicatezza. Delicatezza nel linguaggio elegante e pulito, delicatezza nell’animo di Brandstetter, uomo che non hanno svilito né la conoscenza delle brutture del mondo né l’esperienza del dolore.
Due paroline sulla storia editoriale di questo romanzo. Edito negli Stati Uniti nel 1970, “Scomparso” — “Fadeout” — inaugura una serie dedicata a un detective privato dichiaratamente gay. Si tratta di 12 gialli (gli altri undici usciranno in Italia per Elliot) diventati in America una saga di culto, pubblicati fino al 1991, anno che vide le stampe dell’ultimo, “A country of old men”. Interessante la biografia dell’autore: nato nel 1923 in South Dakota e scomparso nel 2004 a Laguna Beach, in California, Joseph Hansen è stato poeta e scrittore, ma soprattutto pioniere nella lotta per i diritti omosessuali: nel 1970, partecipò alla realizzazione del primo Gay Pride a Hollywood, nel 1992 vinse il Premio alla carriera dell’associazione Private Eye Writers of America e il Lambda Literary Award for Gay Men’s Mystery della Lambda Literary Foundation.
“L’universo in un guscio di noce” di Stephen Hawking, Arnoldo Mondadori, 2002, euro 14
Volevo partire da qui ma ho preferito posizionare questa recensione in conclusione perché mi sembra che Stephen Hawking chiuda egregiamente il cerchio del tempo sopra aperto. Nato ad Oxford nel 1942, professore presso la stessa cattedra lucasiana che fu di Isaac Newton, insigne matematico, fisico e cosmologo, Hawking è uno dei più accreditati studiosi dell’universo e dei buchi neri. Il buon proposito di “L’universo in un guscio di noce” è lo stesso del precedente (se vogliamo, in parte prequel) “Dal Big Bang ai buchi neri” (1988): raccontarci le sue indagini sull’universo e sui grandi misteri: quando nasce? Come morirà? Cos’è il tempo? Il primo capitolo, “Breve storia della relatività”, è un excursus della fisica del XX secolo imperniato attorno alla figura di Einstein e alle sue due teorie fondamentali: la relatività generale e la meccanica quantistica. Il libro affronta interessanti argomenti e il tempo scorre come filo conduttore in tutto il saggio, ma primeggia come protagonista soprattutto nel secondo capitolo, “La forma del tempo”, in cui viene approfondita la suggestione scientifica di una — per dirle con parole da profana — corposità del tempo. Se la teoria della relatività dimostra l’interconnessione spazio-temporale, quando si incurva lo spazio si incurverà anche il tempo, acquisendo una forma che prevede però una sola direzione. Un tempo calato nell’universo, a forma di pera — se si seguisse a ritroso il cono di luce del passato si scoprirebbe che esso è incurvato dalla materia dell’universo primordiale —, un tempo che può essere perfino immaginario e un tempo che comunque contempla una fine, quando cioè stelle e galassie collassano per la loro stessa gravità, dando vita all’incognita dei buchi neri. Che poi così tanto incognita non è più, grazie anche agli studi dell’autore, che condisce le sue scoperte con sana ironia: «Quando scoprii che secondo la teoria quantistica i buchi neri non erano completamente neri, ricordo che andai a Parigi a tenere un seminario sull’argomento. Il seminario fu un fiasco perché, all’epoca, quasi nessuno a Parigi credeva nei buchi neri. Per di più i francesi avvertivano una connotazione oscena nell’espressione trou noir e ritennero di sostituirla con astre occlus, “stella occlusa”. Me né quella né altre definizioni catturarono l’immaginazione popolare come l’inglese black hole».
La lettura del volume è scorrevole ma alcuni passaggi forse meriterebbero — almeno per i refrattari alla fisica — note didascaliche, perché spesso le illustrazioni che impreziosiscono le quasi tutte 217 pagine non sono sufficienti (alcune sono addirittura inutili). In generale, comunque, il tentativo di accostare gli inesperti alla materia va a buon fine e il professor Hawking riesce di certo, se non a chiarire in toto le complessità del cosmo, almeno a stregare il lettore.