di Mauro Baldrati

baldjedgar.jpgNon è facile per lo spettatore esigente, poco incline al terzismo, recarsi al cinema per assistere alla proiezione di J.Edgar senza soffrire di un pregiudizio iniziale: come può un regista di destra, che alle ultime elezioni ha votato McCain, affrontare un personaggio interno alla storia americana, uomo di potere talmente intoccabile e ambiguo che, per usare un gergo cinematografico, si può definire “attore principale”? Aggiungiamo un’intervista recente dove il regista di destra ha detto la seguente amenità: “se ci fosse stato Hoover ai vertici dell’FBI non avremmo avuto l’11 settembre”. Che retorica da cow boy puritano. L’investigazione come strumento autonomo dalla politica, come valore in sé, l’etica del dovere, dell’onestà, dell’eroe senza macchia. Probabilmente Eastwood è davvero un uomo di quei tempi e di quella retorica, e in quanto tale, in quanto sopravvissuto di una cultura estinta, se mai è esistita veramente, merita rispetto; però a questo punto il pregiudizio diventa “grave”.


L’FBI insabbiò le indagini sull’omicidio Kennedy, che non fu proprio il furtarello di una mela al mercato. Ed è probabile, per non dire sicuro, che fosse al corrente della preparazione dell’attentato, come lo fu dell’assassinio di Malcom X e di Martin Luther King (in questo caso da più parti si dice che partecipò addirittura come attore principale). Fu al corrente dello sbarco alla Baia dei Porci, anche se si trattò di un evento sbracato organizzato dalla CIA con l’ausilio di mafiosi italiani e criminali cubani. Fu dietro a molti degli episodi più oscuri del Potere yankee dell’America reazionaria, aggressiva, preterfascista, corrotta. Ha usato la mafia per i suoi scopi, è stato un protagonista del Terrore maccartista. Ovviamente nulla è stato mai dimostrato nelle aule dei tribunali, ma è di potere occulto che parliamo, di documenti secretati, di insabbiamenti. E chi viene da lontano, chi all’epoca leggeva i giornali del movimento studentesco americano sa che gli attivisti denunciavano le infiltrazione degli agenti dell’FBI che distribuivano eroina ai giovani, per diffondere il morbo della tossicodipendenza e rovinare così il movimento stesso. E al comando dell’FBI sedeva saldamente lui, Hoover, colui che oggi secondo Clint Eastwood avrebbe scongiurato l’11 settembre. Come se dietro all’11 settembre non ci fossero mille zone d’ombra, strumentalizzazioni, manovre interne al potere, tutti aspetti che facevano parte della vita stessa di Hoover. Come se, servo e complice di Johnson negli anni ’60, oggi non sarebbe stato servo e complice di Bush.

E poi chi ha letto Ellroy conosce anche i retroscena più bui del personaggio (in una versione romanzesca, ma non lo è anche quella del film? Oppure nelle intenzioni è un biopic?): uomo e poliziotto amorale, guardone compulsivo, ossessionato dalla vita intima dei presidenti, degli attivisti politici, omosessuale persecutore di omosessuali, falsificatore di prove, spargitore di fango e calunnie sugli oppositori col “pard” Howard Hughes, miliardario drogato, scoppiato, proprietario di giornali che ricordano sinistramente una certa situazione italiana dei nostri giorni.

Nel film, ottimamente interpretato dall’ex ragazzotto morbidoso di Titanic Leonardo DiCaprio, che per questo ruolo punta diretto all’Oscar, non si fa cenno a tutta questa impalcatura dell’FBI e del suo imperituro reggente. Hoover è un uomo ossessionato dal rigore, dalla difesa del sistema americano, per il quale è disposto a sacrificare tutto. Parla come una guardia rossa della Rivoluzione Culturale, per dichiarazioni enfatiche, ideologiche, solo che invece del Glorioso Partito Comunista Cinese c’è l’Inimitabile Sistema Di Vita Americano minacciato dai “radicali” e dai “comunisti”, oltre che dai criminali. È un uomo dal carattere debole ma per questo anche aggressivo e granitico nelle sue idee fisse, con un lato B fatto di fragilità, di ambiguità affettive, di narcisismi che lo spingono a dire bugie, ma bugie piccole, patetiche, come fingere di avere ucciso Dillinger o di avere diretto in prima persona arresti, mentre non si è mai mosso dal suo ufficio. Bugie tutte interne alla psicologia intima e tormentata del personaggio, sul quale il film insiste dal principio alla fine, nulla a che fare con le falsificazioni di indagini, con le bugie istituzionali e l’organizzazione di omicidi. I ricatti ai presidenti, che gli hanno permesso di restare in sella per 48 anni, vengono adombrati in vari episodi, ma la narrazione invisibile e muta che sta dietro alla narrazione oggettiva ci suggerisce che erano tutti a fin di bene, perché Hoover realizzava una sorta di identificazione del sistema americano con la sua stessa persona, per cui le sue menzogne, i ricatti erano funzionali alla sua difesa. Quello che il regista di destra non dice, che non può dire perché va al di là della sua stessa natura di sopravvissuto di una retorica mummificata, è che il concetto non è quello di “difesa”, ma di attacco, di aggressione, perché quel sistema era votato all’imperialismo e alla distruzione di ogni ostacolo che si sovrapponesse al suo dominio sul mondo. E Hoover era a capo di una squadra speciale d’assalto. Un capo psicologicamente devastato dalla dipendenza dalla madre (“sì mamma” è una delle frasi più ricorrenti), dalla sua omosessualità latente che gli impedisce di essere quel “macho” che invece la madre avrebbe voluto, un narcisista frustrato, un bambino mai del tutto cresciuto: tutti lati del suo carattere che lo rendono così contraddittorio, così “umano”, ma che nulla tolgono al suo ruolo di patriota severo e integerrimo. Anzi, lo rendono più credibile perché “vero”. Che è l’aspetto sul quale si sono prodigati i critici quando parlano di “lato oscuro”, e che costituisce la sua dote per l’Oscar.

Fin qui la struttura narrativa per così dire sovraordinata, oggettiva. Ma il film com’è veramente, potrebbe chiedere qualcuno? La pellicole scorre lentissima, con un doppio segmento temporale, Hoover anziano, ancora in auge, ancora ricevuto dal presidente di turno (il rozzo e violento Nixon, che lo definirà “quel vecchio scassacazzi”) intento a dettare le sue memorie a un agente-scrittore. Poi la scena cambia di colpo e lui torna giovane, sempre elegante, lucido, determinato. Lo seguiamo mentre organizza l’FBI primordiale (i leggendari “G-Men”), crea il primo archivio centralizzato delle impronte digitali (dettaglio che ha mandato in visibilio Eastwood), le studia tutte per fregare “i radicali” (con l’apparizione di una antipatica parodia di Emma Goldman), nel continuo sovrapporsi dei piani temporali in una epopea lunga quasi mezzo secolo. È sapientemente diretto, perché di Eastwood si può dire tutto ma non che non sappia dirigere; DiCaprio è da tempo diventato un attore vero, i costumi sono curati, così gli arredi, le auto, i personaggi. Ma il regista sembra non darsi pace, insiste con puntiglio nel tentativo di realizzare un’opera dove il privato diventa pubblico, perché la storia è un intrico doloroso di contraddizioni, tragedie, umane debolezze, ed è anche attraverso i drammi individuali che nasce un’epica. Ma forse lo spettatore ignaro della storia di Hoover, che è andato al cinema perché si deve fare, perché è l’ultima opera di Eastwood in odore di Oscar, perché ci vanno tutti, “sente” che è un film pieno di buchi, di reticenze, di piani falsati, con un accanimento psicologico che alla lunga risulta inutile. Così in una delle cinque sale bolognesi, strapiena, gli spettatori erano sprofondati nelle poltrone. Il silenzio era assoluto. Incombeva una cappa dotata di densità, peso specifico.

E alla domanda di un improvvisato intervistatore, all’uscita, le facce stropicciate di uomini e donne non riuscivano a rilassarsi in un sorriso, mentre la risposta era sempre la stessa: “Mah?! Che peso. Ne ho dormito circa la metà.”