di Claudio Cazzola
Sophie Nezri-Dufour, Il giardino dei Finzi-Contini: una fiaba nascosta, Fernandel, Ravenna, 2011, pp. 156 €12.00
A mo’ di anticipazione possiamo dire che le funzioni sono straordinariamente poche e i personaggi straordinariamente numerosi.
Se si dovesse scegliere una sentenza proppiana atta a suggerire la chiave di accesso al lavoro indicato sopra, nessuna meglio della presente potrebbe prestarsi allo scopo, magari glossata dalla seguente a stretto giro di pagina [1]:
Gli elementi costanti, stabili della favola sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione. Esse formano le parti componenti fondamentali della favola.
Muniti di tanto viatico, siamo ora attrezzati per delibare la ricerca della studiosa francese, la quale sottopone il bassaniano Libro terzo del Romanzo di Ferrara ad una disamina robustamente strutturata secondo le linee metodologiche appena riportate.
Il capitolo primo (pp. 13-47) è dedicato alla presentazione generale del tema, a partire dall’esordio fiabesco — il prologo etrusco a confronto con la magna domus — e, attraverso una prima identificazione dell’eroe io narrante e del suo antagonista Malnate, si giunge alla locandina ove sono inscritti gli aiutanti preziosi: Micòl ed il professor Ermanno padre suo in primis; a seguire, il rito di iniziazione che comporta la conoscenza del luogo sacro segreto, attraverso il viaggio come tentativo, da parte dell’eroe, di una conquista identitaria, che sarà, alla fine, la certezza che per lui si delinea un avvenire di scrittore (p. 47). Presentate in tal modo i confini esterni della narrazione, apprendiamo nel capitolo successivo (pp. 49-86) quali siano i luoghi simbolici e iniziatici (“regressus ad uterum” viene definita la discesa nella profondità della terra p. 51), ove non può mancare l’ostacolo obbligatorio della foresta incantata, attraverso l’attraversamento della quale si può giungere al castello, luogo sempre separato dal resto del mondo (p. 59). Ebbene, proprio all’interno del castro fortificato, là dove l’accesso è negato a chiunque non sia iniziato, è collocata la torre, vale a dire il recesso segreto adibito a stanza esclusiva della principessa Micòl, alla quale sono dedicate, et pour cause, pagine illuminanti (pp. 69-81), laddove si enuclea in modo egregio l’essenza profondamente ambigua di codesto personaggio, fata-ondina-strega nello stesso tempo — e la memoria di tutti vola alle epifanie femminili dell’Odissea, non ultima quella di Nausicaa, la fanciulla-nave (da giusta etimologia del nome proprio) che salva il naufrago da morte certa: e se vi è la figlia, ecco allora, accanto a lei il padre Alcinoo-Ermanno, non a caso chiamato, a p. 81, il vecchio re. Il quadrante cartesiano spazio-temporale si accampa, nel capitolo terzo (pp. 87-126), subito sotto il segno della atemporalità che regna nel luogo magico dei Finzi-Contini, mentre fuori gli eventi infuriano (p. 87). Se dunque la nozione del tempo è duplice e connotata da polarità opposte a seconda che ci si trovi all’interno ovvero all’esterno della magna domus, pure lo spazio allora subirà la medesima scissione inconciliabile, tanto più che il giardino di Micòl rappresenta l’Eden, il paradiso, da cui l’eroe sarà poi escluso, e alle cui delizie sognerà allora disperatamente di ritornare (pp. 95-96): in un simile hortus conclusus vivono figure altre rispetto al contesto civico della città di pianura. Fra esse spicca il mitico Perotti, guardiano-autista-tuttofare, riedizione del Caronte classico, accompagnato regolarmente dal cane Jor, Cerbero redivivo riadattato alla circostanza; la famiglia del Perotti, poi, che vive in un improbabile mondo bucolico popolato di eredi della Magna Mater mediterranea come la uxor Vittorina, capace di ammannire alla signorina (anzi, sgnurina, in lingua ferrarese) una minestra di fagioli davvero paradisiaca e la nuora, colta nell’atto sacrale dell’allattamento; senza trascurare altri esseri secondari, come se la foresta dei Finzi-Contini fosse popolata da una moltitudine di «folletti» misteriosi (p. 107). Giunta in tal modo al termine della tela con attenta acribia intrecciata, a guisa di Elena iliadica Sophie Nezri-Dufour mette il suggello della propria lettura originale attraverso il quarto ed ultimo capitolo, che già dal titolo (una fiaba particolare) rivela l’intento metodologico perseguito: l’adesione ai dettami proppiani altro non è che un mezzo, uno strumento, un tramite provvisorio per andare anche oltre la conquista consolidata dalla letteratura critica. Questo sconfinamento fertile per il lettore poggia sulle sobrie pagine finali, in particolare quelle dedicate alla assenza di lieto fine (pp. 128-131), ove è avvertibile a livello palmare quanta importanza rivesta, per Bassani, il magistero manzoniano dei Promessi Sposi, il cui capitolo trentottesimo rappresenta il trionfo della non fiaba, con la lucida negazione, appunto, di un finale positivo, quale segno indelebile di sfiducia nei confronti dell’agire umano. Se per don Lisander poi il varco verso la Salute può essere donato dalla grazia della Provvidenza, è certo che nel cosmo bassaniano una eventuale scialuppa di sopravvivenza, e personale e collettiva, alberga solamente nella scrittura [2].
Come il critico russo per la studiosa francese, così pure — si licet parvis componere magna — il ruolo di Sophie Nezri-Dufour per l’estensore di queste note, il quale, ispirato dal cassetto degli attrezzi generosamente offerto, ha seguito l’itinerario dell’io narrante a partire dalla lettura dei risultati scolastici di fine anno. Come è universalmente noto, nel passaggio dalla quarta alla quinta classe ginnasiale Giorgio Bassani subisce uno stop, provvisorio, in matematica, da riparare — come si diceva fino a qualche tempo fa — a settembre; simile sorte accade all’eroe del testo, il quale, alla vista di un numero vergato in rosso sui tabelloni degli scrutini accanto al suo nome, entra in crisi di identità, inforca la bicicletta e, invece di prendere la strada verso casa, si dirige dalla parte opposta senza apparente meta, con l’intenzione sola di fuggire il consorzio umano — premessa indispensabile per l’imminente viaggio nell’Aldilà. Vaga dunque il nostro lungo le Mura degli Angeli, intorno alle quali deserto assoluto [3]:
In giro deserto assoluto. Il viottolo di terra battuta che, come un sonnambulo, avevo percorso fin lì da Porta San Giovanni, proseguiva serpeggiando fra i tronchi secolari verso Porta San Benedetto e la stazione ferroviaria. Mi sdraiai bocconi nell’erba accanto alla bicicletta, col viso che mi scottava nascosto fra le braccia. Aria calda e ventilata attorno al corpo disteso, desiderio esclusivo di rimanere il più a lungo possibile così, ad occhi chiusi. Nel coro narcotizzante delle cicale qualche suono non lontano spiccava isolato: un grido di gallo, uno sbattere di panni prodotto verosimilmente da una lavandaia attardatasi a fare bucato nell’acqua verdastra del canale Panfilio, e infine, vicinissimo, a pochi centimetri dall’orecchio, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità.
La scrittura non può essere, in codesto frangente, più bassaniana di così, dal punto di vista del labor limae, vale a dire quel controllo meticoloso e mai del tutto soddisfatto sia del repertorio lessicale sia della struttura sintattica. Intanto, preliminarmente, eliminazione totale di presenze antropiche, azione atta a favorire l’isolamento dell’eroe; in secondo luogo, la normale strada, via di comunicazione e di scambio urbano, è sostituita da un viottolo di terra battuta, con una significativa regressione ad uno stato pre-civile, laddove il varco non risponde ad una logica razionalizzante, visto che prosegue serpeggiando, e dunque si rivela prodotto più da intervento di animali alla ricerca di cibo che di un piano regolatore; infine, l’assunzione della posizione distesa a terra col volto rivolto verso il basso, il che vale essere disponibili ad una umiltà totale, precondizione necessaria per ricevere l’accoglienza di una esperienza misterica, chiusi gli occhi fisici al mondo. A questo punto, negata la vista materiale, viene esaltato l’aspetto auricolare, con l’innalzamento il più possibile delle antenne uditive, alle quali giungono tre (non sfugga il numero sacro per antonomasia) messaggi decisivi. Il primo proviene dal coro narcotizzante delle cicale, il cui stridio incessante e sempre uguale rimanda alle esibizioni dei coribanti ovvero delle baccanti, il corteo rumoreggiante e rimbombante che accompagna l’epifania del dio Dioniso-Bacco, la divinità dell’estasi, dell’uscita di testa, dell’abbandono della lucidità razionale; in secondo luogo, un grido di gallo, il quale, come suono emesso nel pomeriggio [4] annuncia mala ventura e catastrofe, secondo le credenze popolari ancora vive nel territorio ferrarese specie del contado; in terzo luogo, il tonfo cadenzato (una reminiscenza pascoliana?) dello sbattere di panni presso la riva del canale Panfilio, corso d’acqua che davvero esiste nella città di pianura, ma è sotterraneo, chiuso cioè in tombini sotto l’attuale viale Cavour che mena dal Castello Estense a fuori Porta San Benedetto verso la stazione ferroviaria, e dunque rivo infernale; infine, a conclusione dell’itinerario di avvicinamento all’organo corporeo qui esaltato, il ticchettio via via più lento della ruota posteriore della bicicletta ancora in cerca del punto di immobilità. Raggiungiamo qui il punto più controllato del contesto, vera e propria klimax della rappresentazione teatrale di una morte favolisticamente apparente ma non per questo meno veritiera: l’affievolirsi, lento ma inesorabile, del rumore prodotto dai cuscinetti a sfera della corona su cui insiste la catena in corrispondenza della ruota posteriore del mezzo di trasporto rinvia allo spegnersi di ogni contatto con il mondo materiale, privilegio appunto dell’eroe, che solo può accedere così all’Altro da Sé. Come Odisseo muore dopo il naufragio e solo un grido femmineo riesce a risvegliarlo per incontrare Nausicaa, così l’io narrante, ripulite le orecchie dalle scorie della vita quotidiana, stenta ad avvertire il suono, quasi impercettibile, della propria Kore, la fanciulla dell’Ade [5]:
«Pss.»
Mi svegliai di soprassalto.
«Pss!»
Alzai lentamente il capo, girandolo a sinistra, dalla parte del sole. Sbattei le palpebre. Chi mi chiamava?
Ecco, sempre attraverso l’esperienza auricolare, il contatto con il mondo dell’oltretomba, la cui guida sarà identificabile ancora più tardi, dopo aver ascoltato l’enunciato seguente [6]:
«Ehi, ma sei proprio anche cieco!», fece una voce allegra di ragazza.
La constatazione della cecità non appaia peregrina — non lasciamoci fuorviare dal tono apparentemente canzonatorio adottato dall’emittente —, trattandosi viceversa di una condizione degna del tropo alto-mimetico, vale a dire tipica di colui che viene privato della vista materiale per poter assumere altra vista, quella della visione. Non per niente altro Omero, il poeta sovrano per antonomasia, viene da sempre ritratto, e ritenuto, cieco, metamorfosi indispensabile per accogliere l’ispirazione sacra della Musa, e poter quindi compiere il Viaggio della conoscenza dentro di sé [7].
Note
[1] Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba, con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una replica dell’autore, a cura di Gian Luigi Bravo, Einaudi, Torino, 1988, pp. 26-27.
[2] Ed in modo analogo si conclude la ricerca di Sophie Nezri-Dufour: «Legato all’inquietudine dell’esistenza e alla ricerca di senso, Il giardino, vero testo di saggezza, si assimilerebbe per questo quasi al “conte philosophique” settecentesco, pur ricollegandosi sempre alle radici primigenie della fiaba, dalla dimensione metaforica e magica. Ed è questo incontro originale che spiega anche il fascino delle pagine bassaniane, posto com’è all’origine di un discorso carico di immagini e di elementi meravigliosi, creatore di un microcosmo altamente poetico e fatato, e insieme ragione di una riflessione profonda sul senso della vita e sull’assurdità dell’esistenza, salvata forse solo dall’intervento della scrittura» (pp. 150-151).
[3] Da qui in poi si cita da Giorgio Bassani, Opere, a cura e con un saggio di Roberto Cotroneo, Mondadori, Milano, 2001 [1998¹]. Siamo per l’esattezza a p. 352.
[4] Basti dire che verso le due del pomeriggio vagavo tuttora in bicicletta lungo le Mura degli Angeli ecc. (medesima pagina).
[5] Ivi, p. 353.
[6] Ivi, p. 354.
[7] Per il contesto e la continuazione di questa lettura mi permetto di rinviare al mio contributo Kore l’oscura: (in)seguendo Micòl, in Poscritto a Giorgio Bassani. Raccolta di saggi critici nel decimo anniversario della morte, a cura di R. Antognini e R. Blumenfeld, LED Edizioni Universitarie, Milano [di imminente pubblicazione].