di Sandro Moiso
Lorenzo Pezzica, Le magnifiche ribelli 1917-1921, eléuthera 2017, pp. 200, € 15,00
Ti bacerà sul petto la mia palla,
io sulla bocca.
(Anna Barkòva)
A un secolo di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre diventa sempre più evidente l’importanza del ruolo giocato dalle donne all’interno degli eventi drammatici che la accompagnarono e coronarono.
Prima dando vita a quelle manifestazioni che a partire dal 23 febbraio (8 marzo) 1917 avrebbero scatenato la tempesta che nel giro di pochi giorni avrebbe rovesciato un regime autocratico che durava da cinque secoli.
Poi attraverso la lotta che le stesse avrebbero condotto per far sì che quella prima rivoluzione proletaria e socialista non dimenticasse le differenze e le specificità legate alla loro condizione che ancora costituivano un ostacolo alla piena e reale liberazione del genere umano dalle catene dell’oppressione di classe e di genere.
Infine con la lotta serrata che molte di esse, dentro e soprattutto fuori dal partito bolscevico rapidamente salito al potere, condussero per opporsi alla degenerazione non solo progettuale di una rivoluzione che, nata in nome del trionfo dell’eguaglianza sociale ed economica, avrebbe portato ad uno dei regimi massimamente responsabili per il trionfo della controrivoluzione su scala planetaria.
Il volume intenso e serrato di Lorenzo Pezzica, che si era già occupato in parte dell’argomento nel precedente Anarchiche. Donne ribelli del Novecento,1 si occupa fondamentalmente dell’ultimo dei tre punti sopra elencati e lo fa con passione e indiscutibile efficacia. Anche se talvolta le fonti storiografiche utilizzate per la ricostruzione generale del periodo affrontato (1917-1921) appaiono un po’ limitate e segnate dalle interpretazioni liberali tipiche della meritoria, ma pur sempre “orientata”, storiografia anglo-sassone.2
Tenendo come filo conduttore per una parte del testo l’autobiografia dell’anarchica americana di origine russa Emma Goldman,3 che tra il gennaio del 1920 e la primavera del 1921 ebbe modo di compiere un lungo viaggio attraverso il paese dei soviet per osservare più da vicino quella rivoluzione che aveva acceso in lei, come in tanti altri anarchici, grandi speranza in un prossimo avvicinarsi della rivoluzione mondiale, l’autore traccia le sintetiche e più che drammatiche vicende che accompagnarono le vite di Fanya Baron, Marija Nikiforova (meglio conosciuta come Marusja), Fanya Kaplan (detta anche Dora), Marija Spiridonova, Irina Kakhovskaja, Ida Mett, Mollie Steimer (pseudonimo di Marthe Alperine), Senya Fleshin, Marija Veger, Marija Korshunova (nota tra i lavoratori di Pietrogrado con il soprannome di «Perovskaja») e della poetessa Anna Barkòva.
Quasi tutte queste donne furono militanti anarchiche o socialiste rivoluzionarie. Tutte pagarono pesantemente con anni di carcere, deportazione, torture, violenze e quasi sempre con la morte la colpa di essere ribelli e rivoluzionarie. Molte avevano impugnato le armi e sparato contro i funzionari dello zar, i generali delle armate bianche o contro i rappresentanti di un bolscevismo ormai tramutatosi in strumento di oppressione. In un caso anche contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente. Molte di loro erano di origine ebraica e diverse, dopo essere emigrate in giovane età in America da sole o con la famiglia per sfuggire ai pogrom e alle persecuzioni che si abbattevano spesso sulle fasce più povere della popolazione di lingua yiddish, tornarono sul suolo russo proprio a seguito dello scoppio della rivoluzione.
Come afferma l’autore:
“Un aspetto fondamentale che lega la maggior parte di queste donne […] è il fatto che racchiudono in sé una seconda «alterità»: oltre all’essere donne, anche l’essere ebree. In effetti, sono state numerose le donne ebree impegnate nei movimenti rivoluzionari, in particolare anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Molte di loro provengono dall’Europa orientale, dove gli ebrei hanno sofferto una particolare condizione di oppressione politica, economica, sociale legata in primo luogo all’antisemitismo. Sono giovani donne nate nell’impero russo, in special modo nei paesi baltici, che spesso abbandonano la terra d’origine in cerca di una vita migliore negli Stati Uniti o nell’Europa occidentale. […] Sono donne che non hanno mai smesso di praticare la dissidenza e che hanno avuto la capacità e la libertà di pensiero di guardare «le cose come sono». […] La loro testimonianza è di una grande onestà intellettuale. Si schierano risolutamente dalla parte della rivoluzione e condividono un modo di percepirla che è largamente diffuso e che sarà poi l’ostacolo maggiore da superare quando esprimeranno ad alta voce il loro dissenso nei confronti del regime bolscevico a causa della piega che questo imprimerà al processo rivoluzionario dopo l’ottobre 1917.
La loro azione, il loro pensiero e le loro riflessioni abitano il quotidiano di quel periodo e si concretizzano in pratiche effettive. E questo perché il loro pensiero è il risultato di un corpo e una mente, di un temperamento contraddittorio, passionale e complesso, intriso di una storia singolare e allo stesso tempo plurale.
Il «tradimento» della rivoluzione – così è vista la conquista del potere da parte dei bolscevichi – non le porta ad abbandonare il desiderio di un cambiamento sociale radicale, semmai ad esasperarlo e renderlo più urgente. La disillusione, accompagnata dalla denuncia di una politica risolta in pura e semplice paura e in delirio di potere, non ne fa delle «controrivoluzionarie», sebbene questo sarà lo scopo della propaganda bolscevica.” 4
Accanto a loro compaiono anche altre donne, anch’esse rivoluzionarie, anch’esse prese negli ingranaggi spietati della rivoluzione in cui, nonostante tutto, cercano di difendere i diritti di genere e affermare una nuova morale sessuale e sociale. Sono bolsceviche come Aleksandra Kollontaj, Angelica Balabanoff, Inessa Armand o la stessa Nadeshda Krupskaja, compagna di Lenin. Anche nei confronti di queste ultime le figure dei leader rivoluzionari bolscevichi, anche i più importanti come Lenin e Trockij, impallidiscono dal punto di vista umano e politico, trascinati come sono in un fiume di cui non possono, non sanno e, forse, non vogliono dirigere la corrente se non canalizzandola in un flusso costante di repressione e negazione di ogni forma di autonomia di classe e di genere.
Scomparse nel Gulag, colpite nei loro affetti, uccise e seviziate nei corridoi più oscuri della Čeka, come Marija Spiridonova torturata e violentata prima dagli agenti della polizia zarista5 e in seguito condannata a lunghe detenzioni in manicomio e infine a morte dai tribunali di Stalin, o ancor prima da quelli messi in atto dai bolscevichi già prima della tragica repressione di Kronstadt, oppure salvatesi soltanto dopo essere state messe nell’impossibilità di esprimere le loro idee, queste rivoluzionarie ferme e coraggiose ci raggiungono ancora oggi con la loro voce e la loro esperienza a cinque generazioni di distanza.
Proprio come la poetessa Anna Barkòva, che passò quasi tutta la sua vita nel Gulag, aveva osato anticipare in una sua poesia:
Chissà, forse tra cinque generazioni
Dopo il terribile straripare del tempo,
il mondo ricorderà l’epoca dei turbamenti
e il mio nome fra gli altri.
Davanti a tanto coraggio e a tanta lucida passione non ci resta altro da fare che chinare il capo in segno di rispetto e ringraziare l’autore che ha voluto così ricordarcele in occasione di questo contraddittorio centenario di una rivoluzione destinata a diventare, sostanzialmente, la prima delle grandi rivoluzioni nazionali asiatiche, ma non la realizzazione effettiva di una comunità umana più giusta ed eguale.
Shake Edizioni 2013 ↩
Valga da esempio il testo di Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori 2016 ↩
Emma Goldman, Vivendo la mia vita: autobiografia. 1889-1899, La Salamandra 1980 e Vivendo la mia vita 1917-1929, Zero in condotta 1993 (che forse qualche editore, magari la stessa eléuthera che già nel 2016 ha dedicato alla rivoluzionaria e femminista americana il testo di Max Leroy, Emma la Rossa. La vita, le battaglie, la gioia di vivere e le disillusioni di Emma Goldman, «la donna più pericolosa d’America», dovrebbe prendere la decisione di ripubblicare) ↩
pp. 10-11 ↩
Marija Spiridonova era stata arrestata e condannata nel 1906 a 11 anni di lavori forzati in Siberia per l’attentato portato a termine contro l’ispettore generale di polizia Gavriil Luznovskij che aveva diretto la repressione dei contadini della regione di Tambov dopo la rivoluzione del 1905. Per un tragico paradosso della Storia quella stessa regione nel 1920 vide ancora i contadini protagonisti di una vasta rivolta contro la leva obbligatoria che, nel 1921, fu duramente repressa dall’armata rossa. La ribellione era stata organizzata militarmente da Aleksandr Stepanovič Antonov (ucciso in combattimento nel 1922 da agenti della Čeka) che, mentre era a capo della Milizia governativa del Soviet di Tambov, era riuscito anche a disarmare le legioni cecoslovacche, autentica spina nel fianco dell’armata rossa durante i primi anni della guerra civile. ↩