di Lara Manni
C’è sempre un passaggio grazie al quale il mondo si sdoppia e diventa altro. In secoli di narrativa fantastica, è stato di volta in volta un portale, un tunnel, una caverna, e poi un anello, un’automobile, un computer. In due romanzi usciti contemporaneamente in Italia a novembre, il passaggio è molto simile: si apre verso il basso, si trova in un luogo accessibile a tutti ma che non è semplice individuare. Nel primo caso, è una scala di emergenza nei pressi di un distributore di benzina, accanto al traffico di una tangenziale di Tokyo. Nel secondo, è una scala invisibile ma tangibile che si apre fra barattoli e verdure nella dispensa di un fast food di Lisbon Falls.
Le similitudini non si fermano qui. Posando il piede su un gradino in Giappone o cercandolo a tentoni nel Maine, si giunge non solo in un luogo, ma in un tempo diverso. In un caso corre parallelamente a quello effettivo, ed è sufficiente, per definirlo, sostituire un numero con una cifra. Nell’altro, il tempo è arretrato e allo stesso tempo immobilizzato in una data (le 11:58 del 9 settembre 1958).
Il tempo è centrale, a ogni modo: passare, come sempre avviene, comporta il perturbare.
Non è quello che fanno gli eroi, da sempre? Passano e sconvolgono. E pur essendo colpevoli di qualcosa, serbano cuore puro e mente sgombra: sono ignari, come Perceval, di quel che si trova “al di là”. Coloro che nei due romanzi attraversano il passaggio sono assassini intorno ai trent’anni. Aomame è addirittura una serial killer: conficca un rompighiaccio custodito come un gioiello nella nuca di uomini che si sono resi colpevoli di violenza contro le donne. Jake Epping spara a uno sconosciuto inginocchiato su una tomba per impedire che diventi a sua volta lo sterminatore della propria famiglia.
Accade molto altro, nelle due storie, che ovviamente differiscono: anche se serbano un’ulteriore continuità, non troppo secondaria, relativa alle componenti che fondano l’esistenza stessa. L’amore e la finitezza: è attraverso una storia d’amore che i protagonisti comprendono quanto gli umani siano accidentali e fragili, e quanto la realtà stessa sia piena di crepe e scricchiolii. Perché infine questo raccontano i due romanzi: lo smarrimento in un reale che cambia e sfuma al passaggio degli uomini.
A dividere i libri in questione, invece, è una percezione critica che non corrisponde a quel che sono davvero: “1Q84” di Murakami Haruki (pubblicato da Einaudi nella traduzione di Giorgio Amitrano) si avvale della definizione di literary fiction. “22/11/63” di Stephen King (uscito per Sperling&Kupfer nella traduzione di Wu Ming 1) di quella, falsata quanto mai, di horror (al massimo, di fantascienza).
Eppure, a farli convergere, è la premessa (o già l’attuazione) di una strada nuova per il fantastico: che viene, per quel che riguarda Murakami Haruki, dopo anni di frequentazione non esplicita del medesimo, almeno fino a un romanzo fa. Infatti, “Kafka sulla spiaggia”, ignorato o quasi da chi in Italia si occupa di fantastico, vince nel 2006 il World Fantasy Award.
Né poteva essere altrimenti: e non solo perché vi sono disseminate foreste stregate e maledizioni arcaiche, spettri e uomini che parlano con i gatti, ma perché entra ed esce dal mito (quello di Edipo in primo luogo). Anzi, narra il reale come Mito. Lo stesso, e di più, in “1Q84”: la realtà, dice il tassista a Aomame nelle prime pagine del libro, è una sola. Dunque, occorre raccontarne la mistificazione.
Stephen King, dal canto suo, arriva a “22/11/63” dopo la durissima metafora politica di “The Dome”, dopo i racconti di “Notte buia, niente stelle”, dove l’elemento soprannaturale non è presente (se non, e in modo ambiguo, in una sola storia) e dopo uno dei racconti più belli che abbia mai scritto, pubblicato la scorsa estate su Internazionale: “Herman Wouk è ancora vivo”, dove il fantastico c’era e non c’era (c’erano molte cose insieme a dire il vero: le tenebre dell’amore materno e la disperazione dei poveri, la forza e l’inutilità della scrittura, e come grazie alla poesia un cristallo insanguinato possa essere un arcobaleno, senza riuscire però a evitare la tragedia).
Questa tematica (quale realtà raccontano i romanzi? E possono cambiarla? E fino a che punto?) è presente sia in “1Q84” sia in “22/11/63”. Murakami lo dice esplicitamente: “Credo che uno dei compiti più importanti di uno scrittore sia attivare quel territorio dello spirito che nella vita quotidiana non viene usato. Per farlo è necessario spostare in posizione On alcuni interruttori che si trovano sul pannello della coscienza. Se si riesce, quei territori di solito addormentati lentamente si risvegliano. I romanzi — cioè i buoni romanzi — hanno questo potere. E se tutto va bene, attraverso quel passaggio segreto che siamo riusciti ad aprire, possiamo mettere piede in un mondo che non siamo abituati a vedere. I miei romanzi mostrano il percorso per arrivare a quel mondo interiore, un percorso che è una metafora che provoca una reazione. Insomma, strutturalmente, ciò che viene narrato dentro il racconto è la sua funzione stessa”.
Anche King lo ribadisce da anni e lo ha confermato in una celebre intervista a “The Paris Review”: “la vera rottura (fra popular e literary fiction, ndr) viene quando ti chiedi se un libro ti coinvolge a livello emotivo. E una volta che quelle leve iniziano ad abbassarsi, molti critici scuotono la testa e dicono No”.
Ma non è solo un problema critico, anche se, soprattutto in Italia, molta critica non solo scuote la testa ma arretra, con disgusto, davanti al fantastico. E non è solo un problema di editori, che oggi al fantastico chiedono soprattutto una cosa: vendere, e tanto, e subito, e che sia “young adult”, per carità. E’ anche un problema di fandom, laddove la separazione fra literary fiction e fantastico viene invocata e ribadita da molti lettori.
Da due strade diverse, si mostra che così non è. E che se c’è una via per sfuggire alla nicchia, alle costrizioni editoriali, al malinteso post-tolkieniano, è proprio quella di sfumare i confini, o di contaminare, dall’interno, il mainstream. Facendo colare un mondo nell’altro, ricordava King: come liquido dal fondo di un sacchetto di carta.