di Franco Pezzini
(da L’indice dei libri del mese, novembre 2011, n. 11)
Dartmoor (Devonshire), agosto. Più di un secolo è passato dall’uscita di The Hound of the Baskervilles (‘The Strand Magazine’, agosto 1901-aprile 1902), l’avventura in assoluto forse più nota della saga dell’Arcidetective di Conan Doyle, e tante cose sono cambiate anche qui: eppure il colpo d’occhio resta quello che così fortemente impressionò lo scrittore durante il famoso soggiorno del 1901, prima a Ipplepen a casa dell’amico giornalista Bertram Fletcher Robinson, e quindi proprio nel cuore della brughiera, a Princetown. Non so immaginare quanto il suo albergo fosse confortevole, ma il villaggio oggi, sotto una pioggerella pungente dal cielo livido, e animato — si fa per dire — dall’evento di una vendita benefica alla scuola elementare, ci appare freddo e semideserto, e sovrastato dalla cupa mole del carcere: quello stesso da cui in The Hound evade lo sciagurato criminale Selden. Basta però concedersi due passi in un vicolo di lato alla strada principale ed ecco un cancello: e di qui il sentiero per la landa, strana e inospitale ma spalancata a una terribile bellezza. E proprio da queste distese punteggiate di erica, ginestra e rovi neri, e qua e là molli di paludi (le famose sabbie mobili, oggi limitate a pochi punti dove onestamente non proviamo ad arrivare), da queste colline con la cima sbucciata in strani massi (gli intraducibili Tor, blocchi di basalto modellati dal vento e dalla pioggia) tra resti preistorici, miniere abbandonate e cavallini selvatici, può essere suggestivo partire per l’esame di alcune ultime edizioni italiane di opere doyliane.
Cominciando ovviamente con Il mastino dei Baskerville fresco uscito per Einaudi (Torino 2011, ET Classici, trad. di Luca Lamberti, pagg. 191 più cinque non numm., euro 10,50) con un’introduzione ampia e di grande interesse dello specialista sherlockiano Enrico Solito — che chiarisce al lettore anche una serie di dubbi piuttosto intriganti, come la scelta del titolo di conservare il termine “mastino” in effetti non corretta per il traduttore purista (hound è piuttosto un cane da caccia). Del resto l’opera tanto nota è piuttosto atipica rispetto al cosiddetto canone sherlockiano. Da un lato infatti postula l’avvenuta eliminazione dell’ingombrante eroe (nel racconto The Final Problem, dicembre 1893), e cioè risulta “ripescata” — a caro prezzo per l’Editore — dagli appunti di Watson; ma in seguito Doyle dovrà accettare di resuscitare Holmes (The Adventure of the Empty House, settembre 1903), spiegando come non fosse morto ma nascosto per sconfiggere i suoi nemici: The Hound si presenta dunque come storia pseudopostuma, situazione almeno particolare per lo statuto mitico-simbolico di un eroe insieme vivo e morto, virtualmente negli Inferi ma destinato a tornare. D’altro canto, per una porzione rilevante del romanzo Holmes è assente dalla scena: per meglio indagare in loco, è ovvio, ma Watson e il lettore non lo sanno, e la condizione di assente/presente sembra ancora una volta intonarsi in modo adeguato a quella dell’eroe “scomparso” (pesando d’altra parte non poco per i registi che porteranno la storia in scena, e dovranno rinunciare a Holmes lungo una fetta tanto cospicua di sceneggiatura). E ancora, l’Arcidetective si trova qui a combattere non uno dei soliti criminali ma una creatura virtualmente metafisica, quasi uscendo dal genere mystery verso i lidi di quel gotico con cui The Hound ha parecchio a che fare — compresa in fondo la soluzione razionalista che Madame Radcliffe avrebbe apprezzato. Se d’altra parte il poliziesco è da un certo punto di vista un derivato dell’epica, Doyle inscena qui una vera e propria teratomachia, con l’eroe schierato contro il Cane/Drago della morte; e recupera anzi genialmente alla letteratura una creatura demoniaca di straordinario impatto nell’immaginario britannico — dove il folklore è fitto di cani-fantasma — ma in realtà allignante in miti di tutta l’Eurasia fin dal Neolitico. Se poi storie non troppo dissimili si sono rincorse per secoli di agiografia, Holmes è il santo laico in grado di esorcizzare (con la pistola, se occorre, ma anzitutto con la ragione) il demone della morte in un ambiente appropriato, quell’Altrove di cupe leggende che è il Dartmoor, in cui — osserva Solito nell’Introduzione — “l’uomo si rende veramente conto di quanto piccolo sia”.
Uno dei personaggi più interessanti di The Hound è senz’altro Mortimer, il bizzarro professionista (non tecnicamente dottore, visto che è solo diplomato, anche se Watson lo considera a tutti gli effetti un collega) che svolge il ruolo di medico condotto della zona e porta il caso all’attenzione di Holmes. Un personaggio che dalla dettagliata presentazione iniziale giudicheremmo pronto per una parte decisamente più ampia di quella poi concessagli dalla trama (tanto che i registi provvedranno a rimpolparla): ma in realtà il suo ruolo è assai più significativo di quanto un lettore distratto possa avvertire. Mortimer svolge anzitutto il ministero di prologo, con dignità quasi teatrale, contestualizzando il caso e fornendo una prima cerniera tra le istanze razionali (come uomo di scienza) e irrazionali (la leggenda del cattivo Hugo Baskerville); è un fanatico della frenologia, evocando nell’idea di un transito di colpe coi caratteri genetici non solo un tema di punta d’epoca (e destinato a tornare in altre opere doyliane) ma una suggestione illuminante sul singolo caso, per lo smascheramento dell’assassino come discendente di Hugo tramite la somiglianza in un ritratto; la sua conoscenza degli abitanti della zona si rivela preziosa durante l’indagine; e al contempo, a livello extratestuale, Mortimer permette al medico Conan Doyle di mostrare con simpatia all’opera l’apostolato “di frontiera” di un collega in una realtà estrema come il Dartmoor. A questo proposito di grande interesse risulta una raccolta doyliana apparsa ora per la prima volta in Italia, La lampada rossa. Storie di medici e medicina, Passigli (Bagno a Ripoli — Firenze, 2011, Passigli Narrativa, a cura di Luca Merlini, pagg. 173 più tre non numm., euro 17,50), che sulla dimensione umana dell’attività medica in età vittoriana offre una collana di vivaci bozzetti — a rammentare come l’Autore, al di là della fortuna dei personaggi seriali e delle loro straordinarie gesta, sapesse gestire anche trame “minori” con scintillante abilità narrativa, toccante sensibilità, felicissime pennellate d’ambiente. Posto che, com’egli spiega in una sorta d’Introduzione, “In Inghilterra, [la lampada rossa] è l’insegna di un medico generico”, della raccolta (Round The Red Lamp, 1894) si offre in questo caso una scelta dei soli racconti con protagonisti medici o situazioni di emergenza legate alla professione. Testi che, in ogni caso, Conan Doyle aveva preferito non pubblicare a puntate per timore di infliggere situazioni troppo crude o questioni troppo specifiche a un più ampio pubblico, e che invece oggi rappresentano una fonte d’intatto piacere per il lettore. Studenti che svengono al primo intervento — o a ciò che ritengono tale — e terribili lasciti dei peccati degli avi, storie di gravidanze e di atroci vendette, tormentose questioni di deontologia professionale, complessi rapporti tra razionalità medica e mondo dei sentimenti: un intero panorama di emozioni, problemi (comprese le fatiche economiche), limiti ed eroismi, e insieme un grande mosaico d’epoca.
In The Hound, il razionalista Holmes si confronta con il sovrannaturale, sia pure fasullo: e il set non poteva essere scelto meglio. Il Dartmoor è greve di tenebrose leggende, storie di streghe e visite diaboliche — per non parlare di quella che più direttamente influenzò il romanzo, la saga del cattivissimo squire Richard Cabell III modello di Hugo Baskerville. Esempio peraltro di una mitopoiesi che continua in età postmoderna, visto che la sua strana tomba blindata a Buckfastleigh, un paesotto ai confini della landa, è considerata meta classica di riti neri e connessa dalla vox populi col rogo doloso che una ventina d’anni fa divorò la chiesa accanto (forse per questo gli abitanti non sembrano ansiosi di parlarne, arrivarci non è facilissimo).
Certo, in The Hound prevale il logos, ma per dubbi e provocazioni del soprannaturale Conan Doyle nutrì crescente interesse: fino ad abbracciare a un certo punto la fede nei tavolini che ballano, “Nuova Rivelazione” che permetterebbe di conciliare istanze scientifiche con qualche tipo di religione organizzata. L’idea può farci sorridere, e tuttavia va collocata in una più ampia dialettica d’epoca tra positivismo e alta marea dell’irrazionale, coinvolgente illustri scienziati, e (sull’altro versante) spiriti che l’Aldilà lo racconterebbero finalmente in diretta, tra tende e centrini ricamati dei salotti borghesi. Spiriti come quelli che infestano la produzione fantastica del Nostro, ben rappresentata per esempio dall’antologia doyliana La scelta del fantasma e altri racconti, per i tipi Avagliano (Roma 2011, collana: La straniera, a cura di Riccardo Reim, trad. di Concetta Genise, pagg. 222 più due non numm., euro 13,00). Dove in realtà accanto alle avventure metapsichiche — che conciliano il fronte dei minuziosi resoconti medianici con le classiche ghost stories da focolare (La mano scura, Lo specchio d’argento, L’imbuto di cuoio, Giocare col fuoco) — ci sono le riletture ironiche, come appunto il delizioso La scelta del fantasma che narra una truffa; mentre i truci fatti de La scure d’argento, in apparenza suscitati da una maledizione, potrebbero spiegarsi in modo più materialistico come frutto di qualche strambo veleno Rosacroce. Nel segno invece di vendette tutte umane sono altri due racconti, Il caso di Lady Sannox (presente anche ne La lampada rossa in quanto coinvolgente un medico) e La dichiarazione di J. Habakuk Jephson — quest’ultimo ricamato su un vero “mistero” irrisolto, il celebre caso della nave Mary Celeste rinvenuta alla deriva, perfettamente in ordine e senza traccia dell’equipaggio (dicembre 1872). A rivelare in fondo, come sotto la lente dell’implacabile Holmes, che il luogo più proprio delle ombre — frustrazioni e paure, colpe e perdoni negati — non è un tavolino a tre gambe, ma quel Dartmoor fascinoso e terribile d’intemperie e paludi che ci teniamo dentro.