di Dziga Cacace
La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro.
Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente.
Poi nel settore “Black music”, zero.
Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour.
Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop.
Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà.
È il 1989 e vi dipingo il quadro: non ho neanche vent’anni, ascolto un sacco di musica, tengo a distanza il metal ma ho una passionaccia per l’hard rock. Una trasgressione controllata, diciamo, borghese: partendo dai suoni nobili dei Cream e di Hendrix sono arrivato ai Thin Lizzy e agli UFO passando per Deep Purple e Led Zeppelin e altre band ancora.
E poi mi piace anche la musica nera, chiaramente. Molto.
Riguardo la politica ho lo stesso caos mentale in testa: grandi rivendicazioni in una confusione dove si mescolano echi passati e istanze attuali.
È in questo nebbione che un bel giorno, scanalando, su VideoMusic – la mai troppo rimpianta VideoMusic, casereccia ed originale molto più della futura MTV – mi capita tra capo e collo un video coloratissimo dove quattro neri pestano come maniscalchi, tra immagini di Martin Luther King, Kennedy e Mussolini.
Aspetta aspetta: mmh, curiosi.
Non c’era la Rete per andare a farsi un’idea o YouTube per rivedersi il video.
No, bisognava aspettare e incrociare le dita che ripassasse il video o magari beccare l’articolo giusto sul giornale – sicuramente all’epoca – giusto: il Mucchio Selvaggio. E allora scopro che esiste un quartetto di neri che picchia duro, che mette in musica rivendicazioni artistiche (e in fondo perché i neri non dovrebbero suonare hard rock?) e politiche, e che è prodotto e distribuito da una major.
E vai di acquisto di Vivid, acquisto che, allora, era un atto di fede: compravi un disco e ti doveva bastare per un po’: erano 15mila lire, 15 sacchi sudati facendo il baby sitter o il cameriere. Trovai solo una musicassetta, mezzo alquanto infelice per certi versi e felicissimo per altri: l’ascolto in una sequenza definita ti costringeva ancor più del vinile (dove le divisioni tra pezzi erano leggibili) a seguire il discorso dell’artista. Era un percorso obbligato e l’album andava assunto nella sua interezza, non per brani.
E questo era un album di debutto eccezionale, sponsorizzato da Mick Jagger e subito amato da critica e pubblico.
Come definirlo? Hard rock con venature funky e noise, echi di Hendrix e James Brown, accenni di hip hop e una produzione scintillante e levigata che esaltava i ritornelli pop. Mettiamoci una voce calda e suadente ma capace di urlare e una chitarra istrionica che poteva accarezzarti con arpeggi alla Curtis Mayfield e sfregiarti con contorsioni metalliche. E poi i testi: i Living Colour accedono ai piani alti della classifica di Billboard (il disco sarà due volte platino, raggiungendo il sesto posto) cantando di diritti negati, razzismo, homeless, fiducia cieca nei leader, consapevolezza nera e privilegio bianco, disoccupazione e yuppies plastificati.
Vernon Reid, chitarrista e leader della band, è cresciuto tra musica pop, Stax, il funk rock di Sly Stone, ovviamente Hendrix ma anche tanto jazz, da quello classico fino a Eric Dolphy e il Coltrane più cosmico, arrivando ai Defunkt.
Le sue linee chitarristiche sono un flusso di coscienza, come il dripping di un Jackson Pollock sulla tela imbastita dalla batteria potentissima di Will Calhoun e dal basso di Muzz Skillings, e in questo turbinio senti il groove micidiale dei Parliament, ma anche il punk dei Gang of Four e dei Clash, l’eredità del CBGB e il sound metropolitano dei Talking Heads.
Vengo conquistato in pieno e da lì rimango innamorato perso di quel sound e di quel discorso. Son venuti altri album, sempre riusciti e premiati dalla critica ma meno facili per il grande pubblico. Dopo l’acclamato Time’s Up (1991) e il durissimo e inesorabile Stain (1993, col nuovo bassista virtuoso, Doug Wimbish) la band scompare dalla luce dei riflettori: la democrazia interna ha portato all’implosione.
Seguono anni di silenzio fino a un insperato ritorno nel 2003, con Collideoscope, album che riprende un discorso effettivamente lasciato a metà.
All’epoca scrivevo per Rolling Stone e mi arriva la proposta di intervistare Reid. Un po’ per il mio inglese, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il compito mi sembra richieda una maggiore preparazione, lascio stare, ma vedo finalmente i Living Colour dal vivo, a Trezzo. Sono sotto il palco e quando i musicisti accedono direttamente dal camerino penso a un effetto speciale, vedendo la nube che li precede. Errore: ganja pura che ci stordisce e inebria durante un concerto fenomenale, cominciato con Back in Black degli AC/DC e punteggiato da tutti i pezzi fondamentali della band, oltre a una durissima Seven Nation Army dei White Stripes, qui da noi non ancora coro da stadio.
Dopo un album interlocutorio del 2009 (The Chair in the Doorway), il silenzio, interrotto l’anno passato da un singolo, una cover di Notorious BIG, Who Shot Ya, tristemente emblematica.
E finalmente, dopo tanta attesa, a settembre 2017 arriva il nuovo album, Shade.
Che è una badilata nei denti, con la chitarra spigolosa di Reid che detta ancora legge, e basso e batteria che hanno un piglio che non trovereste in tante band di biancuzzi arrabbiati. All’attacco crunchy dei Metallica si sovrappone la sinuosità di un Prince (e tantissimo altro ancora, ovviamente), cadenzando il clangore della rabbia di una battaglia per la dignità e il rispetto che sembrava fuori tempo trent’anni fa e che oggi è più rilevante ancora, mannaggia.
L’album – va detto – non è facile, né radiofonico. Qui non c’è nulla di danzereccio, al limite il groove leggero della cover di Inner City Blues, ennesimo omaggio (a Marvin Gaye) che dà le coordinate del lavoro, così come la giustamente trasfigurata Preachin’ Blues di Robert Johnson. Del resto Corey Glover da anni andava annunciando un disco blues. Solo che qui il blues è riletto secondo la lingua arroventata di questi cinquantenni incazzati: non aspettatevi le classiche dodici battute o shuffle allegrotti. Del blues c’è lo spirito, i testi amari aggiornati alla situazione del terzo millennio, c’è l’ossessività ritmica e l’incessante lavoro delle chitarre che non si vergognano di prendersi lo spazio per dei (misurati) assoli, eloquenti nell’esprimere rabbia e dolore.
È stata un’attesa ben ripagata, insomma. E quanto è commovente, dopo anni di lavorazione, trovare un disco eccezionale quando non esistono più i negozi dove venderlo?