di Sandro Moiso
Franco Ghigini, QUANDO SUONAVANO STRADE E PIAZZE. Bande, orchestrine, e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento, Comunita Montana di Valle Trompia 2017, Collana “Gli uomini e le comunità”, pp. 402, € 15,00
Ecco un testo importante per la comprensione dello sviluppo della musica popolare in Italia e del suo collegamento con la “grande” Storia del XX secolo.
Un testo, pubblicato nella (meritoria) collana editoriale della Comunità Montana di Valle Trompia, che difficilmente troverete sui banchi delle librerie, dove al contrario imperversano instant book dedicati alle stelle del business musicale e del mainstream pop giovanile. Che di popolare, specie qui in Italia, hanno poco e molto di più, invece, rivestono i caratteri della programmazione mediatica richiesta dall’industria musicale.
Un testo, quello di Franco Ghigini, che ha richiesto circa vent’anni di lavoro di indagini, interviste e consultazione di archivi, e che si propone come modello di ricerca sia per quanto riguarda la musica tradizionale vera e propria, sia per quanto riguarda la “popular music” nella sua più ampia accezione. In un contesto sociale e culturale, quello italiano, che se da un lato ha visto un grande sviluppo degli studi sulle musiche e le tradizioni popolari tra gli anni cinquanta e settanta, sulla base dei lavori di Ernesto De Martino, Gianni Bosio, Roberto Leydi (tutti variamente influenzati da Alan Lomax, forse il più importante etnomusicologo statunitense insieme al padre John, durante il periodo di assenza dello stesso dagli Stati Uniti a causa della caccia alle streghe del senatore McCarthy), vede oggi una minore attenzione della ricerca (e soprattutto del mercato culturale e librario) nei confronti di tale settore.
Eppure attraverso questo tipo di ricerche la grande Storia (le trasformazioni socio-economiche e culturali avvenute nel passaggio dall’Ottocento al Novecento, il dramma della Prima Guerra Mondiale, l’avvento del fascismo, la Resistenza e la caduta del regime, i primi anni della Repubblica con tutte le loro contraddizioni politiche e sociali) incrocia realmente la storia individuale, delle piccole comunità e delle classi sociali meno ricordate dalla storiografia ufficiale. E tale incrocio di grande e di “piccolo”, anche se tale il secondo non è, restituisce al lettore non soltanto un curioso quadretto sociale ma, piuttosto, il quadro reale di come tali eventi sono stati assorbiti o rigettati, riletti e trasformati oppure passivamente accettati da una parte consistente della Nazione. Di solito quella inizialmente più rimossa dalle memorie storiche.
Perché un ricerca come quella di cui si parla non ridona solo la voce ai gruppi corali, famigliari e non, oppure musicali, ricordandocene i suoni, gli strumenti e i brani “più celebri” (almeno in loco).
Una ricerca del genere, anche soltanto per questo motivo indubbiamente degna di attenzione, ridona la voce a classi sociali e individui, marginali e non, che spesso soltanto attraverso la spontanea creazione musicale sono riusciti o tuttora ancora riescono a dare voce ai propri sentimenti e alle proprie opinioni.
Dalla fine dell’Ottocento, in sintonia col rinnovarsi d’istanze politiche e culturali, si moltiplicarono ovunque bande, fanfare, orchestre mandolinistiche e società filarmoniche. Esse promuovevano peculiari repertori e nuove consuetudini esecutive: un’espressività popolare “moderna”, diversa da quella propriamente etnica o tradizionale, che durante il Novecento sino al secondo dopoguerra evolverà assumendo susseguenti connotazioni stilistiche.
Nello specifico il volume, promosso dall’Associazione Valtrompiacuore ed edito dalla Comunità Montana di Valle Trompia, illustra le molteplici esperienze musicali di ambito popolare nella prima metà del Novecento a Gardone V.T. e in Valle Trompia, opportunamente contestualizzate a livello provinciale e nazionale.
L’opera, accompagnata da un ricchissimo apparato iconografico, ripercorrendo le tradizioni musicali della Val Trompia, dalla fine dell’Ottocento fino agli albori della musica giovanile o beat degli anni ’60, traccia quindi un quadro interessante, variegato e spesso per nulla scontato delle trasformazioni avvenute in un contesto in cui i grandi cambiamenti del ‘900 si sono sommati alla trasformazione di una comunità inizialmente agricolo-montanara, basata sostanzialmente su un’economia di sussistenza, in cui un precoce sviluppo dell’industria metallurgica e dell’economia monetaria aveva rapidamente portato ad una società in cui il lavoro industriale era diventato predominante. Si potrebbe dire dal coro famigliare alla banda e all’orchestrina, anche se ancora in anni recenti tutte e tre queste tradizionali aggregazioni musicali non erano ancora da considerarsi del tutto scomparse.
Data la particolarità dell’opera si ritenuto giusto dare voce all’autore della stessa, attraverso l’intervista che si propone qui di seguito. In calce alla stessa, e per i lettori interessati, seguono le modalità per poterne acquisire una o più copie.
1) Qual è il senso della ricerca etnomusicologica oggi?
Preferisco parlare di funzione piuttosto che di senso. Ritengo che oggi la funzione sia la medesima del passato, ovvero documentare – evidenziandone specificità e correlazioni – le manifestazioni musicali (i repertori, i contesti esecutivi, le modalità conservative ed evolutive, le valenze antropologiche) di un’area geografica, una comunità, un aggruppamento etnico o sociale. La nobile vocazione di generazioni di etnomusicologi – tuttora valida e meritoria – a valorizzare musiche di tradizione spesso marginalizzate, misconosciute e affatto diverse da quelle cosiddette “colte” e “di consumo”, s’offre oggi anche a una nuova declinazione. È quella della popular music, disciplina che mutatis mutandis s’applica con medesimi obiettivi alle innumerevoli forme della fruizione musicale contemporanea, laddove però viene a cadere la netta separazione fra musiche “di consumo” e “altre”. Risulta invece assai interessante studiare quanto e come la musica – non importa se nel villaggio globale o in un ristretto contesto locale – influenzi i comportamenti sociali e da essi sia informata, quali istanze trattenga e quali compiti assolva. Ritengo perciò che – oggi come ieri – l’etnomusicologia ed egualmente la popular music siano una preziosa opportunità conoscitiva per superare grossolane generalizzazioni e intendere l’espressività musicale, oltre che nelle peculiarità formali ed estetiche, come condizione variegata e mutevole che si relaziona fortemente a ragioni culturali e sociali.
2) Quanto tempo hai dedicato alla tua ricerca e quanto tempo hai impiegato per darle l’attuale veste definitiva?
La ricerca presentata nel volume – in precedenza e parallelamente ne ho condotte altre più mirate e assai meno impegnative – è iniziata nel 1995 e ha avuto nel 1996 un primo riscontro nella mia tesi di laurea in Etnomusicologia presso il D.A.M.S. di Bologna. Negli anni successivi ho proseguito, in modo discontinuo, la raccolta di documenti. Dal 2012 ho ripreso la ricerca con nuove interviste biografiche a testimoni, l’acquisizione di ulteriori fondi fotografici familiari e più approfondite indagini in emeroteca e archivi, concludendola durante i mesi di stesura del volume. Mi piace ricordare come non mi sia mai mancato in questi ultimi anni il sostegno filantropico dell’Associazione Valtrompiacuore, anche promotrice del volume. La ricerca e il volume “Quando suonavano strade e piazze” sono stati perciò il mio cimento e il mio rovello per oltre un ventennio: lunghi periodi a tempo pieno e altri in cui vi riservavo sere e fine settimana; in mezzo, alcune pause per svolgere altre ricerche. Segnalo che oggi l’intero repertorio documentario da me raccolto è consultabile presso l’archivio multimediale S.I.B.C.A. della Comunità Montana di Valle Trompia, editore del volume, e l’Archivio di Etnografia e Storia Sociale A.E.S.S. della Regione Lombardia, ente cofinanziatore il volume.
3) Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano nel realizzare una ricerca di questo genere?
Stiamo parlando di una materia specialistica, quindi non è facile far comprendere il valore e la professionalità del tuo impegno; il riconoscimento, in primis quello economico, è perciò da scordare. Vi sono poi le difficoltà – intendo i tempi e contrattempi – di un approccio inevitabilmente laborioso poiché applicato a differenti fonti documentarie: archivistica, bibliografica, materiale, storico-iconografica e, con ruolo tutt’altro che secondario, orale. Sono convinto che la ricerca etnografica debba configurarsi in servizio alla comunità e negli anni ho sperimentato una metodologia che chiamo partecipata. Essa si qualifica concretamente a più livelli: creazione di rapporti consapevoli coi testimoni titolari delle interviste biografiche, in corso d’opera coinvolti in una vera e propria équipe impegnata attivamente nella ricerca; illustrazione della ricerca in un report che, dettagliando nominativi, incontri e contenuti, sia documento dirimente a futura memoria; restituzione comunitaria che si formalizzi, oltre che in un volume, una mostra o un docufilm, in un archivio multimediale (videoregistrazioni di interviste, scansioni digitali di fotografie) ordinato, catalogato e pubblicamente consultabile. Ho perfezionato così una buona prassi che oggi condivido formando gruppi di storia locale: come si conduce un’intervista biografica, si ordinano e catalogano le fotografie storiche, si produce un archivio. Operare secondo questi criteri comporta sicuramente maggiore dedizione e tempi più lunghi.
4) Da cosa ha avuto origine la tua passione per la musica popolare?
Inizialmente – lo accenno nella prefazione – c’è stata una fascinazione quasi romantica: il guardare le montagne e la valle in cui vivo ed emozionarmi nell’immaginarne il passato, un mondo preindustriale animato da cantori e suonatori di musiche poi dimenticate. C’è stato pure – lo confesso – il piacere di vivere un’avventura quasi elettiva: il paradosso, infatti, è che la musica popolare o di tradizione, il cosiddetto folk, oggi risulta minoritaria e che il folk-revival, se escludiamo felici esperienze d’interazione virtuosa con permanenze propriamente tradizionali, è di fatto pratica di nicchia. Niente a che fare quindi, all’inizio della mia storia, con un’attitudine vorrei dire gramsciana. Un provvidenziale indirizzo è stata la ricerca promossa dalla Regione Lombardia nei primi anni Settanta – presentata nel volume “Brescia e il suo territorio” e in alcuni dischi Albatros – che ha documentato repertori tradizionali del Bresciano quali i canti e le musiche della Famiglia Bregoli di Pezzaze e il Carnevale di Bagolino. Dopo sono arrivati il rigore metodologico e le riflessioni sul ruolo del ricercatore.
5) Qual è stata la tua formazione e quale il percorso che ti ha condotto a diventare etnografo ed etnomusicologo? Quali sono i tuoi maestri ideali?
L’interesse per le musiche di tradizione, coltivato ascoltando dischi, leggendo libri e riviste nonché svolgendo le prime registrazioni sul campo, è cresciuto e ho sentito indispensabile darmi una più solida preparazione teorica. Allora, negli anni Ottanta e Novanta, il D.A.M.S. di Bologna era l’approdo più autorevole. Per me sono state quindi fondamentali le lezioni in università di Roberto Leydi che considero il mio maestro decisivo. Le ho seguite per tre anni: lavorando, scendevo a Bologna per gli esami e appositamente per le lezioni sue e di pochi altri. Ricordo con grande piacere anche quelle del filologo e medievalista Piero Camporesi, un intellettuale straordinario oggi considerato meno di quanto meriti, e quelle di Gianni Celati. Da Leydi ho appreso come l’attenzione metodologica non debba disgiungersi dallo stupore nella scoperta e dalla generosa apertura all’incontro umano. Non posso non citare pure i testi di Ernesto De Martino, illuminanti per comprendere quanta e quale forza interpretativa del mondo stia nei saperi popolari.
6) Tu hai “praticato” la musica popolare, sia come musicista che come organizzatore di eventi e festival. Vuoi parlare di questa tua esperienza?
Nel 1984 ho deciso che mi sarei dedicato alla musica studiandola e suonandola, organizzando concerti, scrivendo di essa. Ho così interrotto, poco prima della laurea, gli studi in medicina e mi sono buttato nello studio della fisarmonica diatonica. Dal 1990 sono stato per alcuni anni docente di questo strumento in Svizzera, presso la scuola di Musica Popolare ACP Valle Verzasca. Per tre anni ho pure partecipato con entusiasmo – suonando un po’ in tutta Europa – al gruppo Bandalpina, tuttora in attività. Negli anni Novanta ho scelto uno studio ritirato, applicandomi alla composizione; alcune mie musiche sono state utilizzate in film, documentari e produzioni teatrali. Nel 2001 ho smesso di suonare poiché non ne ero più motivato. Avevo già chiuso, nel 1997, anche con l’organizzare concerti. In proposito ricordo con soddisfazione il successo delle tre edizioni del festival “Suoni nella Valle”, fra le prime vetrine per l’allora nuova generazione del folk-revival italiano (La Ciapa Rusa, Cantovivo, Baraban, Calicanto, Re Niliu, Riccardo Tesi, ecc.), e delle dieci edizioni della rassegna internazionale “I legni, le pietre… i suoni”, in cui s’è sperimentato un suggestivo cortocircuito fra tradizione, proposte revivalistiche e nuove musiche. Un’intensa attività, quella dell’organizzare concerti, che ho svolto operando nella Cooperativa A.R.C.A. di Gardone V.T.
7) Hai anche sviluppato un grande amore per la musica folk anglosassone, al di qua e al di là dell’Oceano. C’è un collegamento tra i tuoi ascolti musicali e l’impegno propriamente etnomusicologico?
Continuo tuttora ad acquistare dischi e ascoltare molta e varia musica. Del resto mi sono formato come ascoltatore negli anni Settanta. Allora l’unica distinzione, per me e tanti coetanei, era fra musica “leggera” e musica “alternativa”. Nella nostra colonna sonora generazionale convivevano il british blues e il southern rock, la perfetta canzone beatlesiana e le dilatazioni lisergiche californiane, la “cassa in quattro” dell’hard rock e le poliritmie del progressive, i timbri acustici del folk e l’elettronica del kraut-rock tedesco, la canzone d’autore italiana e il jazz. Ho però riservato, ritengo per indole, l’ascolto più attento alle musiche acustiche e al folk-revival anglo-celtico e francese: anche da lì parte l’interesse per l’etnomusicologia.
8) Condividiamo una grande passione per la musica rock nelle sue infinite varianti, ma il tuo libro si ferma nel momento in cui anche nelle valli del Nord Italia iniziano a formarsi i primi gruppi beat. È un’altra storia oppure è la musica popolare che, soprattutto, negli anni Sessanta assume un’altra forma e dimensione?
Non dobbiamo dimenticare che le musiche di tradizione e, in modo più evidente, quelle più genericamente di diffusione popolare dicono di un’espressività che è insieme conservativa ed evolutiva. È tipica dell’elaborazione in ambito popolare una continua rielaborazione che sedimenta e si formalizza in stilemi e repertori, ma che sa accogliere nuove sollecitazioni e aprirsi addirittura a radicali cambiamenti. Sono state due le rivoluzioni musicali nel Novecento, in evidente concomitanza con importanti accelerazioni economiche e sociali. La prima, che analizzo nel volume, s’impone all’inizio del secolo e si rinnova per alcuni decenni in una sorta di onda lunga: è caratterizzata dalla diffusione di nuovi repertori sovralocali e nuove forme di apprendimento – alla trasmissione orale s’aggiunge o sostituisce la notazione musicale – attraverso bande, circoli mandolinistici, corali, accademie filarmoniche. Con questa musica “moderna” cosiddetta popolaresca – a spartito – il suonatore afferma una propria emancipazione culturale e sociale. La seconda rivoluzione, negli anni Sessanta, è quella del beat. Si tratta di una vera cesura: un nuovo linguaggio, nuovi strumenti, una lingua misteriosa – l’incomprensibile inglese cantato dai giovani per imitazione fonetica – e l’apprendimento a orecchio, da radio e dischi, nelle cantine. Anche in questa seconda rivoluzione la musica è perentoria dichiarazione identitaria e generazionale.
9) Ritieni che i dischi e, più in genere, la musica registrata industrialmente abbiano valore documentario anche per l’evoluzione della musica popolare oppure tendano piuttosto a castrare l’originaria creatività dal “basso” che questa esprimeva?
Trovo che la distinzione fra musica popolare e musica “di consumo” vada intesa in modo non riduttivo e dogmatico. Certo, la musica popolare ha usufruito – soprattutto in passato – di precipue modalità espressive, comunicative e conservative. Esiste e presumo sempre esisterà un fare musica che si sottrae alle leggi delle mercato o quanto meno mantiene una distanza critica. Penso peraltro che la separazione sia infine fittizia. Pur considerando l’innegabile impronta orientativa e coercitiva dell’industria musicale, ritengo che a dare forza a un’esperienza – disco o non disco – siano la consapevolezza degl’interpreti e una creatività che si traduca in percepibile e condivisibile visione del mondo.
10) Nel documentare il rapporto con la “grande” Storia, quella delle bande, dei circoli mandolinistici e delle orchestrine ha più significato se analizzata dal punto di vista delle storie personali, dei testi o della scelta degli stili e dei generi musicali seguiti?
Sono convinto – dico peraltro un’ovvietà – che la più provveduta e interessante indagine sulla “grande” Storia debba affidarsi alla dettagliata documentazione di come essa si sia estrinsecata a livello locale. Nelle innumerevoli connessioni comunitarie fra realtà istituzionali e composito ordito sociale, nelle vicende minime di gruppi e d’individui, proprio lì possiamo intendere pienamente le ragioni e le implicazioni di fenomeni sovralocali e nazionali. Nella modalità di diffusione capillare dei repertori, negl’incontri conviviali, nelle osterie e nei teatri di paese, proprio lì ci è dato comprendere il senso dei grandi cambiamenti musicali novecenteschi. Il volume ha una duplice valenza che spero venga considerata: di comunità, offrendo una lettura dell’evoluzione sociale e culturale precisamente gardonese e della Valle Trompia; più generale, poiché racconta di vicende ovunque simili. V’è inoltre la presunzione che questo volume possa offrirsi come plausibile paradigma di un’efficace divulgazione etnografica.
11) Ti occuperai ancora di ricerca sul campo sia in chiave etnomusicale che etnologica?
Con questo volume ho dato compimento a un percorso che ho voluto fosse esemplare di ciò che intendo per ricerca etnografica, nello specifico anche etnomusicologica. Ora sto terminando la curatela di un altro volume, poi penso mi fermerò qualche tempo per capire dove ancora andare. Saranno importanti i nuovi incontri che spero d’avere. Confesso che m’affascina l’idea di raccontare, usando le medesime chiavi d’accesso di “Quando suonavano strade e piazze”, ovvero la dettagliata documentazione locale congiunta all’ampia contestualizzazione sovralocale e nazionale, la rivoluzione giovanile del beat negli anni Sessanta. Ho già raccolto un po’ di documentazione e potrebbe essere un viaggio emozionante come quello di “Quando suonavano strade e piazze”.
Reperibilità del volume
Franco Ghigini
Quando suonavano strade e piazze. Bande, orchestrine e suonatori gardonesi nella prima metà del Novecento
Edizioni Comunità Montana di Valle Trompia, 2017
15,00 Euro
Il volume è reperibile presso i seguenti recapiti
(anche per spedizione postale: 15,00 Euro + spese di spedizione).
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