Il conflitto globale permanente
di Rachele Cinarelli
I’ve seen and done things I want to forget
coming from an unearthly place
The Words That Maketh Murder
PJ Harvey ha pubblicato il suo primo album nel 1992. In questi vent’anni di carriera, la critica rock ha voluto affibbiarle l’etichetta di rockeuse maledetta dai connotati fortemente eroticizzati, un giudizio che ha anche accompagnato l’interpretazione dei suoi testi. L’inglese Polly Jean ha sempre giocato vari ruoli: prima la ragazza dimessa di Dry, poi la diva conturbante con il volto talmente truccato da sembrare la maschera sciolta di Maria Callas di To Bring You My Love, poi la trentenne cool col vestito giusto nel posto giusto (Is This Desire, Stories from the City, Stories from the Sea), il tutto a volte prestando il fianco alla categorizzazioni, flirtando con i giornali di moda, e a volte togliendosi le etichette di dosso (ad esempio, definendo il paragone ricorrente con Patti Smith “giornalismo pigro”). Infine, negli ultimi dischi, ha messo in atto un forte “ritorno alle radici” sia estetico, sia di scelta musicale (l’uso dell’auto harp per la composizione delle canzoni). In tutte queste fasi però ha sempre saputo preservare il nocciolo del proprio lavoro, cioè la composizione pura e onesta di canzoni, frutto di solitudine e ricerca. E soprattutto quel porre il brano all’ascoltatore in maniera imparziale, senza mai imporsi sulla canzone, ma lasciando libere tutte le possibili interpretazioni.
A 41 anni, PJ Harvey ha scritto il suo capolavoro. Si poteva affermare molto prima che ricevesse il Mercury Prize 2011 (il premio per miglior disco britannico dell’anno), come testimoniano le numerose recensioni entusiastiche all’uscita del disco.
Let England Shake è qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo allo stesso tempo. Può essere considerato un concept album per eccellenza, proprio nell’accezione classica di fine anni Sessanta e inizio Settanta, quando il long playing, con l’avvento della psichedelia, ha smesso di essere una collezione di singoli di successo e ha cercato di conquistarsi una propria dignità artistica legando i brani uno all’altro. Oggi assistiamo paradossalmente alla cancellazione totale di questa nozione, e la musica e il disco vengono riportarti a una collezione di brani singoli vendibili/scaricabili, di cui pochi a volte si ricordano il titolo o persino l’esecutore.
In questo senso quindi, Let England Shake riesce a rappresentare un’eccezione. Il concetto alla base di questo album, il filo rosso che lega tra loro tutti i brani è la guerra. O meglio, i cicli di conflitto che spesso riguardano gli stessi luoghi in tempi differenti, dove vediamo all’opera un aggressore ricorrente, il mondo occidentale. La lavorazione di questo disco è durata tre anni, in cui PJ Harvey ha ricercato testimonianze di guerra attraverso varie fonti, dai blog delle vittime della guerra in Iraq e in Afghanistan, fino ai resoconti e alle testimonianze della disfatta di Gallipoli del 1915, operazione fiasco guidata dalla Triplice Intesa durante la Prima Guerra Mondiale (la penisola turca era già stata teatro di guerra durante l’avanzata degli Ottomani nel 1366). Ha dichiarato che, contrariamente alla maggior parte delle volte, prima sono arrivati i testi e poi la musica. Testi influenzati da pilastri della letteratura anglosassone come Harold Pinter, TS Eliot, James Joyce, ma anche da quelli di canzoni folk russe (This Glorious Land, In The Dark Places). Ciò che colpisce è sicuramente l’assoluta chiarezza e pulizia della composizione, l’uso di un linguaggio letterario non familiare alla maggioranza delle composizioni pop-rock. Parole di cui Harvey si fa narratrice con una voce che risulta quasi neutrale da quanto eterea, e che sembra continuamente toccare i limiti della sua estensione vocale.
La memoria della campagna dei Dardanelli riecheggia in brani come All And Everyone, The Colour Of The Earth, On Battleship Hill, mentre il richiamo al Medio Oriente è chiaro in Written On The Forehead (People throwing dinars/ at the belly dancers/ in a sad circus/ behind a trench of burned oil). Come la stessa autrice ha dichiarato riferendosi ai conflitti e ai teatri di guerra “non importa quando è successo, perché questo circolo perenne si ripete ancora, ancora e ancora”. Ci racconta che il conflitto è continuo e globale. Harvey si costruisce una posizione da narratrice che sembra enfatizzata anche in concerto, dove rimane a sinistra del palco rispetto allo spettatore, separata dal resto dei musicisti (Mick Harvey, John Parish, Jean-Marc Butty), e vestita di bianco o di nero, i due colori contrari e anche assoluti, poiché entrambi possono significare l’assenza di colore o la somma di tutti. L’insieme viene risaltato dalla corporatura ossuta, dai movimenti calcolatissimi, dai capelli neri decorati con piume di uccello che rimandano alla tradizione celtica, in cui l’uccello è il messaggero degli dei, il tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Gli uccelli vengono ripresi anche nella copertina dell’album, dove i gabbiani sembrano esplodere da una macchia d’inchiostro.
L’elemento naturale richiamato nelle esibizioni dal vivo non è casuale. Nei testi, oltre agli esseri umani è vittima anche la Natura, ferita e violentata. In The Last Living Rose il cielo si muove, l’oceano brilla, la siepe si agita e l’ultima rosa tremola, in segno di qualcosa che sta per arrivare. In The Words That Maketh Murder gli arti macellati dei soldati stanno in mezzo agli alberi, e le mosche brulicano su tutto, mentre in The Colour Of The Earth, il colore della terra appunto è rosso sangue. I campi non vengono più arati con gli attrezzi, ma con i carri armati e le marce dei soldati, e i frutti della terra sono bambini orfani e deformati in This Glorious Land. Infine in On Battleship Hill, il profumo di timo portato dal vento ricorda che la natura crudele vincerà ancora, quasi a ribellarsi alla follia umana cercando di sanarla.
La musica che fa da base a questa narrazione universale ha in sé gli elementi della classica formazione rock: chitarra elettrica, basso e batteria. Le chitarre sono solo ritmiche, attutite da effetti di eco e riverberi, il basso è rafforzato da inserti di sassofono, e su questo scheletro si aggiungono strumenti come l’auto harp, lo xilofono, il piano, cori di voci maschili e femminili. Le ritmiche sono piene, circolari, sciancate: in esse si inseriscono elementi di reggae nero e bianco: il sample di Winston “Niney” Holness in Written on the Forehead e la batteria dei Police in This Glorious Land. Altri campionamenti inaspettati e disorientanti come il bugle della Regimental March (ancora This Glorious Land) e il canto popolare della Baghdad anni Venti Kassem Miro sulla traccia England, la citazione di Summertime Blues di Eddie Cochran in The Words that Maketh Murder. Qui l’ironico What if I take my problem to the United Nations? assume un significato serio e attualissimo. Campionamenti che sembrano provenire da una radio accesa da qualche parte nel mondo, pezzi di tradizioni musicali che si uniscono o sovrappongono a sottolineare il carattere globale delle tematiche trattate. Ma anche a dirci che, nonostante queste, Let England Shake è un disco fortemente melodico e incalzante nelle ritmiche, tanto far battere le mani, o canticchiare le parole.
A un primo ascolto, il disco può apparire ostico dal punto di vista musicale e anche troppo “patriota”. In realtà la continua menzione dell’Inghilterra non è affatto celebrativa, ma anzi, sembra enfatizzare la storia inglese, fatta di sanguinosi conflitti interni, colonialismo e imperialismo. È quindi un’esortazione alla nazione, come si percepisce chiaramente nel brano omonimo che apre il disco. Anche il progetto video che lo accompagna insiste su questo concetto. Per ogni traccia dell’album infatti è stato realizzato un video, con la collaborazione del fotoreporter Seamus Murphy, attivo in zone calde del pianeta, in cui si intrecciano scene di vita quotidiana britannica assieme a flash di immagini di guerra.
Let England Shake può essere considerato un disco combat-rock, ma è un disco che rinnova totalmente il genere di protesta. Compie questo passo importante perché riesce a liberarsi completamente dalla retorica, e arrivare al carattere di universalità delle diverse storie che formano la Storia. Uno scarto su cui molti folk singer di protesta e di professione che abbondano in Italia a vari livelli dovrebbero meditare.