di Mauro Baldrati
Cheyenne è un ragazzo, forse un ragazzino, ma un ragazzino vecchio. Il corpo è andato avanti, nonostante il tempo impigliato in una rete di abitudine, di noia, di successo facile, e di sensi di colpa. Ma il ragazzino è rimasto fermo, coi trucchi e la cipria su un volto che — come sottrarsi alle affinità elettive? — non può non evocare l’apparizione lugubre del vecchio truccato de La morte a Venezia. Ma non c’è il terrore di Aschenbach mentre lo fissa, e vede se stesso riflesso in quella maschera disperata; c’è la tenerezza che evoca un essere apparentemente indifeso, spento, passivo, che scopriremo invece non esserlo affatto, anche se sembra avanzare per forza d’inerzia, insensibile agli stimoli esterni, avvolto in un bozzolo di esasperante lentezza — impegnative le rotazioni del collo, per l’attore Sean Penn e per lo spettatore —, doppiato da uno straordinario Massimo Rossi che fa pensare a un Renato Zero autistico.
Cheyenne vive in una villa tutta bianca alla periferia di Dublino, pensionato-baby cinquantenne perché ha lasciato da molti anni i concerti di gothic rock “per ragazzini depressi”. Sta in piedi in equilibrio instabile, con le braccia penzoloni, mentre il mondo si agita intorno a lui. E se inevitabilmente è stato preso come modello Robert Smith, il cantante/autore dei Cure che si aggira per i locali londinesi col trucco sfatto, un altro personaggio sembra in piena affinità elettiva con Cheyenne: Bucky Wunderlick, rockstar in disarmo creata da Don DeLillo. Bucky passa il suo tempo senza fare assolutamente nulla nel gelido tugurio di Great Jones Street, a New York. Anche intorno a lui si alternano personaggi strani, deliranti, sorta di mutanti che fanno irruzione nella stanza di Soho, si avvitano in performances di pura psichedelia anni Settanta e spariscono nel vuoto. Bucky è fidanzato con una ragazza “calda”, vitale, proprio come la moglie di Cheyenne, la quale lavora addirittura come vigile del fuoco. E come Bucky, dietro l’apparente passività e l’insensibilità, Cheyenne nasconde un senso di osservazione formidabile e una capacità di sintesi che ha del visionario. Abbondano le battute fulminanti, crudeli, che lasciano i personaggi senza parole, perché si sentono spogliati, smascherati.
Tutta la prima parte del film è una rappresentazione del mondo irlandese di Cheyenne, e delle sue avventure minimaliste: cammina come un cittadino de Il giorno dei trifidi, mettendo un piede davanti all’altro, con andatura monotona e precaria; cerca di combinare il fidanzamento di un’amica del cuore, spuntata chissà come e da dove, una ragazzina dark di cui non sappiamo assolutamente nulla (ma che non è la sua amante, perché lui è sposato, come dirà a una donna americana che vuole fare l’amore con lui) con un simil-nerd che si è innamorato di lei a prima vista, ma non è facile perché “sto cercando di far mettere insieme una ragazza triste con un ragazzo triste, ma forse tristezza e tristezza non sono compatibili”; va a trovare una signora che passa le sue giornate davanti alla finestra, perché suo figlio è sparito, se ne è andato da anni e non ne sa più nulla; e soprattutto si reca in un cimitero, a deporre fiori su una tomba misteriosa dove è incisa la strofa di una sua canzone. Proseguendo nella visione scopriremo perché lo fa, e il senso di colpa che lo devasta, dietro la maschera tragica che, ora sì, vediamo apparire direttamente dagli abissi de La morte a Venezia. Perché Cheyenne sa. Sa cosa è, e cosa è stato. Lo dirà a un sempregiovane David Byrne nel ruolo di se stesso, che incontra in America, davanti a una delle installazioni del multietnico e poliedrico fondatore dei Talking Heads: “Sei un artista” gli dice, al che Byrne ribatte: “anche tu”. Ma Cheyenne sa: lui non era un artista, non faceva che vendere ai ragazzi canzonette commerciali, non era che un saltimbanco che ballava per i dollari e il successo facile.
Poi, avviene la svolta. Suo padre sta male, muore. Cheyenne va in America in nave, perché ha paura dell’aereo, e si immerge nel suo mondo originario, quello degli ebrei americani, dove lui è nato. Suo padre è un perfetto sconosciuto, non si sono mai parlati, non si sono mai amati. E questa mancanza di amore è un’altra delle sue ferite incurabili. È straziante la mancanza d’amore tra padri e figli, e lui, Cheyenne, lo capisce perché non li ha avuti, i figli. Così cerca di fare conoscenza con il padre morto, attraverso le sue cose, e il suo diario. Scopre un padre inedito, dolce, poetico, che si è dato una missione simile a un’ossessione: trovare un criminale nazista che, ad Auschwitz, era il suo carceriere. Lo ha cercato per anni, per tutta la vita, ma è riuscito solo a rintracciare la moglie. Così Cheyenne decide di prendere su di sé la missione del padre. E di portarla a termine.
Inizia un viaggio americano, con un’alternarsi di paesaggi superbi e personaggi folli, teatrali, esilaranti, accompagnati dalla colonna sonora perfetta e discreta di David Byrne, a bordo di due modernissimi pick up, trascinandosi dietro un onnipresente trolley che lo spettatore appassionato di simboli può facilmente identificare come il peso della sua esistenza fallita, dei suoi sensi di colpa, del suo spreco. Il regista si concede diversi camei, sequenze alla Lynch, come la moglie del nazista tedesco, una minacciosa signora-rottweiler che fa da dama di compagnia a un’altrettanto minacciosa vecchissima americana, due parche che hanno come animaletto domestico un’oca starnazzante; oppure l’incontro con l’ottantacinquenne Harry Dean Stanton, uno dei fetish di Peckinpah, attore culto della new left che, con enorme sorpresa di Cheyenne, si rivelerà essere nientemeno che l’inventore del trolley. L’olocausto irromperà in tutta la sua follia, con foto che un cacciatore di nazisti proietterà per lui, fino a una scena del capitolo finale, una scena da grande cinema – bisogna dirlo -, che ci va rivivere con impressionante iperrealismo tutto l’orrore delle vittime.
Il viaggio americano sulle orme del nazista forse avrebbe potuto essere l’occasione per una narrazione di grande efficacia, pur nel rispetto dello stile del film, surreale e imprevedibile, un viaggio nel delirio e nell’ironia agra alla Nabokov o al Miller de L’incubo ad aria condizionata, ma Sorrentino qua e là si fa prendere la mano dal paesaggio, o dalla sindrome del fondale su cui si alternano le maschere, i virtuosismi attoriali. E conclude alla svelta, anche perché non ha più tempo, due ore sono già un traguardo di tutto rispetto per un film moderno.
“Mi piace che un film di carne al fuoco ne metta tanta” ha detto il regista. In effetti ce n’è in abbondanza, compresa una sua intrusione indiretta: la madre disperata — tenace tabagista — lo definisce “bambino” perché non ha mai sentito il bisogno di fumare (sigarette). E proprio l’accensione di una sigaretta segnerà il passaggio nell’età adulta (non a caso Sorrentino è spesso ritratto con sigari e sigarette tra le dita).
This Must Be the Place è un film interessante, sorprendente, spiazzante, perché è fatto di materia viva e di uno stile difficile. Sembra quasi un azzardo, una sfida. Piacerà, stupirà, ad alcuni causerà fastidio o noia per la lentezza, le miniature, le maschere che appaiono dal nulla, e nel nulla spariscono, ma nessuno resterà indifferente. Perché, come si diceva una volta, qui nessuno può veramente chiamarsi fuori.