In questi tempi “devastati e vili” il controllo delle masse è, come mai prima d’ora, priorità dei regimi democratici: le democrazie, per lo più moderne colonie dell’imperialismo americano, sono dittature totalitarie che si trincerano dietro lo schermo della Costituzione per ridurci in schiavitù, per impedirci di sviluppare un pensiero autonomo che vada oltre il plasma dei nostri televisori. La tivù è l’atomica dei nostri giorni: ogni giorno miete vittime inconsapevoli riducendoci a criceti, liberi sì di fare evoluzioni sulla ruota, ma solo nel chiuso delle nostra gabbia.
Precursore assoluto e dimenticato di questi scenari, di questo “mondo nuovo”, di questo inferno arredato a Paradiso è stato Aldous Huxley, scrittore inglese purtroppo conosciuto dai più per “Le porte della percezione” (da questo titolo, tra l’altro, Jim Morrison ha tratto il nome per i suoi Doors). Questo saggio ha ridotto Huxley da geniale scrittore a semplice esploratore di universi più lisergici che possibili.
Il ricambio generazionale ha trasformato i suoi lettori, più interessati ad eleggerlo a mito e supporto teorico dei propri sballi che alla sua opera narrativa. Poi – terminata la sbornia dei fiori- l’oblio, la dimenticanza per uno scrittore destinato, come tanti, ad essere più citato che letto.
Ed è davvero un peccato che la fama dello scrittore inglese, nato nel 1894 e morto nel 1963 (il 22 Novembre, lo stesso giorno dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy…), debba per lo più limitarsi ad un’eco da Re Lucertola.
Huxley, infatti, è uno scrittore assolutamente da riscoprire: certo, come osservava T.S. Elliot, la sua produzione narrativa è stata discontinua, ma è comunque andata ben oltre “l’inferno e il paradiso” delle sostanze psicotrope.
Il suo capolavoro è sicuramente il già citato “Il mondo nuovo”, un romanzo scritto nel 1932 e ben più inquietante e profetico del più conosciuto “1984” di Gorge Orwell.
Ad accomunare i due testi lo stesso intento distopico: immaginare e descrivere un mondo futuro dominato da un regime totalitario. Le differenze tra i due romanzi, però, sono enormi, addirittura antitetiche. Per Huxley, infatti, ci sono due modi per spegnere lo spirito di una civiltà: nel primo – quello orwelliano- la cultura diventa una prigione; nel secondo — quello de “Il mondo nuovo”- diventa una farsa. Ancora oggi a preoccupare maggiormente, purtroppo, è la visione di Orwell: non ci sono quasi più regimi, eppure il Grande Fratello è sempre il pericolo da combattere, mentre il nostro occidente, ignaro, continua a sprofondare in un mondo molto vicino al nuovo.
Nella nostra società non c’è nessun carceriere che ci sorveglia, ma le prigioni sono dentro le nostre teste. Ed è da quest’idea che parte “Il mondo nuovo”: da un mondo solo apparentemente libero, mentre in realtà è tenuto controllato dalla sua stessa libertà.
“Controllare la gente non con le punizioni, ma con i piaceri”: è questa la geniale intuizione di Huxley nel descrivere il nuovo assetto dei sistemi totalitari. Nella “democrazia” immaginata da Huxley il popolo non è imprigionato, ma distratto continuamente da cose superficiali. Per Huxley, infatti, non c’è bisogno di un Grande Fratello quando la vita culturale viene trasformata in un eterno circo di divertimenti e un intero popolo è ridotto a spettatore. Nel “mondo nuovo” non esistono censure, ma la gente è talmente subissata dalle informazioni che, incapace di rielaborare una simile mole di notizie, finisce col diventare passiva, con il disinteressarsi a tutto e a non ribellarsi più a niente. Nel mondo nuovo, per fare un esempio a noi vicino, nessuno brucia i libri perché non c’è più nessuno desideroso di leggerli.
Per Huxley è questa la vera dittatura: una dittatura atroce perché invisibile, intelligente perché alle catene preferisce il silenzio delle museruole mentali. E’ la dittatura della democrazia, del nemico col sorriso sulle labbra: è la dittatura che ha trasformato i cittadini in giocatori che non hanno la minima intenzione (e chi lo farebbe?) di prendere le armi contro un mare di divertimenti.
L’ipotesi di Huxley è a dir poco inquietante: basta alzare la testa per rendersi conto che quello che stiamo vivendo è già il suo incubo, che è la sua visione che si sta realizzando e non quella ben più visibile, e quindi più facile da individuare e da combattere, di Orwell. Difendersi è impossibile: si finirebbe come in un romanzo di Dick: pazzi ed isolati detentori di una verità che nessuno, per comodità, accetterà mai. Eppure “il mondo nuovo” è adesso, è il presente che ci spegne schiacciando un tasto.
L’unica rivolta possibile, ed è ancora Huxley a venirci in aiuto, è quella dell’ironia: la stessa ironia che Huxley, non a caso paragonato a Swift, ha impiegato nei confronti di una società già ai suoi tempi disumanizzata dai piaceri.
Un tema che lo scrittore inglese ha affrontato a più riprese: nel suo primo romanzo “Giallo cromo” e nei suoi “Racconti”. In questi due libri, più che ne “L’isola”, “La scimmia e l’essenza”, “Riflessioni sulla luna” (solo per citare alcuni dei titoli tradotti in Italia), si può cogliere a pieno la scrittura vista da Huxley non solo come sviluppo ed intreccio narrativo, ma come unico mezzo ancora realmente valido per trasmettere delle idee. Idee che in Huxley sono chiarissime: su tutte il conoscere gli esseri umani “fuori dal palcoscenico”, fuori dall’idiota recita del quotidiano.
I protagonisti di “Giallo cromo” e dei racconti sono come noi: uomini separati dal mondo dall’incolmabile abisso del proprio egoismo; marionette che vagano sulla superficie della vita senza bussola e senza meta; maschere che preferiscono ricordare vivamente solo i fatti secondari della vita dimenticando quelli essenziali.
Per Huxley la maggior parte degli esseri umani, la maggior parte di noi è normale solo in rapporto ad una società profondamente anormale: ed è proprio il nostro perfetto adattamento a questa società anormale ad essere la misura della nostra infermità mentale.
“Questi milioni di individui”, scrive Huxley rifacendosi in parte a teorie espresse anche da Erich Fromm, “abnormemente normali, che vivono senza gioia in una società a cui, se fossero pienamente uomini, non dovrebbero adattarsi, ancora carezzano “l’illusione dell’individualità”, ma di fatto sono stati in larga misura disivindualizzati. Il loro conformismo dà luogo a qualcosa che somiglia all’uniformità. E uniformità e salute mentale sono incompatibili…”.
Per Huxley siamo solo una “calca di pecore umane che vivono soggiogate dalle cieche leggi delle abitudini”.
Huxley, dalle sue pagine, ci invita a questo: a elevarci dalla “dissenteria quotidiana dell’effimero, vera rovina della nostra epoca”.
Solo così potremo arginare il pericolo di un mondo nuovo sempre più simile al nostro: un mondo non di schiavi terrorizzati dalle punizioni di un regime totalitario, ma una società di ebeti rimbambiti da piaceri cafoneschi.
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