di Fiorenzo Angoscini
Matteo Dalena, Puttane antifasciste nelle carte di polizia, Il Filo Rosso Editore, Cosenza, giugno 2017, pag. 143, € 12,00
Nonostante le sue dimensioni ridotte, di quella che in un recente passato si sarebbe chiamata edizione tascabile, le relativamente poche pagine che lo compongono, il testo vero e proprio – dove sono raccolte le esperienze di ventisette (su un totale di 132 ‘prostitute’ e 4 ‘meretrici’) donne schedate – è di 76 ‘facciate’, corredate dalle foto segnaletiche di alcune delle ‘femmine di malaffare’ in questione, questo è un libro da leggere e divulgare.
Non racconta di gesta leggendarie, azioni armate, incursioni spericolate di propaganda politica. Ci dice ‘solo’ del comportamento non confacente alla morale corrente di allora, dell’atteggiamento anticonvenzionale, sgradevole e contrario alle istituzioni, agli apparati e loro rappresentanti centrali e periferici, delle lavoratrici del sesso segnalate ed inserite nel Casellario Politico Centrale della polizia del regime, i cui nomi sono armonici, anticonformisti, originali: Filomena, Candida, Celestina, Cunegonda, Palmira ma soprattutto Libera.
Arricchito da un saluto iniziale di Maria Pina Iannuzzi, presidente provinciale della sezione Anpi di Cosenza dedicata a ‘Paolo Cappello’, che in poche battute, riprendendo un’ affermazione dell’autore, fornisce la chiave d’interpretazione del lavoro di Dalena: “…non sono partigiane né eroine, non hanno partecipato in prima linea alla Resistenza. Sono però donne altrettanto ribelli e coraggiose che, nell’ombra più assoluta, hanno vissuto esistenze antifasciste”.
Anche la prefazione di Giovanna Vingelli, dell’Università della Calabria e del ‘Centro Women’s Studies Milly Villa’, coglie il centro e significato del lavoro di Matteo Dalena, e sottolinea come questo ci racconti: “…con la sua precisa e appassionata narrazione della resistenza di 27 donne, puttane antifasciste”.
Come appendice finale non dichiarata, un interessante contributo di Alessandra Carelli ripercorre la nascita ed introduzione dell’istituto del ‘confino’. Non un ‘invenzione’ fascista che, però, il regime adegua, utilizza e piega alle proprie esigenze: “La misura preventiva è ripresa dal già consolidato ed efficace sistema repressivo del domicilio coatto, inserito nel sistema giudiziario italiano subito dopo l’Unità e finalizzato alla repressione del brigantaggio. Forma ripresa dal regime e riadattata con la volontà di limitare, o almeno riuscire a tenere sotto controllo, tutti coloro che si oppongono al regime, oppositori veri o presunti. Ma non solo. Nel ‘sistema’ finiranno i nemici della morale. I critici delle politiche economiche e delle direttive demografiche, gli omosessuali incriminati a causa del ‘turpe vizio’ della pederastia…”.
La ricerca di Dalena, nonostante l’ironia ‘greve’ con cui, durante il suo scandaglio, veniva bersagliato dai colleghi corsisti alla scuola di giornalismo: “Anche oggi vai in archivio a catalogare puttane?”, anzi, forse proprio anche per questo, presenta diversi aspetti interessanti ed utili alla comprensione dei ‘costumi’, della morale imperante, della logica bigotta e del suo motto: ‘fate quello che dico, non fate quello che faccio’, dell’ipocrisia, della cattiveria e meschinità di Capi di polizia, Prefetti, Podestà, Questori, agenti del Corpo dei Carabinieri Reali, squadristi e componenti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, spie della polizia segreta (politica – OVRA) del fascismo, l’Organismo Vigilanza Repressione Antifascista.
Descrive l’istituzione, organizzazione e gestione (con i vari gradi gerarchici) dei controlli sanitari (vera e propria arma di ricatto e controllo) delle Case chiuse, bordelli, casini. Dalle cui finestre, le forzate del sesso, non potevano né affacciarsi, tanto meno sporgersi e le cui persiane dovevano essere assolutamente sempre sbarrate.1 Spiega, inoltre, come si può fare, ma non si deve far vedere. Infatti, non si poteva esercitare la professione, nemmeno adescare, nella pubblica via. Confinando, quasi sempre nei rioni malfamati, o tra i meno raccomandabili, tra i peggiori bassi i ‘quartieri del vizio’. Spesso gli stessi della piccola malavita, perché sesso e pallottole si danno quasi sempre la mano.
Ci racconta della delazione ‘spicciola’ di cui alcuni militi che, dopo aver ‘consumato’ il rapporto con la dispensatrice di piacere, si rivolgevano all’autorità per denunciarne le inclinazioni anti-regime e le tendenze politiche sovversive, spesso anche anticlericali.
Le donne di Dalena sono protagoniste, come suggerisce Maria Pina Iannuzzi, di “storie di antifascismo ancora o per nulla conosciute”. Piccole attività, quasi primitive, quelle di queste donne che si esplicavano sputando sui ritratti di Sua Altezza (era alto 153 centimetri…solo 3 centimetri in più del metro e mezzo) Reale Vittorio Emanuele III di Savoia, detto Re sciaboletta per la sua bassezza, anche morale e politica; di cui si racconta che dovette farsi forgiare una apposita spada, più corta del solito, affinché non strisciasse a terra.Oppure, prendevano di mira il viso truce, con testa lucida, del figlio del fabbro di Predappio: Sua Eminenza il capo del governo.
Altre ancora, come Teresa Pavanello, contestavano, nel chiuso della propria abitazione-alcova, programmi radiofonici che diffondevano inni patriottici prima di uno dei tanti discorsi ufficiali del Duce: ”Il tono del duce è quello di sempre, ma il vocione della Pavanello, un vero fiume in piena, rende impossibile l’ascolto”. Dopo un’affermazione ‘figurata’ e volgarotta della ‘donna di facili costumi’, “La programmazione riprende con gli inni: ‘Fu intonata la Marcia Reale, l’inno Giovinezza, il Piave (quello che ‘mormorava’ nda) e l’Inno a Roma’. Ma Teresa Pavanello ha da ridire pure su quelli, particolarmente ‘attratta’ dall’ultimo: ‘Mi sembra l’inno dei socialisti che una volta si cantava il 1° Maggio quando si facevano cortei socialisti e scioperi’“.
Persino i sogni (forse incubi) e le visioni non politicamente in linea venivano denunciati e perseguiti. Nel bel mezzo di un rapporto a tre, tra due militi della 52° legione e “Norma” (Cunegonda Longini, una delle donne ‘fotografate’ da Delena) la stessa “afferma di vedere alcune teste mozzate. Il primo a comparire è ‘Sua Altezza Reale il Principe Ereditario’ al quale secondo la donna, caduta d’improvviso in stato di trance’ sarebbe stato attentato nel giorno delle sue Auguste nozze…La ‘danza macabra’ di Cunegonda si conclude con un’ultima testa mozzata’ rappresentante il popolo piangente e rattristato che, per bocca della ‘visionaria’ , parlò dell’ascesa del fascismo con frasi poco riguardose” . Il ‘delirio politico’ produce questo esito: i due valorosi in camicia nera si rimettono i calzoni e denunciano la loro accompagnatrice alla prefettura di Rovigo. Di conseguenza, la questura, impone all’ufficio sanitario del comune di produrre un certificato medico in cui si attesta che: “Cunegonda Longini non è sana di mente per postumi sifilitici al cervello”.
Altre ancora venivano denunciate perché sentite urlare “Abbasso Mussolini”, “Me ne frego del Re e del duce” oppure minacciare di togliere i baffi ad una statua del principe ereditario, o cantare a squarcia gola ‘Bandiera Rossa’ inneggiando alla Rivoluzione d’ Ottobre.
Un altro piccolo, ma umanamente grande, pregio del lavoro di Dalena è di raccontare con semplicità, le imprecazioni quasi ‘infantili’- che le rendono autentiche e sincere – delle ‘sacerdotesse del culto di Venere’ oppure ‘laide circi’, come venivano etichettate dai soliti giornalisti di complemento del regime. Accusate, sempre da pennivendoli compiacenti di essere “…matte, pericolose, sguaiate, fonte di sporcizia e malanni” inoltre“…pisciano e defecano in istrada senza ritegno alcuno”.
Oltre ai passacarte scribacchini, le protagoniste di questo libro, che sono: “Prima donne, poi puttane e, insieme, sovversive, al tempo periferia della periferia del genere umano” sono state analizzate, bersagliate, discriminate da ‘eminenti studiosi’ e ricercatori. Il solito noto, Cesare Lombroso, con il suo prediletto e fido erede: Benigno Di Tullio, docente all’Università La Sapienza di Roma, collaboratore della Scuola superiore di polizia scientifica e autore di un Manuale di antropologia criminale del 1931, sosteneva che le ‘nemiche della morale’ erano: “Rozze, scarsamente sensibili al dolore, deboli intellettualmente, caratterizzate da ‘freddezza emozionale ed anestesia morale’, fortemente capricciose, aride, vanitose, bugiarde, irritabili, emotive e violente”.
Sicuramente, anche in conseguenza di queste affermazioni ‘scientifiche’, le ‘venditrici d’amore’, venivano offese, schernite, discriminate perché, oltre ad essere puttane, erano squilibrate, sporche, girovaghe senza casa, alcolizzate e malate. Così, oltre ad essere soggette ai fogli di via (comminati tutt’oggi, solo affiancati da mezzi più sofisticati e moderni: ‘avvisi orali’, i divieti daspo, sportivi ed urbani) venivano processate ed arrestate, incarcerate, inviate al confino, ricoverate negli Ospedali degli incurabili (per gli affetti da malattie veneree, sifilide in particolare), internate in quelli per pazzi, i manicomi.
Inevitabilmente, leggendo le pagine del libro, arrivato ai ‘manicomi’ utilizzati nel ventennio nero, non ho potuto scansare il paragone con un altro volume: “Un’odissea Partigiana. Dalla Resistenza al manicomio”2 e constatare le analogie tra il regime fascista e la famigerata, liberticida, legge di amnistia, emanata il 22 giugno 1946, che porta il nome del Guardasigilli che l’ha firmata, l’allora segretario nazionale del Partito Comunista Italiano e Ministro di Grazia e Giustizia: Palmiro Togliatti.
Più di ogni giudizio critico e contrario, valga il titolo attribuito alla recensione realizzata da Corrado Augias;3 I fascisti liberi per amnistia e i Partigiani in manicomio.
Anche questa è la (loro) democrazia.