di Livio Ciappetta
Dal diario di Domenico Zannone, provveditore dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato.
A. D. , 17 marzo 1634.
Viviamo tempi tristi e difficili. I buoni cristiani sono circondati da eretici e maliardi d’ogni genere e sorta, e non c’è mai quiete, non c’è mai riposo per i difensori della fede. Il nostro amato Santo Padre Urbano VIII è costantemente minacciato di morte per mezzo di infidi venefici e oscure malíe; pazzi eretici farneticano sui moti dei corpi celesti relegando il buon Dio ai margini dell’universo, e lo sciagurato esempio di Beatrice Cenci, infame parricida impenitente, sembra aver seminato mala erba in ogni angolo di questa città. Insomma, i signori inquisitori hanno un bel da fare, e le loro riunioni nel convento di Santa Maria sopra Minerva sono sempre più lunghe e affollate.
E che immonda depravazione poi, che deprime e infetta perfino i luoghi più sacri. Quanti sono ormai coloro che, pur vestendo l’abito sacerdotale, o seguendo le regole dei tanti ordini religiosi della nostra amata Chiesa, si macchiano dell’orribile reato di sollicitatio ad turpia! Quanti atti osceni e turpi, quanti baci, abbracci e toccamenti sconci. Al tempo di Carlo Borromeo si vollero aprire i confessionali, dove tante anime erano state traviate dalle tentazioni del Diavolo e della carne; ma adesso, che la confessione è ben visibile di fronte agli altri fedeli, è altrove che si consumano gli atti le sconcezze. È nei conventi soprattutto, dove il Demonio tenta e corrompe la fragile carne di monache sedotte e confessori impudichi; e tra presunte passioni estatiche, corpi invasi e viaggi dell’anima, non si intende più dove sia il confine tra la santità e l’ossessione diabolica. Il raro dono della discretio spiritum, la capacità di discernere le anime elette da quelle indemoniate, è sempre più mistificato da coloro che proclamano santi se stessi e le loro vergognose concubine, giustificando con oscena blasfemia i loro atti impuri come se fossero voluti dal buon Giesù.
Per parte mia, servo nostro signore Iddio con tutta l’umiltà di cui sono capace. La nobile nazione fiorentina da cui provengo ha acconsentito di affidarmi un posto nella prestigiosa e antica confraternita di San Giovanni Decollato, nella quale con pio e devoto spirito presto la mia opera. Mi trovo ora a narrare, ad perpetuam rei memoriam, le vicende accadute in occasione dell’ultima esecuzione, con la speranza che esse possano essere di giovamento.
Come accedeva sempre più spesso ormai, ci fu annunciata per la mattina successiva l’esecuzione di quattro rei condannati per furto di grano. Per la temerarietà con cui essi avevano rifiutato di confessare le loro colpe, dopo l’impiccagione i loro corpi sarebbero stati squartati, e le membra sepolte fuori le mura della città. Si aggiunga peraltro che a nulla erano valsi i tentativi di cavar fuori la verità attraverso i tormenti. Avevano resistito a ben cinque tratti di corda, e il carceriere aveva avuto il suo bel da fare per rimettere in sesto le membra squassate per farceli arrivare almeno in piedi. Nostro compito come sempre, era quello di redimere le anime dei condannati, e accompagnarli al patibolo in grazia di Dio.
Furono condotti dalle carceri di Tor di Nona fino alla cappella della confraternita, dove già li aspettavamo. Dato il numero, e la mole di uno di loro, li aspettavamo in venti, e chiedemmo alle guardie di restare nei paraggi.
Il compito che ci apprestavamo a compiere è sempre stato assai gradito a Dio. Redimere l’anima di un condannato infatti, avrebbe garantito alla nostra di salvarsi e giungere ben lesta in paradiso, e dunque con molto zelo ci dedicavamo, ogni volta, nel convincere quegli sciagurati nel chiedere perdono per le loro colpe. Si aggiunga poi (invero come fatto di minor importanza rispetto al bene spirituale che ne derivava) che i poveri condannati, spesso privi di parenti prossimi, lasciavano i loro beni in dono alla pia confraternita che caritatevolmente accompagnava le ultime ore della loro esistenza, e dunque ogni tanto qualche oggetto di un certo valore lo si rimediava.
E tuttavia i condannati stavolta non volevano sentir ragioni. Uno di loro in particolare, il più grosso e forte, non ne voleva sapere neppure di inginocchiarsi di fronte all’altare. Non convincendolo con preghiere ed esortazioni, uno dei nostri lo piegò con un buon colpo assestato al di sotto del ginocchio, e sistemammo così la faccenda.
Fu una notte agitata. I condannati insistevano nel dichiararsi innocenti, che quel po’ di grano che avevano preso era servito per sfamare le famiglie, e che nessun maleficio avevano commesso per forzare la porta del granaio, che era stata trovata aperta, forse chissà per virtù della divina provvidenza. Passammo ore nel tentativo di persuaderli a rendere l’anima con timor di Dio e amore verso la Santa Chiesa, ma nulla, né la paura della morte, né le legnate ben assestate poterono convincerli.
Quando giunse l’alba, provati e rassegnati dalla notte insonne, ci apprestammo in processione per condurre i condannati in ponte Sant’Angelo, dove la solita folla di timorati di Dio già attendeva impaziente. Preceduti dalla croce dell’arciconfraternita, procedemmo di buon passo accompagnati da una nutrita scorta, intonando i salmi consueti e recitando il rosario assieme ai condannati, ormai privi di ogni speranza, lo sguardo perso nel vuoto.
Uno alla volta, ciascuno accompagnato da due di noi, furono condotti al patibolo. I corpi penzolarono tutti assieme, e la folla applaudì felice.
Vegliammo i corpi fino alle 22 della sera quando furono staccati e fatti in quattro parti, con gran disappunto dell’archiatra della Sapienza che ancora una volta perdeva l’occasione di dissezionare un cadavere intero. Annotammo diligentemente, sul registro dei condannati, che di nessuno di loro si erano potuti conservare i vestiti (che usualmente destiniamo ai poveri orfani), poiché appunto anch’essi avevano seguito la sorte dei corpi che avevano fino ad allora coperto.
Mi incaricai personalmente di condurre le membra fuori le mura, con un carretto coperto da una lurida tela, per gettarle nella fossa riservata a coloro che non avevano voluto confessare i propri peccati. Un lavoro ingrato, tanto più che né anelli né collane stavolta pendevano dai resti dei condannati.
Tornato in confraternita, redassi infine diligentemente il verbale, che più o meno recita quanto segue: “I condannati, convinti delle loro colpe in virtù della carità con cui i nostri confratelli li esortarono alla preghiera, hanno affrontato il patibolo con sincero pentimento e timor di Dio, e l’esecuzione fu di gran beneficio anche per i presenti, che mostrarono la loro contrizione e convinto amore nei confronti di santa madre Chiesa”.
Ho deciso di serbare il ricordo di tali dolorose vicende affinché chi leggerà questi appunti possa essere cosciente di quanti errori sono stati commessi nella persecuzione dei reati, e soprattutto nel cercare ostinatamente di redimere almeno le anime dei condannati.
Con certi impenitenti non c’è niente da fare. La prossima volta che si gettino in pasto alle fiamme purificatrici, che coprano un po’ l’immondo fetore del Diavolo che attanaglia questa città, e senza farci passare la notte insonne!
Nota dell’autore
Il diario citato non esiste, e il nome del provveditore è inventato. Tuttavia, i fatti descritti sono assolutamente verosimili, anche in considerazioni del modus operandi della confraternita nella prima metà del seicento e dei reati per cui era prevista la pena di morte nello stato pontificio. Non ci sono notizie certe delle percosse subite dai condannati da parte dei membri della confraternita, benché tale pratica sia stata ipotizzata da diversi studiosi.
Per chi desiderasse approfondire l’argomento, la documentazione dell’arciconfraternita è custodita presso l’archivio di stato di Roma, palazzo della Sapienza, corso del Rinascimento 40. Il fondo è intitolato “Confraternita di San Giovanni decollato, 1497-1870. Inventario n.285/I-II”. Il secondo registro si compone di un utile strumento descrittivo del materiale inventariato, redatto da: Di Sivo, Michele. 2000, Il fondo della Confraternita di S. Giovanni decollato nell’Archivio di Stato di Roma (1497-1870). Inventario, «Rivista storica del Lazio», 8, pp. 181-225.