di Paolo Lago
Tommaso Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pasolini e il cinema prima di Accattone, Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 242, € 20,00
Pier Paolo Pasolini, coniando l’espressione «cinema di poesia» nell’omonimo saggio del 1965, raccolto in Empirismo eretico, si riferiva a un cinema che utilizzasse «i modi tipici del linguaggio della poesia». Uno stile cinematografico, cioè, caratterizzato dalla «soggettiva libera indiretta» – corrispondente all’indiretto libero della letteratura – capace di liberare «le possibilità espressive compresse dalla tradizionale convenzione narrativa in una specie di ritorno alle origini: fino a ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria» (ora in P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p. 1477). Come esempi di tale cinema, Pasolini si riferiva soprattutto ad alcuni film di Godard, Antonioni, Bertolucci, Bergman, Rocha, Forman. Un certo uso della macchina da presa può quindi equivalere all’applicazione delle regole metriche e prosodiche, «un nuovo codice tecnico» nato quasi per «insofferenza alle regole, per un diversamente autentico o delizioso gusto dell’anarchia» (ivi, p. 1486).
Se lo scrittore e regista si riferiva prevalentemente al cinema di altri autori, egli, trovandosi dietro la macchina da presa, applicò empiricamente quanto delineato in teoria per definire il «cinema di poesia». Molto è stato scritto sui film di Pasolini, pochissimo invece sulla sua attività cinematografica prima di Accattone (1961, primo film del regista). Le stesse recensioni dell’epoca al suo primo film ponevano l’accento sul fatto che lo scrittore di Ragazzi di vita (1955) e di Una vita violenta (1959), nonché il poeta delle Ceneri di Gramsci (1957) e della Religione del mio tempo (1961) fosse improvvisamente approdato dietro la macchina da presa con uno sguardo da letterato, sottovalutando, invece, la profonda frequentazione, da parte di Pasolini, dell’ambiente dei ‘cinematografari’ già dall’inizio degli anni Cinquanta. Adesso, un interessante saggio di Tommaso Mozzati, Sceneggiatura di poesia. Pier Paolo Pasolini e il cinema prima di Accattone, con sicura perizia filologica, provvede a fare luce sui densissimi rapporti del poeta e scrittore col mondo del cinema, fin dal suo arrivo a Roma, nel 1950. Come il primo capitolo del volume (dedicato ad un excursus cronologico su Pasolini sceneggiatore) bene dimostra, facendo ampio uso dell’epistolario pasoliniano nonché di testimonianze di registi e sceneggiatori come Mario Soldati, Florestano Vancini, Ennio Flaiano, Mauro Bolognini, lo scrittore e poeta bolognese, giunto da poco da Casarsa assieme alla madre, iniziò presto a collaborare a diversi film in veste di sceneggiatore. Fra i primi, La donna del fiume (1954) di Mario Soldati e Il prigioniero della montagna (1955) di Luis Trenker, nonché una progettata collaborazione con Alberto Lattuada per un film poi non realizzato, Il sole nel ventre, che prevedeva anche un viaggio del regista e dello sceneggiatore in Estremo Oriente. Del 1956 è poi l’inizio della collaborazione con Federico Fellini, per la revisione dei dialoghi de Le notti di Cabiria (1957) e con Mauro Bolognini, per la sceneggiatura di Marisa la civetta (1957), progetto, quest’ultimo, che porterà alla importante collaborazione col regista pistoiese per I Giovani mariti (1958). È però il lavoro di sceneggiatura de La notte brava (1959) che Pasolini sentirà veramente suo e segnerà l’apice della collaborazione con Bolognini, cementificando una già solida amicizia. Fra le altre sceneggiature in cui troviamo la mano di Pasolini, degne di nota sono poi quelle de La dolce vita (1959) di Fellini e di La lunga notte del ’43 (1960) di Vancini. Un altro, ennesimo progetto non realizzato è poi quello de La nebbiosa, un film sui teddy boys milanesi del quale Pasolini scrisse la sceneggiatura (recentemente pubblicata da Il saggiatore) alla fine del ʼ59.
Il secondo capitolo si concentra prevalentemente sulla ricezione critica e pubblica di Pasolini sceneggiatore. Mozzati attua un rigoroso spoglio delle recensioni e degli articoli di giornale e rivista dell’epoca, dai quali emerge uno sceneggiatore ‘filtrato’ soprattutto attraverso la sua attività di letterato, prevalentemente autore di Ragazzi di vita, frequentatore e conoscitore delle borgate romane e del loro linguaggio. La figura di Pasolini è recepita come avvolta in un alone di ‘scandalo’ e frequentemente tacciata come portavoce di supposte ‘volgarità’ ascrivibili al gergo borgataro. In molti interventi critici su La notte brava la paternità della pellicola è riferita allo sceneggiatore, bypassando l’opera del regista, mentre si scrive che Jean-Claude Brialy, protagonista del film, «a Roma impara il linguaggio di Pasolini». Da più parti, poi, si scrive che il mondo fatto di teppisti, borgate e desolazione morale, grazie al rivestimento cinematografico di Bolognini, ha finalmente trovato una sua dimensione estetica adeguata. Alcuni attacchi di tipo moralistico al film, come è ampiamente dimostrato dal saggio di Mozzati, debbono essere riportati nell’ambito di un’azione politica «nel contesto di un dibattito sollecitato anche dall’elezione del conservatore Umberto Tupini al Ministero del Turismo, Sport e Spettacolo» (p. 90). Ad esempio, Gian Luigi Rondi, dalle pagine di «Concretezza», periodico espressione della corrente andreottiana della DC, «si scagliava contro la pellicola, eleggendola ad emblema deteriore di tutta un’immorale produzione nostrana» (ibid.), affermando che «l’attività letteraria di Pasolini esprime soltanto, nei suoi libri, il mondo della peggiore feccia romana» (p. 91). Una recensione su «Il Borghese», firmata Maghinardo Baviera, a La giornata balorda (1960) sempre di Bolognini con sceneggiatura di Pasolini, si risolve poi in «un elenco malevolo e scrupoloso della parola “cazzo”» e di altre presunte ‘parolacce’ o ‘offese’ come «cacca», «fijo de na mignotta», «merda», «moroidi», «cagatore», «pipì» e via di seguito. La Direzione generale spettacolo definì poi quello della Giornata balorda come «uno dei più ignobili soggetti che siano stati presentati a questi Uffici» (p. 98). Nell’excursus critico sono inoltre ricordati anche intelligenti e coraggiosi interventi in difesa del film nonché di Pasolini e Bolognini, come ad esempio quello di Mino Argentieri su «Cinema 60».
Merito del saggio di Mozzati è poi quello di offrire un sicuro sguardo sul background politico e sociale dell’Italia di quegli anni, preda di un conservatorismo di centro-destra che, col Governo Tambroni, dopo gli scontri di Genova nel ʼ60, approderà alle dure repressioni di Reggio Emilia, Palermo e Catania.
Il capitolo successivo, incentrato su «Pasolini e il dibattito cinematografico degli anni Cinquanta», si focalizza, sempre con uno sguardo a tutto tondo sulla realtà politica e sociale di quegli anni, prevalentemente sulle dichiarazioni del poeta e scrittore ai giornali nonché sull’attività di Pasolini come critico cinematografico. Anche per quanto riguarda la sua attività di sceneggiatore, il poeta si trova al centro di un giudizio che, contemporaneamente, investe la sua opera e la sua esistenza privata. Come scrive Mozzati, «secondo uno schema destinato a ripetersi nella biografia pasoliniana, con un ritmo ciclico a partire dagli anni Sessanta, all’acquisizione di visibilità corrisponde una reazione tutta giocata su aspetti privati della sua esistenza, esercitata da posizioni moralistiche e intransigenti » (p. 128).
Dal 1959 Pasolini collabora come critico cinematografico al «Reporter», un settimanale di attualità, varietà e costume, che sopravviveva grazie ai finanziamenti di Arturo Michelini, un uomo d’affari alla guida del Movimento Sociale Italiano a partire dal 1954 (lo stesso direttore della rivista, Bolzoni, veniva da una militanza nella Repubblica di Salò). Una tale collaborazione potrebbe apparire una scelta avventata da parte di Pasolini, «in realtà una lettura corretta di tale collaborazione dimostra come essa possa venire inclusa organicamente nel panorama delle scelte operate da Pasolini in quegli anni» (p. 141). Infatti, «Il Reporter», sotto la guida di Bolzoni, teneva una linea politica alquanto ‘neutrale’ ponendosi anzi in rotta con altri giornali conservatori come «Il Borghese» o «Lo Specchio» che ospitavano sovente articoli che attaccavano Pasolini. «Il Borghese», poi, nel dicembre 1959 aveva inaugurato una crociata contro il cosiddetto «terzo sesso», attaccando apertamente gli omosessuali, tacciandoli come «malati». Nel 1960, con l’ascesa di Tambroni e il cambiamento di direzione della rivista – Carlo Martinelli si avvicenda a Bolzoni – «Il Reporter» si schiera apertamente a destra e Pasolini decide di abbandonare la collaborazione. Lo stesso giornale si unisce al coro diffamatorio nei confronti del poeta, pubblicando il 2 agosto 1960 l’immagine di scena del Gobbo di Lizzani nella quale si vede Pasolini attore che imbraccia una mitraglietta, accompagnata dal titolo «Pasolini si difende».
Il capitolo quarto e ultimo del saggio, infine, appare come quello più filologico in quanto è dedicato a una minuziosa analisi della sceneggiatura di Giovani mariti, portando a confronto le diverse stesure.
Il saggio di Tommaso Mozzati offre quindi una inedita luce su Pasolini uomo di cinema prima del suo cinema, guidandoci in un avventuroso viaggio attraverso il milieu socio-culturale dell’Italia degli anni Cinquanta e a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta. Dopo averlo letto, perciò, sarà difficile pensare Pasolini come un romanziere e un poeta che, al momento di girare il suo primo film, si trova disorientato e ‘fuori posto’ nel mondo dei ‘cinematografari’ della capitale. Si tratta invece di un autore che, quando nel 1961 gira Accattone, ha alle spalle almeno dieci anni di assidua frequentazione del mondo del cinema, fra registi, sceneggiatori, critici e giornalisti.