di Vittorio Curtoni
Parlo del dolore fisico. Non di quello mentale, né del disagio psichico, né dei turbamenti d’amore che chi non ha provato in vita sua? Tutti dolori rispettabili, e capaci di produrre ferite a lunghissima rimarginazione; però in questi anni, lottando con un cancro (per il momento in maniera vittoriosa), ho sofferto parecchio nel corpo, per un incidente e per l’altro, e ho fatto alcune riflessioni che vorrei condividere con i lettori del giornale.
Primo dato, il più ovvio: il dolore fisico è multiforme. Al cento per cento. Assestarsi una martellata su un pollice o avere un’emicrania tremenda sono entrambe esperienze distruttive, però d’aroma diverso. Così come il mal di denti è differente, che so, dalla colite. Esiste un’amplissima gamma di dolori, sicché nessuno, in vita sua, potrà mai dire di averli provati tutti. La macchina biologica che è il corpo umano si sbizzarrisce ogni volta in nuove combinazioni, inedite variazioni sul tema. Come un grande compositore di musica sinfonica o, su un piano più godereccio, un grande cuoco.
Ora, sappiamo tutti che il dolore è un segnale importante per la sopravvivenza: se non provassimo quel bruciorino in gola, o il classico colpo della strega alla schiena, eccetera, non ci renderemmo conto che qualcosa non va. D’accordo. Però io mi chiedo: c’era proprio bisogno di escogitare tanti patimenti diversi? Non bastava un unico segnale di dolore, sempre quello, e magari sempre della stessa modesta intensità, localizzato nella zona interessata? Secondo me, avrebbe funzionato lo stesso. Ma evidentemente, come diceva una canzone della mia infanzia, siamo nati per soffrir…
Secondo dato significativo: il dolore è incomunicabile. Se tu stai soffrendo, nessuno può veramente capire cosa provi. Perché di sensazioni (tremende) si tratta, non di idee, concetti che puoi trasmettere ad altri. Se stai male, stai male e basta. Lo sai solo tu quel che ti succede, non le persone che ti stanno attorno, ansiose magari di lenire la tua sofferenza con i rimedi a portata di mano. Anche se per certe cose non c’è rimedio, al di là delle flebo di morfina che ti possono somministrare in ospedale dopo un’operazione. E comunque, quando torni a casa ti devi godere tutti i residui in prima persona. Vero, alcuni dolori sono comuni all’intero genere umano, per cui suppongo che parlare dell’agonia di una carie con un amico che ne ha già sofferto significhi trovare un terreno comune; ma le altre cose? I patimenti che hai subito solo tu? E se anche qualcun altro li avesse provati, chi ti dice che siano stati identici? Impossibile. Qui entra in gioco la meccanica quantistica del dolore: a ciascuno il suo.
Perché non solo di differenze qualitative e quantitative dei singoli dolori si tratta, ma anche di capacità soggettive di resistenza che variano in maniera imprevedibile da un individuo all’altro. Esiste la cosiddetta soglia del dolore, il limite fino al quale si riesce a sopportare e oltre il quale si va in fusione. Il sottoscritto ritiene di avere una soglia abbastanza alta, il che mi pare un vantaggio soprattutto per chi si trovi a circondarmi d’amorose cure: se soffro, preferisco essere lasciato solo, in santa pace, come i gatti e gli animali in genere, a godermi la sublime esperienza. Magari gli occhi piangono di loro spontanea volontà, però non sto a uggiolare, strepitare, invocare aiuto. Sia quel che sia, si va avanti. Viva Rambo! Non che mi consideri un eroe o un superuomo, tutt’altro: la soglia elevata è solo una caratteristica del mio fisico, come la calvizie o la tendenza alla pinguedine. Sono contento di possederla, questo sì. E devo confessare che mi dà abbastanza fastidio chi si abbandona a gemiti scomposti, atteggiamenti da martire, al minimo taglietto, a un inizio d’influenza. E che diamine, un poco di carattere.
Probabilmente sono impietoso, schizzinoso. Nessuno di noi può entrare nella pelle degli altri, vedere le cose con i suoi occhi e la sua mente, percepire attraverso i suoi sensi. Chiedo scusa. Però di una cosa sono certo: se alzi le mani, se ti arrendi alle prime avvisaglie del disagio fisico, sei già parzialmente fregato. Il dolore prenderà il sopravvento, si impossesserà dei tuoi pensieri e farà di te uno zombie incapace di ragionare. Di esistere. Lottare sempre, arrendersi solo se e quando l’accerchiamento del nemico non lascia più sentieri d’uscita. Il che vale in maniera molto specifica per l’opposizione interiore da opporre al cancro, grande demone divoratore di corpi dei nostri tempi. Lo dico sempre ai miei colleghi di malattia: non cedete, stringete i denti, fatevi forza. Possiamo vincere soltanto se non ci dichiariamo sconfitti sin dall’inizio. Ad alzare bandiera bianca c’è sempre tempo, tenetelo presente.
Va detto che anche il piacere è un’esperienza altrettanto incomunicabile. Giusto. Ma vorrei fare presente che i maggiori godimenti dell’esistenza umana sono piuttosto diffusi e di natura abbastanza simile. Riuscire a comperarsi una casa, avere un figlio, fare una splendida carriera: e chi non riesce a capire queste cose? Se siamo amici, perché non dovrei provare la tua stessa felicità? Non c’è davvero motivo. Penso (e potrei sbagliarmi) che l’unico piacere della specie umana incomunicabile quanto il dolore sia l’orgasmo sessuale, che hai voglia a raccontarlo, non ci riuscirai mai. Nemmeno D’Annunzio ce l’ha fatta. È un’esperienza al di là dei nostri parametri comunicativi. Perché ci trascende.
Torniamo al dolore. Il primo dei suoi lati buoni è che a un certo punto finisce. Certo, a volte la scomparsa del dolore può anche coincidere con la morte, ma cerchiamo di non essere troppo pessimisti. Si può uscire dal dolore, come ad esempio è capitato a me, senza lasciarci la pelle. La cessazione può essere improvvisa, come nel caso di crisi acute di una malattia, oppure graduale, prodotta pian pianino, giorno dopo giorno, dall’azione di farmaci, terapie fisiche, eccetera. La prima è la più goduriosa e tende a provocare un meraviglioso senso di euforia. La seconda dà meno soddisfazione, come tutte le cose protratte troppo a lungo, però non sputiamoci sopra. Stare bene, accada nel giro di un solo giorno o di settimane o mesi, è sempre una grande cosa. E anche il semplice stare un po’ meglio va benissimo.
Volenti o nolenti, si torna sempre a Giacomo Leopardi. Piacer figlio d’affanno. La quiete dopo la tempesta. In parole povere, per sentirsi bene occorre prima sentirsi male. Quanto vero. La disgraziata prassi esistenziale della specie umana. E purtroppo, siccome il benessere è una sensazione di bassa intensità rispetto agli apici della sofferenza, dopo un certo tempo nemmeno riusciamo più a godercelo. Non lo avvertiamo, non lo percepiamo con il calore e l’entusiasmo che meriterebbe. Stare bene è la norma, stare male l’eccezione; e la norma tende a essere monotona, ripetitiva. Più di tutto, data per scontata. I nostri meccanismi psichici sono perversi e in buona misura masochisti. Forse solo chi, per sventura, si trovi a condurre un’intera esistenza di sofferenze sa apprezzare fino in fondo le rare oasi di quiete, ma qualcuno di voi desidera pagare questo prezzo pur di poter godere gli scarsi momenti, gli scarsi giorni di sollievo? Io senz’altro no. E amen.
Seconda e ultima, stando alla mia analisi, caratteristica positiva del dolore: non lascia tracce mnemoniche. Per lo meno, non tracce coscienti. Questo è il lato migliore in assoluto. Provate a rievocare l’intensità della sofferenza che avete provato il giorno tale, nell’anno tale. Non ci riuscirete mai. La memoria si arresta davanti agli input squassanti che avete ricevuto dal corpo. Potete ricordare quando è successo, come e perché, le cure che vi sono state prestate, gli antibiotici e gli analgesici, gli eventuali interventi chirurgici; ma il dolore in sé e per sé, no. Al massimo potrete dire che quel dolore lì era diverso da quel dolore là. Avanzando con gli anni, si diventa bravi ad apprezzare le differenze. Oltre questo, per quanto vi sforziate, non riuscirete ad arrivare. Sono convinto che si tratti di uno dei più potenti mezzi di difesa psichica a nostra disposizione, del quale possiamo approfittare a mani libere senza nemmeno dovere pagare una tessera d’iscrizione.
Per cui, in un certo senso, col trascorrere del tempo siamo noi a fregare il dolore. Ti ho dimenticato, tiè. Sei il passato, sei un’altra vita. Io neanche so più come sei fatto. Buono a cuccia.
Finché la stessa tipologia di dolore non si ripresenta, e allora di colpo tornano tutti i ricordi, e sappiamo benissimo cosa ci attende. Inutile, sarà sempre quel figlio di buona donna, il dolore, ad avere l’ultima parola.
(Per gentile concessione dell’editoriale Libertà, Piacenza, 2011.)