di Luciano Rispoli
Erano gli anni Venti quando Wilhelm Reich proponeva le prime ipotesi sull’esistenza di interconnessioni profonde e complesse tra lo psichico e il somatico e sulla necessità in psicoterapia di intervenire anche sul versante corporeo. Reich fu tra coloro che posero le basi di una nuova teoria corpo-mente. Il suo concetto di identità funzionale tra psiche e soma apre alla grande scoperta che nel corpo è scritta tutta la storia delle nostre emozioni e dello sviluppo della nostra vita, sin da quando nasciamo. Da lì si è sviluppato tutto il grande filone della psicoterapia corporea, delle sue tecniche e delle sue metodologie, di interventi che non fossero solo psicologici, esclusivamente verbali.
Molta strada è stata percorsa da allora. All’interno di questo vasto fermento di ricerche e sperimentazioni si è andato man mano delineando ed evidenziando un altro nuovo filone, una nuova frontiera della scienza, un modo complesso di leggere il funzionamento degli esseri umani e della loro interazione.
La psicologia funzionale, muovendosi in questa direzione, si è man mano sviluppata tentando di affrontare il paradigma della complessità e di andare oltre le formulazioni e le ottiche tradizionali.
Si trattava in effetti di una ipotesi iniziale di teoria complessiva del Sé, un primo tentativo di superare le limitazioni dei vari approcci clinici, verso la costruzione di una teoria integrata e unitaria (ma non semplicistica della personalità e della psicoterapia).
Si è iniziato con il superare concetti troppo generici e vaghi, come quelli di corpo e di mente, per arrivare a parlare, all’interno della ipotizzata unitarietà corpo-mente, di processi psicocorporei, scendendo dettagliatamente su tutte le funzioni che costituiscono il Sé: dai ricordi alla razionalità, dal simbolico alle fantasie, dalle posture ai movimenti, dalle emozioni alle forme del corpo, dal sistema neurovegetativo alle percezioni.
La psicologia funzionale ritiene importante guardare alla persona nella sua unitarietà, e nello stesso tempo nella sua complessità, nella sua concretezza e pluralità di piani e livelli su cui operare. Si tratta di sviluppare un concetto di “olismo” che non sia vago ma estremamente ricco e circostanziato.
Il Sé può essere definito funzionalmente come l’organizzazione di tutti i piani psicocorporei, come l’insieme delle leggi che regolano l’interazione tra tutti i processi e i piani dell’organismo visto nella sua interezza e globalità.
Ma il punto di vista funzionale (che in fondo si ricollega per certi aspetti al primo funzionalismo di Dewey e di James, ancora sorprendentemente attuale) ha scoperto le sue grandi potenzialità nel potersi applicare con successo a molti ambiti, a tutti gli insiemi complessi e dinamici che costituiscono la realtà sociale: famiglie, gruppi, équipe, sistemi, e persino città.
L’evoluzione epistemologica
Nell’ultimo secolo abbiamo assistito a trasformazioni significative all’interno del mondo della scienza, dal modo di affrontare i problemi alle metodologie con cui si andavano studiando sistemi via via più complessi. Anche il mondo del pensiero comune non è stato esente da tali trasformazioni. È raro che oggi si pretenda che le scoperte scientifiche siano verità assolute; si comincia a capire meglio che le cose si devono guardare con ottiche relativistiche, e i modelli teorici come ipotesi piuttosto che come realtà.
Nelle scienze umane le cose sono ancora più delicate. Una conoscenza complessa e complessiva delle leggi che regolano il funzionamento psichico e fisico dell’uomo è ancora molto lontana dall’essere raggiunta: abbiamo invece, attualmente, una serie di modelli differenti sia in medicina che in psicologia.
Certamente, il modo di vedere e leggere il funzionamento della persona si è anch’esso andato modificando nel tempo, sotto l’influenza dei cambiamenti epistemologici della scienza. Il positivismo settecentesco ha ceduto il passo a un’ottica relativistica, anche se successivamente il neopositivismo si è riaffacciato prepotentemente sulla scena.
Per reazione, gran parte della psicologia è stata tutta tesa a separarsi dal modello medico puntando in modo esclusivo sulle sensazioni individuali, sui vissuti, sul soggettivismo. Le neuroscienze e la psicofarmacologia, per contro, hanno continuato a sostenere un oggettivismo esasperato. Un’analoga contrapposizione è andata creandosi tra l’atteggiamento dei clinici rispetto a quello degli sperimentalisti all’interno della psicologia stessa.
L’ottica epistemologica si è andata comunque notevolmente evolvendo. Da una visione puramente strutturalista, che guarda con prevalenza alle entità e ai contenuti, si è passati ad un’attenzione crescente verso le modalità e l’organizzazione dei processi. Pensare in termini di strutture significava voler considerare reali e concreti elementi che spesso non sono materiali; voleva dire continuare a spingere nella direzione dell’organicismo, anche se “psichico”; e infine giustificava la parcellizzazione dell’oggetto di studio perché ne venivano prese in considerazione le singole parti separatamente.
È invece il concetto di olismo che si sta facendo strada, sostenuto dal bisogno di non tralasciare l’unitarietà del soggetto, di superare la frammentazione e le specializzazioni che finiscono con il perdere di vista gli elementi centrali del funzionamento degli esseri umani, della vita, della salute e del benessere. Ma era necessario poter arrivare a un olismo che non restasse troppo sul vago e sul generico, e che avesse quindi le capacità di scendere nei dettagli profondi per poter avere capacità operative.
Dunque, come tenere conto dell’unitarietà e al contempo non sfuggire allo studio della complessità? Come superare la dicotomia tra soggettivismo e oggettivismo? Come andare al di là del neopositivismo e non cadere però nell’irrazionalismo spinto per il quale alla fine niente si può studiare, capire e riprodurre?
Verso una nuova epistemologia
Anche i modelli basati sulla divisione in parti, nonostante siano maggiormente avanzati, oggi mostrano di non essere più del tutto sufficienti per affrontare i nodi della dinamicità e della complessità. Una struttura complessa non può essere considerata come somma di parti definite: le parti rimandano a una suddivisione spaziale, territoriale, che non permette di capire il funzionamento dell’insieme. Le parti devono essere invece sostituite da quel qualcosa che le collega, altrimenti si corre il rischio di perdere l’insieme e di cadere appunto nella parcellizzazione, uno dei mali della scienza passata. Una logica delle parti non riesce a includere al suo interno la visione dell’organizzazione del sistema e le parti finiscono per venire considerate l’una in alternativa o addirittura in contrapposizione alle altre.
Dunque siamo in pieno cammino verso nuove ottiche di tipo multidimensionale, verso modalità differenti di guardare la realtà complessa dell’uomo e delle sue interazioni sociali. Sono passati cento anni dalla nascita di Wilhelm Reich: qualcosa di significativo ha avuto origine con il suo pensiero proprio in questa direzione. Un qualcosa che, certo, ha avuto uno sviluppo successivo fino ad arrivare alla nuova frontiera del pensiero funzionale (con il suo contributo specifico sui temi della complessità), ma che ha pur sempre germogliato da quel primo pensiero fecondo.
La clinica
La terapia è stato il primo campo di applicazione di una visione che non poteva più escludere il corpo e l’interezza della persona. Si comunica molto più con il corpo che con le parole. Ma il punto è che il corpo comunica profondamente non solo con gli altri ma anche e soprattutto con la persona stessa, inviandole un flusso continuo di sensazioni molto spesso inconsapevoli. Questo spiega la presenza di ansia, angoscia, rabbia o melanconia anche se non vi sono elementi esterni che giustifichino tali stati d’animo negativi, né pensieri che vanno in questa direzione.
Nel corpo, o meglio nelle varie funzioni psicocorporee, troviamo tracce attive di antiche vicende relazionali: desideri frustrati, slanci bloccati, paure non contenute, rabbie compresse. Tutto questo non è più un mistero. Oggi sappiamo che esiste una memoria periferica che conserva queste tracce sotto forma di alterazioni di funzioni psicocorporee: tono muscolare di base, soglie percettive, movimenti abitudinari e stereotipati, posture cristallizzate. Si spiegano così il permanere di vecchi meccanismi durante la crescita fino all’età adulta, il perché le persone finiscano per avere comportamenti ripetitivi non adeguati alla realtà esterna, come mai vecchi “fantasmi” continuino a prendere il sopravvento sulle sensazioni reali dell’oggi. Si crea come un filtro attraverso il quale la persona percepisce la realtà, un filtro che crea sempre la stessa coloritura e deforma sempre allo stesso modo.
Il filtro è appunto l’organizzazione alterata di tutte le funzioni psicocorporee, la forma che queste hanno assunto nel tempo, ciò che definiamo il “Sé”: la globalità di una persona, qualcosa che va molto al di là della parte cosciente e volontaria.
Possiamo dunque parlare di funzioni psicocorporee: posture, modalità di movimenti, forma delle parti del corpo; ma anche attivazione fisiologica, apparati di regolazione interni (termoregolazione, neurovegetativo, e giù via via fino ai sistemi biologici più profondi legati alle cellule), percezioni, tono muscolare di base; senza trascurare i piani simbolici, quelli cognitivi, i ricordi, l’immaginazione, la progettualità; e infine tutta la gamma delle emozioni e dei sentimenti, quelli espressi, quelli soffocati, quelli trattenuti, quelli esasperati.
Tutte queste funzioni concorrono in maniera paritetica all’organizzazione della personalità. La loro integrazione, lo sviluppo armonico delle une rispetto alle altre, la loro piena e ampia mobilità costituisce lo stato di salute e di benessere della persona. Il loro alterarsi, l’ipertrofia di alcune di esse a discapito di altre, la limitazione delle loro gamme, la mancanza di mobilità, le stereotipie costituiscono un’alterazione complessiva del Sé e uno stato di patologia che sfocia in sintomi e disturbi di vario tipo. È dunque l’intero organismo che si ammala.
La conoscenza di tutto ciò aiuta a migliorare gli interventi curativi; permette di fare progetti calibrati esattamente sulla persona, di individuare le strade e i metodi più adatti a riequilibrare il Sé, a riconnettere tra di loro emozioni e movimenti, toni di voce adeguati, espressioni del viso congruenti, attivazioni fisiologiche più adatte, sensazioni corrispondenti. Le emozioni troppo sviluppate si ridimensionano, le fantasie angosciose si riconnettono con le dimensioni reali del pericolo, i ricordi si aprono anche su elementi positivi. I funzionamenti diventano morbidi e mobili, passando facilmente dalla rabbia alla tenerezza, dal dolore alla gioia, dall’agitazione alla calma, dalla concentrazione all’allentamento.
Altri campi applicativi
La possibilità di una mappatura precisa e allo stesso tempo globale, dettagliata ma unitaria, ci fa comprendere come il pensiero funzionale non sia solo una teoria clinica ma un modo di leggere la realtà in generale. Negli ultimi anni lo sviluppo delle sue applicazioni e delle sue implicazioni è stato vertiginoso. È bastato cominciare a guardare non solo all’organismo singolo e non solo al momento della cura. È stato allora possibile considerare l’entità famiglia, con le sue atmosfere, con i suoi movimenti, il contatto o la freddezza, le “posture” sclerotizzate o mobili, le chiusure o le aperture. Oppure analizzare il gruppo, con le sue molteplici funzioni psicocorporee, i movimenti agitati o calmi, le sue tendenze a razionalizzare o a lasciar correre, a esplodere o controllare. Esiste un “fisiologico” anche del gruppo: un “sistema respiratorio”, un “circolatorio”, un “vegetativo”, un “percettivo”.
Recentemente si è passati ad analizzare organizzazioni ancora più complesse, quali può essere addirittura un’intera città, considerata anch’essa come un organismo vivente: caratterizzata da una “temperatura”, da “movimenti”, “circolazioni”, “immaginazioni”, con un proprio “simbolico”, una “memoria storica”, un “tessuto emotivo”.
La differenza di un organismo da un sistema di parti è che l’organismo “vive”: ha emozioni, sistemi di regolazione complessi, molteplici funzioni interconnesse. Non ha senso scomporlo in parti o categorie. Altrimenti si rischia di ricadere nella logica della contrapposizione che non è dell’organismo sano. Non ha senso pensare che gli interessi dei commercianti siano opposti a quelli degli impiegati, che gli automobilisti debbano essere in guerra con i pedoni, che i liberi professionisti debbano star bene solo a discapito dei pubblici dipendenti. Quando l’organismo-città sta male, sta male nella sua interezza e stanno male tutti i suoi abitanti. E non ha senso curare alcune componenti, alcune parti, così come non ha senso per una medicina olistica curare solo il fegato, la gola o l’intestino.
Si deve ancora una volta, allora, andare sulle funzioni: sul traffico, sull’aspetto della città, sui sentimenti di appartenenza, sulla speranza, sul recupero della memoria storica e così via, e ricollegare tutto questo in un’unitarietà viva e armonica.
Il risvolto sociale
Tutto ciò ci deve aiutare a comprendere che bisogna guardare all’intera società senza perdere di vista la vita profonda delle persone, come aveva indicato Reich. Non si può scollegare il benessere individuale da quello collettivo, non si può pensare che le ragioni dell’economia siano sempre più importanti, che viene sempre prima il discorso del lavoro, o del mezzogiorno, o dell’entrata nell’Europa. Bisogna considerare anche i bisogni quotidiani delle persone, le loro emozioni, i desideri profondi, i bisogni di solidarietà, di vicinanza e di contatto; bisogna guardare alle persone, come stanno realmente.
E soprattutto bisogna intervenire a cominciare dall’età in cui il malessere si struttura e in cui le personalità perdono le caratteristiche positive iniziali, si distorcono, smarriscono il senso della loro esistenza; e finiscono per non combattere più per la vita, per la solidarietà, per il rispetto degli altri, della natura e di se stessi. Dobbiamo evitare che personalità “infelici” e disilluse cerchino un palliativo all’angoscia e alla sofferenza nella droga (nelle varie droghe, non solo quelle chimiche), nel potere sfrenato, nella violenza, nella pedofilia, nell’impulso folle alla distruzione o all’autodistruzione.
Dobbiamo agire, in fretta e in modo radicale, per salvare i nostri bambini e i nostri adolescenti; dobbiamo mettere in atto un’opera di prevenzione non sporadica ma capace di permeare tutta la società, capace di entusiasmare tutti, di collegare genitori e operatori, società civile e istituzioni, scienza, professioni e governanti.
Se vogliamo far cessare il dramma di bambine e bambini, di ragazze e ragazzi, che è poi il dramma della società tutta, dobbiamo pensare presto e bene alla prevenzione. E dobbiamo allora ripensare i processi di costruzione dell’identità dei nostri giovani senza più trascurare nessuna componente psicocorporea individuale né alcuna componente sociale, al fine di salvaguardare le ricchezze esistenti in partenza nelle nuove generazioni, e le sensibilità specifiche del maschile e del femminile prima che si impoveriscano in ruoli stereotipati e sterili.
Bisogna ridare il senso alla vita, ridare progettualità non solo all’esistenza individuale ma anche a quella collettiva: un significato di largo respiro basato sul rispetto, sul contatto, sull’amore, sulla tenerezza, componenti fondamentali per una pienezza di vita che non possiamo più trascurare e che invece le accelerazioni, gli sviluppi tecnologici, i modelli precostituiti imperanti nei mass media stanno distruggendo.
La salvaguardia della vita individuale e sociale è nella multidimensionalità, così come quella della vita biologica è nella biodiversità. Non si possono perdere lati fondamentali del vivere umano a favore di velocità, durezza, aggressività, indifferenza, egocentrismo, violenza. Il pensiero funzionale, la teoria della complessità ci possono aiutare a dare contenuti, modalità e direzioni precise al nostro agire.
Se riuscissimo ad avviare un progetto che restituisca all’infanzia e all’adolescenza gli aspetti che si stanno perdendo, avremo fatto un passo importante verso una svolta decisiva, verso un’umanizzazione completa della società, verso il nuovo millennio. E avremo fatto il più prezioso omaggio che si possa fare a Wilhelm Reich e a tutti coloro che, come lui, si sono sempre battuti, pagando duramente sulla propria pelle, a favore dell’infanzia e dei giovani, della salvaguardia dei loro bisogni fondamentali, per conservare in una società libera dalla “peste emozionale” i valori fondamentali della vita.
(da La validità del pensiero di Wilhelm Reich: nuove prospettive e nuove potenzialità – di Luciano Rispoli)