di Armando Lancellotti
Heda Margolius Kovály, Sotto una stella crudele. Una vita a Praga 1941-1968, Adelphi, Milano, 2017, pp. 214, € 20,00
«Incantata dalla bellezza della parola precisa che si fonde in maniera perfetta con un’idea nitida, entrai in un nuovo mondo in compagnia dei miei autori» (p. 186). Così Heda Margolius Kovály descrive la sensazione provata quando, quasi per caso, inizia la professione di traduttrice, nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, in un momento particolarmente difficile – uno dei tanti – della sua tormentata e spesso tragica vita. E con una prosa precisa ed uno stile asciutto che denotano rigore ed estrema lucidità di pensiero Heda Bloch – Margolius e Kovály sono i cognomi dei due mariti – narra le vicende autobiografiche vissute tra il 1941 e il 1968, nel cuore dell’Europa – a Praga – e a metà di quel “secolo di ferro” che è stato il Novecento. Si tratta di uno di quei casi in cui gli avvenimenti e gli episodi di una esistenza individuale e privata diventano un tutt’uno con i fatti e gli eventi universali e collettivi della Storia, che travolgono i primi come un tragico ed ineluttabile destino di ingiustizia, di dolore e di morte che è impossibile contrastare.
Heda Bloch nasce in una famiglia di praghesi ebrei nel 1919 ed è poco più che ventenne quando nel 1941 ha inizio la deportazione degli ebrei cecoslovacchi verso i ghetti prima e i centri di sterminio poi nella vicina Polonia. Ne ha invece poco più di trenta nel 1952, quando il marito – Rudolf Margolius, viceministro al Commercio estero del governo comunista della Repubblica cecoslovacca di Klement Gottwald – viene giustiziato poiché coinvolto nel caso Ślanský, quel processo farsa che con metodi pedissequamente stalinisti epurò il partito comunista cecoslovacco e ne eliminò importanti esponenti, quasi tutti ebrei. Infine di anni Heda ne avrà quarantanove quando nel 1968, dopo l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia e il crollo delle speranze riposte nella Primavera praghese, abbandona il paese per recarsi in esilio negli Stati Uniti.
Sono queste le coordinate temporali che delimitano il periodo storico che Heda Margolius Kovály ricostruisce secondo la prospettiva della narrazione autobiografica, ed è a Praga, cioè in una città e in un paese per eccellenza mitteleuropei, che tutta la violenza di cui il XX secolo è stato capace si concentra e si scatena: ad un totalitarismo se ne sostituisce un altro, quasi senza soluzione di continuità e all’invasione, all’occupazione e ai crimini nazisti seguono il colpo di stato, l’occupazione, l’invasione e i crimini stalinisti e sovietici più in generale.
Quello che l’autrice offre al lettore con questo prezioso racconto autobiografico, pubblicato per la prima volta in Canada nel 1973 ed ora tradotto in italiano da Adelphi, è uno spaccato dell’Europa tra il secondo conflitto mondiale e la guerra fredda e al tempo stesso è un’acuta e profonda riflessione sul totalitarismo, sulle sue costanti strutturali e soprattutto sulle sue conseguenze, che si ripercuotono sulle esistenze individuali e collettive, private e sociali e che si manifestano nella soppressione della libertà, nello stravolgimento della verità e nella violazione della dignità e della vita umane.
Per un regime totalitario non è difficile mantenere la gente nell’ignoranza. Non appena rinunci alla libertà – per “implicita necessità”, per disciplina di partito, per conformità al regime, per la grandezza e la gloria della Patria, o per qualunque altro dei surrogati offerto in modo tanto convincente – ti privi del diritto alla verità. La tua vita comincia a scorrere via adagio, goccia dopo goccia, come si ti fossi tagliato le vene; ti sei volontariamente condannato all’impotenza (p. 16).
Nel 1941 le autorità tedesche del Protettorato di Boemia e Moravia ordinano la deportazione in massa degli ebrei praghesi e la famiglia Bloch viene inviata in Polonia, nel ghetto di Łódź, di cui la scrittrice fornisce una descrizione scarna, fatta di immagini dure e ruvide, che al meglio rappresentano la violenza e la disperazione della non-vita in un ghetto, a cui fa seguito una tappa ancora peggiore verso l’annientamento dell’umano progettato dai nazisti, cioè la deportazione ad Auschwitz, dove l’intera famiglia Bloch trova la morte, eccezion fatta per Heda, che, dopo un periodo di lavoro in un altro campo e presso una fabbrica di mattoni, viene destinata al trasferimento a Bergen Belsen, quando ha inizio lo smantellamento dei grandi lager a Est, in seguito all’avvicinamento della linea del fronte e dell’Armata Rossa. È proprio in occasione di questa “marcia della morte” che Heda, insieme ad alcune compagne, tenta l’impensabile e l’impossibile: la fuga e il ritorno a Praga.
A spingere le fuggitive non è solo l’istinto di sopravvivenza, che nonostante tutte le brutalità subite non è stato ancora sopraffatto dalla rassegnazione alla morte, ma è anche e forse soprattutto il desiderio intenso di rivivere, fosse anche solo per un breve momento, la sensazione di essere libere, cioè esseri umani capaci di autodeterminarsi, di scegliere. È una fuga verso la libertà e per la riconquista di quella dignità umana che il ghetto prima e il campo poi avevano loro negato. Ed il ritorno a Praga, dopo pericoli e difficoltà inimmaginabili, in una città cioè ancora nelle mani delle forze di occupazione e della Gestapo che le dà la caccia, mette Heda Margolius Kovály da un lato nella condizione di sentirsi di nuovo un essere umano, «una donna con un passato e un futuro» (p. 31), ma dall’altro la indirizza verso una via crucis fatta di nascondigli improvvisati, della paura di essere catturata o denunciata e dello spaesamento causato dal ritorno alla vita libera e alla sua città dopo anni nei quali era stato come se avesse (non)vissuto in un (non)mondo a parte che difficilmente gli altri avrebbero potuto capire o anche solo immaginare.
Ma ciò che più sconvolge l’autrice e turba il lettore è l’esperienza della codardia e della fredda indifferenza dei conoscenti e anche degli amici di un tempo, che – chi per paura, chi per insensibilità, chi mostrando addirittura disappunto dinanzi alla ricomparsa di chi credeva morto – più o meno garbatamente chiudono la porta in faccia all’ebrea fuggita dal campo, all’appestata da evitare a tutti i costi. Sono proprio queste le pagine più incisive e più riuscite della prima parte del libro, pagine che vedono la protagonista errare per la città, col rischio di essere catturata, alla ricerca di qualche amico del passato che sia disposto ad aiutarla. Negli occhi di quasi tutti, e non solo di quelli che le chiudono la porta in faccia, Heda coglie un insieme di spavento, stupore, incredulità, come se costoro si trovassero di fronte ad un essere alieno, ad una donna tornata dal regno dei morti. Ed in effetti ella, come gli altri ebrei deportati, per quattro anni ha fatto parte di un altro mondo, di un non-mondo fisicamente vicino, ma ontologicamente lontanissimo, in quanto destinato al non-essere, all’annientamento non solo dell’esistenza dell’uomo, ma anche della sua essenza, in altri termini un mondo collocato in un altrove infernale dal quale nessuno avrebbe dovuto fare ritorno.
L’epifania di un volto noto, ma quasi reso irriconoscibile dalle brutalità sofferte nel lager, agisce come un potentissimo richiamo alla coscienza di ognuno, inchiodata a fare i conti con se stessa e con il proprio senso di colpa. Pertanto non solo la paura di essere accusati dalla Gestapo di complicità con una ebrea fuggiasca, ma forse ancor di più l’imbarazzo di fronte alla cruda verità che si presenta con i lineamenti di un volto femminile stravolto dalla deportazione ad Auschwitz, immobilizzano molti degli amici e dei conoscenti del passato, che non vogliono, non possono, non riescono ad aiutare una donna in fuga dalla disumanità e alla disperata ricerca di prove che attestino che nonostante tutto l’umanità sia ancora possibile.
Scrive l’autrice: «mi toccava fare i conti con un nemico peggiore: la paura e l’indifferenza degli uomini. […] cercavo un essere umano nel quale l’umanità si dimostrasse più grande della paura» (p. 34).
E proprio perché spaesata, disorientata e isolata in quella città tanto amata e altrettanto vagheggiata durante la prigionia, Heda prende la decisione, l’unica possibile, di cercare rifugio all’interno della Resistenza, di lottare per la propria sopravvivenza combattendo il nemico. Una scelta fatta e per necessità e per considerazioni quasi più etiche che propriamente politiche. Sono la ricerca dell’umano dopo aver sperimentato la disumanità e la volontà di agire come donna libera e cosciente della propria dignità che inducono Heda alla militanza partigiana, ben più della coscienza politica o dell’adesione convinta agli ideali del socialismo e del marxismo.
Finalmente la primavera del 1945 porta con sé anche la vittoria, la liberazione dal nazismo e il ritorno a Praga di Rudolf Margolius, marito di Heda dal 1939, anche lui deportato prima a Łódź, poi ad Auschwitz e a Dachau, da cui era riuscito a fuggire. La pace sembra riportare nella vita di Heda la possibilità della felicità dopo gli abissi del dolore, ma la realtà sin da subito si dimostra tutt’altro che facile.
Due mesi dopo la liberazione, gli applausi e gli abbracci erano finiti. La gente non regalava più cibo e vestiti, ma li vendeva sul mercato nero. Coloro che si erano compromessi durante l’occupazione cominciarono a calcolare e a tramare, a controllarsi e a spiarsi a vicenda, a coprire le proprie tracce, ansiosi di mettere al sicuro le proprietà acquisite grazie alla collaborazione con i tedeschi, alla viltà e alle denunce, oppure saccheggiando le case degli ebrei deportati. Ben presto il senso di colpa e la paura della punizione generarono odio e sospetti contro le vere vittime dell’occupazione: gli oppositori attivi e passivi, i partigiani, gli ebrei e i prigionieri politici, le persone oneste che avevano resistito alle persecuzioni senza tradire i propri principi. Gli innocenti diventarono un rimprovero vivente e una potenziale minaccia per i colpevoli (p. 62).
Sono mesi ed anni al contempo molto difficili ed entusiasmanti quelli immediatamente successivi al 1945: la Cecoslovacchia ritorna ad essere una repubblica indipendente e sovrana, un intero paese ed un’intera società sono da ricostruire, da reimpostare su nuove e migliori fondamenta. Il piccolo appartamento che viene assegnato ai Margolius si riempie quasi tutte le sere di amici e conoscenti che discutono di politica, di democrazia, di socialismo, di comunismo, della guerra, degli errori del passato, dei limiti del modello liberal-democratico e delle nuove speranze e prospettive proposte dal socialismo, dell’Unione Sovietica come paese amico ed alleato. La scelta comunista di Rudolf Margolius è anteriore e molto più convinta di quella della moglie, che alla fine, nonostante molte perplessità, si iscrive al Partito per amore del marito e fiducia assoluta nella bontà delle sue idee e per considerazioni – ancora una volta – di ordine morale più che politico. Il crollo del mondo del passato e dei suoi valori dimostratisi fallimentari, la volontà di non rassegnarsi alla malvagità e alla meschinità della natura umana e di credere che nonostante tutto sia possibile lavorare per una società libera, giusta, uguale portano anche Heda a seguire il marito all’interno del Partito comunista.
A quel tempo i comunisti continuavano a sottolineare le basi scientifiche della loro ideologia, ma io so che la strada che portò molti cecoslovacchi tra le loro file era lastricata di forti e buone emozioni (p. 68).
Emozioni, appunto, passioni, sentimenti o impressioni, come quelle suscitate dal comportamento dei comunisti all’interno dei lager e che la scrittrice così ricorda:
Il nostro condizionamento rivoluzionario era cominciato nei campi di concentramento. Forse eravamo rimasti particolarmente colpiti dall’esempio dei nostri compagni di prigionia, comunisti che spesso si comportavano come esseri superiori. L’idealismo e la disciplina di partito conferiva loro una forza e una resistenza che nessun altro poteva eguagliare; sembravano soldati ben addestrati in mezzo a una folla di bambini. […] Nei campi di concentramento si era creato un forte senso di solidarietà, l’idea che il destino di ciascun individuo fosse in ogni modo legato al destino del gruppo, sia che si trattasse del gruppo di prigionieri, dell’intera nazione o di tutta l’umanità (p. 70-71).
Ma l’esperienza del lager risulta fondamentale, secondo le acute analisi dell’autrice, anche per comprendere quella predisposizione psicologico-emotiva riguardo al diritto e al concetto di libertà che contribuì a far sì che molti, in quelle particolari circostanze, quasi inconsapevolmente compissero passi sempre più decisi vero una nuova, una seconda, dittatura.
Gli anni di prigionia ebbero un altro effetto paradossale. Per quanto desiderassimo essere liberi, il nostro concetto di libertà era cambiato. Rinchiusi dietro il filo spinato, privati di ogni diritto, compreso quello alla vita avevamo smesso di considerare la libertà come qualcosa di naturale e assiomatico […] Di solito il ragionamento era più o meno questo: se per costruire una nuova società è necessario rinunciare momentaneamente alla libertà, subordinare qualcosa che amo a una causa in cui credo con forza, sono disposto a fare questo sacrificio. […] Questa vocazione al martirio era più forte di quanto generalmente si pensasse (p. 71-72).
E proprio il dogmatismo, la richiesta da parte del Partito di un atteggiamento quasi fideistico e religioso, la riduzione del marxismo a facile formulario di risposte semplici a problemi complessi sono gli aspetti della militanza nel partito comunista, ancor prima del colpo di stato sovietico del 1948, che sconcertano maggiormente Heda Margolius, in quanto, come sperimenterà personalmente, «un sistema politico che non può funzionare senza martiri è un sistema guasto e distruttivo» (p. 73).
Prima di quello che sarebbe poi stato definito il “Febbraio vittorioso”, cioè il golpe sovietico, in Cecoslovacchia molti comunisti credono ancora che potranno liberamente scegliere la propria via nazionale verso il socialismo e si guarda con maggiore interesse alla Jugoslavia di Tito che all’Urss di Stalin, ma il 1948 pone una pesante pietra tombale su queste speranze ed ha inizio una seconda, lunga, dura dittatura totalitaria che trasforma la Repubblica cecoslovacca in un satellite, uno dei più fedeli, del sistema staliniano. L’intero paese, le sue istituzioni, la sua economia, la sua società vengono sovietizzati e tutto il potere è esercitato in modo assoluto dal monolitico e burocratico Partito comunista di Klement Gottwald: era così nata una nuova Cecoslovacchia in cui «contavano solo la coscienza di classe e le origini di classe, l’atteggiamento verso il Nuovo Ordine e, soprattutto, la devozione all’Unione Sovietica» (p. 103).
Rudolf Margolius di quel sistema e di quel governo diviene parte integrante, sale di posizioni nel partito e diventa viceministro al commercio estero, impegnandosi a fondo in un’attività politica in cui ancora crede convintamente, ma al tempo stesso trasformandosi in ingranaggio di un gigantesco e centralistico sistema burocratico statale-partitico che è sempre più chiuso su se stesso e lontano dalla società, dal mondo del lavoro, dal paese reale, sui quali però con le proprie decisioni e pianificazioni politiche incide pesantemente.
Molto più tardi sarei arrivata a chiedermi se non facessero apposta ad assegnargli un carico di lavoro così folle: chiunque occupasse un posto di responsabilità nel governo non aveva un momento libero per controllare l’effetto del suo lavoro sulla vita quotidiana delle persone. I funzionari del governo e del Partito socializzavano solo tra di loro; si vedevano solo tra loro a conferenze, incontri e assemblee; giudicavano lo stato del paese basandosi solo su relazioni e documenti ufficiali, spesso insensati o del tutto falsi (p. 101).
Col passare degli anni e il radicamento del sistema stalinista le cose continuano a peggiorare, iniziano la repressione poliziesca, le persecuzioni nei confronti dei presunti nemici e sabotatori del socialismo e delle spie al soldo dell’Occidente, gli arresti indiscriminati, anche di persone del tutto insospettabili, i processi dagli esiti già scritti e che irrimediabilmente si concludono con una confessione piena dell’imputato, di conseguenza condannato come nemico del popolo.
Alla fine non dicevamo più niente. La nostra unica reazione era un silenzio attonito, terrorizzato. Solo allora alcuni cominciarono a capire che eravamo sì vittime di un complotto, ma non organizzato dall’Occidente. […] Più il Partito si sforzava di dipingere un’immagine dignitosa e benevola dell’Uomo, meno gli uomini in carne e ossa contavano qualcosa nella società. Più la nostra vita appariva prospera e felice sulle pagine dei giornali, più era triste nella realtà. La crisi degli alloggi divenne disperata. […] Davanti ai negozi c’erano code infinite; mancavano quasi tutti i generi di prima necessità. […] Le imprese nazionalizzate andavano a rotoli. […] Nel 1951 persino l’ottimismo di Rudolf era ormai scomparso, sostituito da un’autopunitiva dedizione al lavoro (p. 109 -111).
Ma il momento peggiore per i Margolius è certamente rappresentato dall’anno 1952, quando in Cecoslovacchia va in scena un “processo farsa” staliniano da manuale: il “processo Ślanský” e cioè un caso di epurazione interna al partito e al governo che vede coinvolto, sulla base di accuse infondate e di prove di alto tradimento del tutto inesistenti l’allora segretario generale del Partito – Rudolf Ślanský appunto – e un’altra dozzina di alti dirigenti ed esponenti del governo, non a caso quasi tutti di origini ebraiche, tutti condannati a morte come nazionalisti borghesi, trotzkisti e sionisti; uno di questi è Rudolf Margolius.
Per Heda Margolius inizia un periodo tremendo, innanzi tutto per la perdita insensata del marito e del padre di suo figlio ed in secondo luogo perché sono l’intera città di Praga, tutta la società cecoslovacca, il paese nel suo insieme che le si rivoltano contro. Prima il sospetto, a cui seguono l’isolamento, poi l’espulsione dal lavoro – in un paese in cui la disoccupazione è considerata reato e atteggiamento antisociale – e da ogni altro luogo o ambito sociale, poi vengono l’ostracismo pubblico, il disprezzo e l’odio. Le stesse circostanze già vissute quando dopo la fuga dal lager era stata respinta quasi da tutti si ripetono tragicamente: Heda è un’appestata, in quanto moglie di un traditore del Partito, della patria, del proletariato e delle sue infallibili guide, Gottwald e soprattutto Stalin. Pertanto vive in condizioni disperate, nella più nera miseria, elemosinando lavori mal pagati per sfamare almeno suo figlio, ammalandosi gravemente più volte e più volte rischiando seriamente di morire nella quasi assoluta indifferenza di un’intera società ormai inebetita dal regime da cui è stata plasmata. La società cecoslovacca infatti si regge sul conformismo, sull’omologazione agli slogan propagandati, sulla religiosa fede nel Partito, ma ancor di più sulla paura, sul sospetto e sulla delazione. Tutti aspetti questi che non mutano, se non forse impercettibilmente, nel passaggio da un totalitarismo ad un altro.
Il soccorso di colui che diventerà poi il suo secondo marito – Pavel Kovály, docente di filosofia, già amico di Heda e di Rudolf Margolius – insieme alla straordinaria tenacia e al disperato coraggio le permettono di vivere e di sopravvivere alla morte di Stalin (1953) e di assistere così alla destalinizzazione del 1956. E da quel momento prende il via un nuovo eroico capitolo della vita di Heda, ora Kovály, la battaglia per la riabilitazione di Rudolf Margolius. Ma ancora una volta si tratta di uno scontro impari, che vede prevalere le logiche autoconservative del regime e del Partito che solo parzialmente riabilitano i condannati del processo Ślanský ed ammettono i propri errori, senza però rivedere il processo nel suo insieme e senza rendere pubbliche le proprie colpe, i crimini compiuti e l’innocenza dei condannati.
Il Partito comunista cecoslovacco riuscì a eludere la questione del processo per tutti gli anni Cinquanta e per i primi anni Sessanta. Ciò che pose fine a quell’epoca non fu il malcontento interno, che il Partito poteva permettersi di ignorare, bensì la pressione crescente dall’estero. In Ungheria, Bulgaria e Polonia le vittime dei vari “processi farsa”, come ora venivano chiamati, erano state riabilitate da tempo. Solo nel nostro Paese non c’era nulla che scalfisse la superficie di quello stagno fangoso (p. 187).
Solo nel 1963, ma con molte riserve e cautele, il
Comitato centrale preparò un documento intitolato “Una comunicazione”, a uso esclusivo degli iscritti, che venne letto a porte chiuse alle assemblee di tutte le organizzazioni di partito. […] Solo alcuni funzionari accuratamente selezionati ebbero il permesso di vedere il documento, mentre ai membri del Partito che ne ascoltarono il testo venne severamente proibito di parlarne. Tuttavia, malgrado il divieto, nel giro di un giorno il contenuto del documento mi era stato riferito praticamente per intero, parola per parola (pp. 187-188).
Solo cinque anni più tardi, nel 1968, la Corte suprema cecoslovacca avrebbe decretato pubblicamente la piena riabilitazione di molti condannati ingiustamente e tra questi anche le vittime del caso Ślanský. Ma il ’68 è anche l’anno della Primavera di Praga, che riaccende in Heda Margolius Kovály e in tanti altri suoi connazionali la speranza di poter mutare radicalmente il socialismo cecoslovacco, di renderlo più simile a come idealisticamente molti lo avevano pensato e immaginato subito dopo il 1945, di poter smuovere le acque stagnanti e marce di quella palude politica che nonostante la destalinizzazione permaneva immutata negli anni.
Heda ora è una donna matura di quarantanove anni, ha alle spalle un vissuto privato e politico durissimo e per lo più fatto di dolorosi drammi personali, di sconfitte e di cocenti delusioni, ma con entusiasmo partecipa e dà il proprio contributo a quella così cruciale pagina della storia del proprio paese dell’Europa intera; entusiasmo che traspare palesemente nelle pagine del libro – le ultime – che raccontano di queste vicende.
Non dimenticherò mai la prima grande manifestazione giovanile, nel marzo di quell’anno. Circa ventimila fra studenti e giovani operai si stiparono nel grande salone della Fiera, altre migliaia si ammassarono nelle sale attigue, a altri ancora si radunarono all’esterno, dove poliziotti confusi e arcigni tentarono invano di provocare un incidente come pretesto per interrompere il raduno.
Tutti quei giovani erano nati e cresciuti in una società attanagliata dalla censura, dove l’espressione di qualunque opinione indipendente era trattata come un crimine. Cosa potevano sapere della democrazia? Come potevano sapere anche solo cosa volevano? Eppure, man mano che procedeva la serata, noi che eravamo più vecchi li ascoltavamo sempre più stupiti e ammirati, colpiti non solo dalla precisione e dalla chiarezza delle idee espresse, manche dall’alto livello della discussione e della disciplina di quella massa di giovani. Sapevano benissimo cosa volevano e cosa non volevano, su cosa erano aperti al compromesso e a cosa non volevano rinunciare.
La primavera del 1968 ebbe l’intensità, l’ansia e l’irrealtà di un sogno avverato. […]
Quello era il socialismo che Rudolf aveva perseguito. Vent’anni prima era un’illusione; ora stava diventando realtà (pp. 201-204).
Ma nella notte tra il 20 agosto e il 21 agosto, truppe di Unione Sovietica, DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria varcano il confine cecoslovacco, puntando sulla capitale; i vertici del Comitato centrale e del Partito comunista cecoslovacco che avevano introdotto il “nuovo corso” vengono rapidamente deposti; la resistenza e l’opposizione popolari bruscamente e violentemente represse e la “normalizzazione” sovietica fa, ineluttabile, il suo corso. È l’ennesima, cocente delusione che Heda è costretta a conoscere, ma questa volta la conduce a prendere la decisione di abbandonare la propria città – teatro di molte delle brutture subite nei trent’anni precedenti, ma ugualmente amata – il proprio paese, il proprio passato per iniziare un futuro diverso altrove, in esilio.
Il treno non si fermò a lungo al confine, e quando cominciò a muoversi mi sporsi dal finestrino più che potevo per guardare indietro. L’ultima cosa che vidi fu un soldato russo, che montava la guardia con la baionetta in canna (p. 214).
A Praga Heda Margolius Kovály ritornerà molto più tardi, dopo la caduta del Muro, dopo la fine dell’Unione sovietica, dopo la divisione tra Repubblica ceca e Repubblica slovacca e solo qualche anno prima della sua morte, avvenuta il 5 dicembre 2010.