di Marc Augé

auge2.jpgauge.jpgUn antropologo dell’inizio del XXI secolo non può non essere sensibile ai cambiamenti di contesto e di scala che oggi dominano ogni descrizione dello spazio. L’urbanizzazione del mondo è accompagnata da trasformazioni di ciò che possiamo definire “urbano”. Queste trasformazioni hanno naturalmente a che fare con l’organizzazione della circolazione, le migrazioni e gli spostamenti di popolazioni, il confronto fra ricchezza e povertà, ma più in generale possono essere considerate un’espansione della violenza bellica, politica e sociale. Proprio la violenza è infatti all’origine delle ristrutturazioni urbane, e in particolare dei cantieri che in diversi luoghi del mondo attestano gli scontri che hanno prodotto le rovine e al contempo il volontarismo che presiede alle ricostruzioni: violenza della guerra civile e internazionale a Beirut, violenza della guerra mondiale e dello scontro est/ovest a Berlino, violenza sociale nelle periferie parigine, dove si pensa di risolvere le disuguaglianze sociali e la ghettizzazione con l’implosione dei grandi complessi urbani. Il crollo delle torri di Manhattan è a questo proposito esemplare: traduce un mutamento di scala (nel bene e nel male, apparteniamo tutti allo stesso mondo) e di nuove forme di violenza.

È il frutto della guerra civile planetaria; inoltre, in un secolo che privilegia lo stereotipo, la copia o il fac-simile, diventerà ben presto l’esempio più convincente di ciò che potremmo chiamare “il paradosso delle rovine”. Paradosso che esige un commento: le rovine scompariranno come realtà e come concetto proprio nel momento delle distruzioni più imponenti, nel momento della massima capacità di annichilimento.
Il mondo della globalizzazione economica e tecnologica è il mondo del passaggio e della circolazione, ed ha come sfondo il consumo. Gli aeroporti, le catene alberghiere, le autostrade, i supermercati (aggiungerei volentieri alla lista anche le basi di lancio missilistiche) sono dei non-luoghi, nella misura in cui la loro vocazione principale non è territoriale, non è di creare identità individuali, relazioni simboliche e patrimoni comuni, ma piuttosto di facilitare la circolazione (e quindi il consumo) in un mondo di dimensioni planetarie.
Questi spazi hanno tutti un’aria di “déjà vu”. E tra i modi migliori per resistere allo spaesamento in una terra lontana c’è sicuramente quello di rifugiarsi nel primo supermercato che si incontra. Questi spazi hanno un’aria di déjà vu perché ovviamente si assomigliano (anche se l’iniziativa degli architetti ha trasformato alcuni di questi luoghi in singolarità notevoli), ma anche perché sono effettivamente già stati visti, alla televisione o su qualche dépliant pubblicitario: partecipano a quel mondo colorato, stuzzicante, confortevole e ridondante la cui immagine è fornita dalle agenzie turistiche. Si tratta allo stesso tempo di spazi ridondanti e “troppo pieni”, due caratteristiche che si rinforzano a vicenda. Un grande aeroporto come Heathrow è un centro commerciale di fama mondiale. La televisione è presente ovunque negli aeroporti (con la notevole eccezione di Roissy). Le grandi catene alberghiere circondano gli aeroporti ed evitano al passeggero “in transito” di dover deviare fino alla città per trovare un hotel. Oggi gli aeroporti sono sempre più dei nodi autostradali e ferroviari. Negli ipermercati più importanti sono presenti tutti i servizi, in particolare le agenzie di viaggio e le banche. La radio e la televisione funzionano ovunque, ivi comprese le stazioni di servizio lungo le autostrade, che si trasformano anch’esse in complessi turistici con ristoranti, negozi e spazi di gioco per i bambini: immenso gioco di specchi che offre a ogni consumatore un riflesso della propria frenesia, da un estremo all’altro delle zone più attive del mondo.

auge3.jpgNegli spazi del troppo-pieno anche gli esseri umani sono troppi. Le strade e le piste di decollo si ingorgano. Le file di attesa si allungano. Le sale d’attesa, che siano confortevoli o no (è una questione di classi), non si svuotano mai. Il mondo della velocità e dell’istantaneità fa a volte fatica a gestire il proprio successo, salvo quando un fatto di cronaca mondiale (la guerra del Golfo o l’attentato di New York) atterrisce e paralizza una parte dei consumatori, per la disperazione delle compagnie aeree e degli operatori turistici.
Mondo della ridondanza, mondo del troppo-pieno, mondo dell’evidenza. Gli spazi del passaggio, del transito, sono quelli in cui vengono mostrati con più insistenza i segni del presente. Vengono mostrati con la forza dell’evidenza: pannelli pubblicitari, nomi delle aziende più note inscritti a caratteri di fuoco nella notte delle autostrade che portano all’aeroporto (pensiamo alla tangenziale a nord di Parigi), ostentati palazzi dello spettacolo, dello sport, del consumo che all’uscita dell’aeroporto aderiscono alla città, ne fanno cedere le difese e la penetrano, imboccando varchi ferroviari, autostradali o naturali (i fiumi). Il “generico” caro a Rem Koolhas, il generico che sovverte la città storica, è uno spazio del troppo-pieno: come stupirsi che trabocchi nella città, la modelli a sua immagine, e la renda così conforme alla propria vocazione globale?

Gli spazi del vuoto sono strettamente mescolati a quelli del troppo pieno. Talvolta sono gli stessi, ma a ore diverse: l’aeroporto di notte o al mattino, poco prima dell’apertura; i parcheggi sotterranei quando l’affluenza è minore; la copertura calpestabile sopra la Gare Montparnasse, o le autostrade della Défense quando la pioggia e il vento le rendono impraticabili. Il non-luogo si percepisce, a seconda dei momenti, come un troppo-pieno di passeggeri, o come un vuoto di abitanti. In modo più sottile, il pieno e il vuoto stanno l’uno di fianco all’altro. Terreni incolti, abbandonati, zone apparentemente senza utilizzazione precisa circondano la città o vi si infiltrano, disegnando in negativo delle zone d’incertezza che non rispondono alla domanda su dove comincia e dove finisce la città. I paesi, in Francia, si ripiegano sul loro “centro storico” (la chiesa del XVI secolo, il monumento ai caduti, la piazza del mercato), con lo stesso movimento che proietta all’esterno le zone d’attività, mentre si moltiplicano le bretelle e i rondò che dovrebbero permettere al visitatore curioso di lasciare l’autostrada o la statale, per andare a dare un’occhiata. In alcune città sudamericane le bidonville o i quartieri poveri talvolta si infiltrano vicino a isolati che sono invece il centro della “surmodernità”, difesi da barriere e guardiani. Il vuoto si insedia tra le vie di circolazione e i luoghi di vita, o tra ricchezza e povertà, un vuoto che a volte viene decorato, a volte si lascia in stato d’abbandono, un vuoto dove a volte trovano rifugio i più poveri tra i poveri.

Esistono altri vuoti oltre a questi vuoti residuali. Quanto meno lo spazio urbano riesce a definirsi, tanto più si estende (e viceversa, certo). La città si copre di cantieri che rispondono a una volontà di espansione (come nella Plaine Saint-Denis, verso Aubervilliers), di saldatura o di riunificazione, come a Berlino nei dintorni di Postdamer Platz, o di ricostruzione, come a Beirut. Nei cantieri urbani, l’evidenza del troppo-pieno è sfumata, foderata (come si foderano gli abiti) dal mistero del vuoto. Il fascino dei cantieri, dei terreni incolti in attesa, ha sedotto cineasti, romanzieri, poeti. Ciò deriva dal suo anacronismo, mi sembra. Contro l’evidenza, esso mette in scena l’incertezza. Contro il presente, sottolinea la presenza ancora palpabile di un passato perduto, e al tempo stesso l’imminenza incerta di ciò che può accadere: la possibilità di un istante raro, fragile, effimero che sfugga all’arroganza del presente e all’evidenza del “già qui”. I cantieri sono – magari a costo di un’illusione – spazi poetici in senso etimologico: ci si può fare qualcosa; la loro incompiutezza ha qualcosa della promessa. Così l’interpreta anche il poeta Jacques Réda, in Les ruines de Paris:

“Abito qui dal ’36, mi spiega il vecchio signore di cui ho appena incrociato il cane (uno di quei truci codardi di periferia che filano via senza nemmeno rispondere al vostro saluto, e che vi insultano non appena sono al riparo del loro cancello), e mi mostra tutta la distesa dove un tempo crescevano il grano e l’erba medica, ora stravolta dal cemento, infischiandosene. Gli dico che un giorno questi sobborghi raggiungeranno quelli di Marsiglia, cosa che sembra quasi divertirlo, e aggiungo che se, malgrado tutto, amo questa devastazione e questa invasione del disordine (la sua capanna, il suo giardino, una fabbrica, un ruscello, due edifici, un padiglione, un bosco, trecento gomme), è perché sono convinto che in essa sia racchiusa una rivelazione, o quantomeno la sua promessa. In fondo ai suoi occhi preoccupati scorgo che non mi sta più seguendo. Mi sento un po’confuso: quale rivelazione, in effetti, quale promessa di cui non so nulla, se non – qui, ora, su questo muro di fronte alla steppa dove attendo l’autobus che non passa mai – che finirà per essere mantenuta.”

In questo senso gli spazi del vuoto si descrivono, in modo del tutto naturale, in termini temporali. Come le rovine, i cantieri hanno passati molteplici, passati indefiniti che vanno ben al di là dei ricordi del giorno prima, ma che sfuggono al presente del restauro e della spettacolarizzazione, a differenza delle rovine raggiunte dal turismo: non vi sfuggiranno senz’altro a lungo, ma almeno sollecitano l’immaginazione fino a che esistono, fino a che possono suscitare un sentimento d’attesa.

Le rovine non hanno altro avvenire se non lo sguardo che vi posiamo sopra. Tra i loro passati molteplici e la loro funzionalità perduta, ciò che lasciano percepire è una sorta di tempo puro, al di fuori della storia, a cui è sensibile l’individuo che le contempla, come se questo tempo puro l’aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui. Camus ha scritto prima della guerra la maggior parte dei saggi poi raccolti in Nozze e in L’estate. La felicità che prova a Tipasa nello splendore della primavera deriva dall’esperienza di un paesaggio in cui le rovine di una città romana, a una sessantina di chilometri da Algeri, si mescolano così intensamente alla natura che sembrano fondersi con essa, appartenervi:
“In questa unione dei ruderi e della primavera, i ruderi sono tornati ad essere pietra e, perdendo il lustro imposto dall’uomo, sono rientrati nella natura”(1).
Il segreto di Tipasa, il segreto delle rovine e di un paesaggio in cui si mescolano sole, mare, ulivi e pietre, ha a che fare con il tempo puro, che è diverso dal tempo della storia: “Avevo sempre saputo che le rovine di Tipasa erano più giovani dei nostri cantieri e delle nostre macerie”(2) , scrive Camus nel 1952, quasi quindici anni più tardi.

L’architettura contemporanea non punta all’eternità, ma al presente: un presente, tuttavia, insuperabile. Non anela all’eternità di un sogno di pietra, ma a un presente indefinitamente “sostituibile”. La durata della vita normale di un edificio oggi può essere facilmente stimata, calcolata (come quella di un’automobile), ma è comunque previsto che, ad un certo momento, sia sostituito da un altro (un altro edificio che può avere lo stesso aspetto del primo, come nel caso di certi caffè parigini, o infilarsi dietro la facciata conservata di una costruzione più antica). La città di oggi è pertanto l’eterno presente: edifici sostituibili gli uni agli altri, e eventi architettonici (la piramide di Pei, il museo di Bilbao) che sono anche eventi artistici mondiali, concepiti per attirare i visitatori di tutto il mondo.
Almeno per il momento, però, i terreni incolti e i cantieri traboccano da entrambi i lati del presente: sono spazi in attesa che risvegliano anche dei ricordi, talvolta in modo un po’ indefinito, riaprendo la tentazione del passato e del futuro. Fungono per noi da rovine. Queste oggi non sono più concepibili, se si può dire, non hanno più avvenire, dato che, appunto, gli edifici non sono più fatti per invecchiare, e si accordano invece alla logica dell’evidenza, dell’eterno presente e del troppo pieno. La ricostruzione perfettamente identica all’originale (realizzata dopo la guerra in città come Saint-Malo e Varsavia) e, più generalmente, le sostituzioni, sono agli antipodi della rovina, in quanto ricreano una funzionalità presente ed eliminano il passato.
Il dramma è che oggi applichiamo alla natura lo stesso trattamento che infliggiamo alle città, “preservandone” certi settori per lo spettacolo. Pretendiamo di sostituire una natura a un’altra (come nel caso del rimboschimento), ma la natura, come fino a poco tempo fa i fatti, è testarda: se maltrattata, reagisce. Ci sono ghiacciai che si ritirano, mari che si prosciugano, deserti che avanzano, specie che scompaiono. Ma soprattutto, quando avviene un incidente (per esempio Chernobil), la natura stessa si incarica di moltiplicare e diffondere gli effetti dell’imprudenza umana: l’uomo scopre di appartenere alla natura proprio quando deve fuggire dai luoghi che aveva concepito per dominarla. Soffermiamoci un istante sulla città di Pripiat in Ucraina, fotografata da Yann-Arthus Bertrand. Come fosse stata spazzata da una bomba “pulita” (quella che doveva eliminare gli uomini senza recare danni ai materiali), è ridotta alla propria glaciale geometria: strade che si incrociano e strade perpendicolari dominate da grandi parallelepipedi rettangolari dalle finestre allineate. Ma le strade sono deserte e non c’è nessuno alle finestre.

Apparentemente non si è “rovinato” niente, tutto è intatto. Qui il passato è datato. È stato decretato il deserto da un giorno all’altro (un po’ troppo tardi, a quanto sembra). Si sa fin troppo bene quale era la funzionalità di questi luoghi a forma di caserme, e oggi sarebbe la stessa se non si fosse verificato l’incidente. Non si tratta di rovine, ma di una crisi o di un attacco, come quando si parla di crisi o attacco cardiaco: una morte improvvisa, imprevista. Forse da questo nasce la sensazione che la città abbandonata, sotto la neve, la città da cui la vita si è ritirata senza toccare nulla, ci guardi dalle sue migliaia di finestre vuote, ci guardi senza vederci, come un fantasma, senza aver nulla da dirci che già non sapevamo. Qui il tempo non sfugge alla storia; la storia l’ha ucciso.
Solo una catastrofe, oggi, può produrre effetti paragonabili alla lenta azione del tempo. Paragonabili, ma non simili. Infatti la rovina è il tempo che accompagna la storia: un paesaggio, un misto di natura e di cultura che si perde nel passato e risorge nel presente come un segno senza significato, senza altro significato, quantomeno, del sentimento del tempo che passa e che dura allo stesso tempo. Le distruzioni operate dalle catastrofi naturali, tecnologiche o politico-criminali, appartengono all’attualità e pongono problemi di gestione: come sbarazzarsi delle macerie? Cosa ricostruire? A New York per esempio ci si è presto chiesti se si dovessero ricostruire le Twin Towers esattamente come erano, o sostituirle con qualcosa d’altro (conservando evidentemente qualcosa del passato, un’allusione, una citazione, un po’ come a Berlino, dove il campanile rotto della Gedächtnis Kirche vuole essere un richiamo del passato). Ad ogni modo le distruzioni, terroristiche o no, sono datate, e la funzionalità perduta (per la quale si cercano “urgentemente” soluzioni di ricambio) deve ritrovare il suo posto. Siamo lontani dal tempo puro che si insinua tra i passati molteplici e la funzionalità perduta, ma meno lontani dalla spettacolarizzazione che recupera sia gli eventi sia le rovine.

Alcuni artisti sono stati sedotti dal tema delle rovine, non senza una certa logica, essendo in un periodo che sa distruggere e vi si adopera intensamente, ma che privilegia il presente, l’immagine e la copia. Non più come i “pittori di rovine” del XVIII secolo, per giocare con malinconia o edonismo con l’idea del tempo che passa, ma per immaginare il futuro. Negli anni Settanta, il terrore nucleare impregnava l’immaginario, e l’agenzia americana Site ideava parcheggi e supermercati a forma di rovine, che prefiguravano la catastrofe imminente, e i vuoti che ne sarebbero conseguiti. Anne e Patrick Poirier, nella Francia odierna, immaginano città del futuro come fossero devastate da non si sa quale cataclisma e le fabbricano con materiali riciclati. È significativo che per restituire il tempo alla città gli artisti abbiano bisogno di rovine: quando sfuggono alla spettacolarizzazione del presente, le rovine sono, come l’arte, un invito a sentire il tempo. Ma è anche significativo che, per immaginarle, abbiano bisogno di renderle un ricordo a venire, di ricorrere al futuro anteriore e a un’utopia nera, quella di un disastro che avrà costretto l’umanità a “svuotare i luoghi”, e che conviene pertanto rappresentarsi fin da ora, in anticipo, affinché ci sia almeno qualche testimone.
Alcuni grandi fotografi di città (penso in particolare a Mounicq in Francia, e a Basilico in Italia), hanno tentato di cogliere la città come una rovina, sorprendendola quando è vuota di abitanti. Sull’esempio di Pipriat, anche Parigi, Milano, Roma, Venezia diventano ai loro occhi città abbandonate; ma noi, sapendole vive, vi scorgiamo delle anticipazioni o dei fantasmi, delle città uscite dalla storia ma non dal tempo, che potrebbero essere nate dalla visione di Proust o di Thomas Mann, o di Freud che si perde tra le stradine di una città italiana, o ancora di qualche futuro romanziere della nostra surmodernità urbana.
Assistiamo oggi a un appiattimento del tempo e a una sovversione dello spazio che investono la materia prima del viaggio e della scrittura. Si è detto che l’età moderna ha comportato la scomparsa dei miti d’origine, e il XX secolo quella delle ideologie dell’avvenire. Le tecnologie della comunicazione pretendono di abolire ogni distinzione, di ingannare gli ostacoli del tempo e dello spazio, di dissolvere le oscurità del linguaggio, il mistero delle parole, le difficoltà delle relazioni, le incertezze dell’identità o le esitazioni del pensiero. Le evidenze dell’immagine, ritrasmesse da schermi molteplici, hanno forza di legge e instaurano la tirannia del presente. Le immagini vengono prima, sono spesso rincorse dal turista e spesso anche da chi scrive. Da questo punto di vista è emblematico il rovesciamento per cui oggi i romanzi sono scritti (rapidamente) a partire dalla sinossi di film, una scrittura che fa eco a immagini che essa non deve più far nascere e che si accontenta di ripetere, una scrittura plagio, una scrittura sotto-titolo, una scrittura pleonasmo.
Il rinvio di sé agli altri e degli altri a sé, che idealmente racchiude la definizione sia del viaggio che della scrittura, è oggi minacciato dall’illusione di sapere tutto, d’aver visto tutto e, soprattutto, di non avere più nulla da scoprire – minacciato dal regno dell’evidenza e dalla tirannia del presente. Eppure, anche se ne prendiamo coscienza solo in modo effimero e intuitivo, ci sono, nel mondo che ci circonda e in ognuno di noi, delle zone che resistono all’evidenza. Lo scopo del viaggio, lo scopo della ricerca letteraria, dovrebbe essere (e talvolta è), l’esplorazione di queste zone di resistenza. Esse esistono in noi stessi e fuori di noi, e non è escluso che tra questo interno e questo esterno esistano passaggi che bisognerebbe far emergere. Una delle conseguenze paradossali dell’attuale rovesciamento dello spazio è il bisogno di scrittura come forma di resistenza. Gli spazi nuovi hanno bisogno di essere scritti per ridiventare dei paesaggi. Forse è ciò che, a loro modo, intuiscono i graffitisti delle nostre città.
In un certo senso, i non-luoghi e le immagini sono saturi di umanità: prodotti da uomini, frequentati da uomini, ma da uomini esclusi dalle loro relazioni reciproche, dalla loro esistenza simbolica. Sono spazi che non si coniugano né al passato, né al futuro, bensì al presente, senza nostalgia né speranza – sono spazi di “time out”, come si dice nel basket. Richiedono uno sguardo e una parola; uno sguardo per ricostituire una relazione minima che renda loro una dimensione simbolica, sociale; una parola che li integri in un racconto. Assomigliano all’ambientazione minimalista dei romanzi cavallereschi (un deserto, una foresta, un castello), che non esiste se non per lo sguardo del cavaliere errante in cerca di altre presenze. A volerci cercare un senso sociale, oggi rischiamo, come Don Chisciotte, di sbagliarci d’epoca e di lanciarci all’assalto dei mulini a vento. Ma Don Chisciotte aveva ragione. Ha ragione ancora oggi. Gli autori che riusciranno ad appropriarsi degli spazi di consumo, di circolazione e di comunicazione, a discernere negli spazi di solitudine (o di interazione, che è lo stesso) una promessa o un’esigenza di incontro, in breve a descriverli e a scriverli per altri, si iscriveranno nella tradizione di coloro che, dai tempi di Joyce, non cessano di ripopolare gli spazi di solitudine, di rifare paesaggi.

Così facendo, gli scrittori raggiungeranno quei cineasti che, come Wim Wenders o Nanni Moretti, percorrono con lo sguardo le periferie della città, ma raggiungeranno anche i comuni mortali, tutti coloro che, condannati alla solitudine, la rifiutano: vecchi che chiacchierano con giovani cassiere del supermercato per guadagnare (gli altri dicono perdere) un po’ di tempo, profughi o esiliati che cercano di ristabilire uno “stile di vita” nei campi dove sono rinchiusi, autisti di mezzi pesanti che pensano alla prossima stazione di servizio come a una tappa dove faranno scalo assieme a altri. Gli uomini non possono vivere soli: hanno bisogno di legami, anche se capita di sentirsene prigionieri, di rassegnarvisi o di volerli rompere. Hanno bisogno di paesaggi e quindi anche di testi che li ricreano trasformandoli. La scrittura lega le parole e gli esseri, gli esseri tramite le parole, il lettore all’autore e i lettori tra loro. Per quanto riguarda invece i paesaggi da essa generati, anche quando l’origine è una porzione di spazio storico, non cessano di rinascere da una lettura all’altra. La scrittura e il paesaggio sono simbolici, ci parlano di ciò che condividiamo e che, per ciascuno di noi, resta diverso.

Note
1. Albert Camus, “Noces à Tipasa”, in Noces, Paris, Gallimard, (1938) 1970, p. 15. La traduzione è tratta da “Nozze a Tipasa”, in Il Rovescio e il diritto, Milano, Bompiani, 1959, p. 66.
2. Albert Camus, “Retour à Tipasa”, in L’été, Paris, Gallimard, 1954, p. 169. La traduzione è tratta da “Ritorno a Tipasa”, in Il Rovescio e il diritto, op. cit., p. 173.

[Narrazione, viaggio, alterità – Relazione al seminario presso la Scuola Superiore di Studi umanistici dell’Università di Bologna – Traduzione di Giacomo Festi e Adriana Soldati]