di Armando Lancellotti
Harald Gilbers, Berlino 1944. Caccia all’assassino tra le macerie, Emons, Roma, 2016, pp. 392, € 15,00
Richard Oppenheimer è un ex commissario della Kriminalpolizei di Berlino, allontanato dall’incarico perché ebreo dopo che il nazismo ha preso il potere in Germania. Lisa Oppenheimer è la moglie, ariana, di Richard, il quale proprio grazie a questo matrimonio si trova collocato nella categoria dei mischlinge, dei “mezzi ebrei”, così definiti e classificati dopo le Leggi di Norimberga del 1935, e pertanto soggetto a numerose forme di discriminazione e alla ghettizzazione nelle Judenhäuser, cioè nelle case obbligatoriamente destinate agli ebrei, ma meno facilmente esposto dei Volljuden al pericolo della deportazione verso lo sterminio ad Est.
Richard Oppenheimer è stato ricollocato e reimpiegato come operaio in una fabbrica di armamenti e deve dare il suo contributo allo sforzo produttivo bellico di quello Stato che ha pianificato la sua persecuzione e l’annientamento dell’intero ebraismo europeo e ormai percepisce come un lontano e sfocato ricordo la sua professione di commissario, tra i più apprezzati, della polizia criminale, di quella Kripo che dal 1939 in poi, insieme a Gestapo e SD (il Servizio di sicurezza, ovvero i servizi segreti delle SS) rientra nel RSHA, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, comandato prima da Reinhard Heydrich e in seguito da Ernst Kaltenbrunner, cioè la struttura che coordina l’intero gigantesco apparato poliziesco e repressivo del Terzo Reich.
Hilde è medico, ariana, antinazista e amica di Oppenheimer, di cui costudisce la preziosa ed amatissima collezione di dischi di musica classica – così sottratta al sequestro e all’espropriazione da parte delle autorità governative – e a cui fornisce aiuti materiali di vario genere: indumenti, caffè, sigarette, ma soprattutto il Pervitin, la potentissima metanfetamina stimolante ed eccitante ampiamente utilizzata nella Germania hitleriana e distribuita anche alle truppe al fronte.
Vogler è un Hauptsturmführer, cioè un capitano delle SS, che indaga sulla morte di Inge Friedrichsen, uccisa ed orrendamente mutilata nella primavera del 1944 a Berlino, la capitale del Reich Millenario che sta subendo sempre più frequenti bombardamenti alleati e in direzione della quale l’Armata Rossa sta avanzando da Est. E proprio Vogler si reca da Oppenheimer e gli propone/impone di abbandonare il suo lavoro “da ebreo” in fabbrica e di indossare di nuovo gli abiti del commissario di polizia, per aiutare i suoi peggiori nemici – i nazisti, le SS – che annaspano nelle indagini su una serie di delitti efferati, probabilmente compiuti da un serial killer, che rischiano di seminare insicurezza e paura in una popolazione già terrorizzata dalle incursioni aeree nemiche.
Così inizia il romanzo del bavarese Harald Gilbers, Berlino 1944. Caccia all’assassino tra le macerie, un giallo di ambientazione storica, tradotto e pubblicato in Italia nel 2016 (l’originale tedesco è del 2013) dalla casa editrice Emons, in una collana – Gialli Tedeschi – già ricca di numerosi titoli e a cui si aggiungerà presto anche il secondo romanzo dello stesso Gilbers, in via di traduzione e pubblicazione (I figli di Odino).
«Analizzo la società del Terzo Reich come un crimine. Se molte persone, in Germania, vogliono dimenticare quel passato i miei romanzi si propongono l’obiettivo contrario» (il manifesto, 24/06/2017); così si è espresso Gilbers, ospite della prima edizione di Krimi, il festival del giallo tedesco, tenutosi a Roma presso il cinema Nuovo Sacher dal 23 al 25 giugno. Un genere che, analogamente al noir/poliziesco scandinavo, sta avendo molto successo in Germania, al punto che occupa una quota di mercato calcolata attorno al 30-40% dell’intero settore della narrativa.
E che l’analisi storico-sociale sia una finalità che l’autore persegue tanto quanto lo sviluppo di un avvincente e coinvolgente intreccio narrativo poliziesco emerge anche dall’intervista rilasciata a Guido Caldiron su il manifesto del 27/01/2017:
Ma la prima ragione che mi ha mosso riguarda il fatto che come la maggior parte dei tedeschi so bene di non poter essere assolutamente certo che qualcuno dei miei parenti non sia stato coinvolto in crimini orribili o non abbia contribuito in qualche modo ad essi. L’epoca nazista è una macchia nera nella nostra storia nazionale, il peccato originale con cui le generazioni future hanno il dovere di continuare a misurarsi. Molte persone vogliono dimenticare quel passato o cercare di nascondere le tendenze nazionalistiche in Germania. I miei romanzi si propongono l’obiettivo contrario: proiettare la luce su quegli avvenimenti e spingere i lettori ad interrogarsi ancora.
Più ancora del commissario Oppenheimer, la vera protagonista del romanzo è forse la città di Berlino, con i suoi quartieri – Charlottenburg, Treptow, Kreuzberg, Moabit – i suoi grandi viali – il Kurfürstendamm o l’Unter den Linden – le vie e le piazze del terrore e del potere nazionalsocialista – la Prinz Albrecht Strasse e la Adolf Hitler Platz – i sobborghi e i rioni popolari a cui si contrappongono quelli centrali ed eleganti con gli hotel di lusso come l’Adlon, a due passi dalla porta di Brandeburgo, dove, nonostante i sempre più pesanti bombardamenti alleati, la ricca borghesia berlinese, i gerarchi del partito e gli alti ufficiali della Wehrmacht e delle SS si recano per gozzovigliare come se nulla fosse, oppure proprio perché sono consapevoli che il crollo è vicino, come pensa l’ufficiale che, ubriaco, barcolla verso l’ingresso di un bordello a due passi dal Ku’damm e così si rivolge al conducente del taxi che lì lo ha condotto: «Goditi la guerra, camerata, perché la pace sarà terribile!» (p. 205).
Ci sono poi soprattutto le strade piene di macerie, di cumuli polverosi di pietre e calcinacci, sotto i quali, giorno dopo giorno, trovano la morte migliaia di berlinesi; le vie che continuamente cambiano il loro tracciato e la loro fisionomia perché interi palazzi crollano o perché enormi voragini si aprono nel terreno. «Qua a Berlino abbiamo le case delle favole. C’era una volta una casa qua, c’era una volta una casa là» (p. 227), osserva sarcasticamente un negoziante interpellato da Oppenheimer. È una città in bilico, che vacilla sull’orlo dell’abisso, sbriciolandosi sotto le tonnellate di esplosivo che cadono dal cielo, come una pioggia di morte sempre più intensa che inevitabilmente sommergerà i megalomani sogni di grandezza del Führer e i progetti del suo fido architetto ed urbanista, Albert Speer. Il “gigantismo ariano” sta per essere travolto ed insieme ad esso un intero popolo.
All’interno di questa cornice ambientale, Gilbers intreccia i fili della trama poliziesca del racconto con quelli di un ordito storico con accuratezza ricostruito e così tesse una rappresentazione precisa della società berlinese e tedesca in generale negli anni del Terzo Reich: una società completamente militarizzata e nella quale alle differenze di classe si aggiungono quelle di razza e così ai quartieri ancora relativamente agiati e sicuri come quello di Zehlendorf, pensato come zona di residenza e di vita quasi comunitaria per l’élite nazista delle SS – ma dove l’ebreo Oppenheimer si recherà quotidianamente perché lì viene collocato il quartier generale delle indagini di polizia – fanno da contraltare i quartieri popolari, ormai immiseriti e fatiscenti, così come ai profondi e solidi rifugi di cemento armato riservati ai ricchi ospiti degli hotel di lusso si contrappongono quelli insicuri e puntellati con fragili travi di legno delle case popolari o delle Judenhäuser.
Il romanzo si compone di 29 capitoli che per titolo riportano le indicazioni delle giornate di lavoro investigativo che vanno da domenica 7 maggio a domenica 25 giugno 1944. Nel corso di questo mese e mezzo avvengono fatti storici di cruciale importanza, come lo sbarco in Normandia o il grande bombardamento alleato su Berlino del 21 giugno, a cui il romanzo fa esplicito riferimento e più in generale continui sono i rimandi storici puntuali ed accurati che contribuiscono a costruire una cornice di verità storica dentro la quale prende forma la verosimiglianza delle vicende criminali raccontate e delle indagini del commissario Oppenheimer, senza che questo escluda – come opportunamente deve essere – anche la pura invenzione di fantasia dell’autore che – come lui stesso ammette – ipotizza una collaborazione tra ufficiali ed alti ufficiali delle SS e un ex poliziotto ebreo che è come minimo estremamente difficile concepire come realmente possibile nella Germania del 1944. E la collaborazione per fini investigativi si trasforma, almeno nel caso di Oppenheimer e di Vogler, se non in complicità, quanto meno in reciproca, seppur non dichiarata, stima, soprattutto dopo che i due rimangono per qualche giorno intrappolati sotto le macerie di un palazzo crollato e per questo quasi costretti a prestarsi reciprocamente aiuto. Insomma, le bombe inglesi che cadono su Berlino fanno da “grande livellatrice”, che mette sullo stesso piano gli ariani e gli ebrei, la razza padrona e quella per eccellenza schiava.
All’interno delle quasi 400 pagine del romanzo vengono descritte le attività eugenetiche del Progetto Lebensborn, quando in una clinica ad esso adibita si recano Oppenheimer e Vogler per raccogliere informazioni utili per le indagini; un ex collega reduce dal fronte orientale racconta al commissario le procedure di eliminazione di massa delle Einsatzgruppen in Urss; Oppenheimer e l’amica Hilde, conversando, affrontano importanti questioni della vita politica tedesca degli anni presedenti, come la Notte dei lunghi coltelli o la Notte dei cristalli. Insomma, di puntigliosità nella ricostruzione del contesto di certo non è privo l’autore di Berlino 1944, anzi, se vogliamo trovare un difetto in questo romanzo, lo possiamo cogliere proprio nel fatto che talvolta la narrazione e la spiegazione degli eventi storici risultano giustapposte e poco amalgamate allo sviluppo della trama e all’esposizione del racconto, mentre uno degli aspetti più interessanti consiste nella scelta operata da Gilbers della tipologia dei crimini compiuti e dell’identità dell’omicida seriale su cui Oppenheimer è chiamato ad indagare.
Il killer è consustanziale al regime, è parte integrante e conseguente della Weltanschauung nazista e pertanto contiguo alle SS che gli danno la caccia. È un misogino che mescola il suo odio omicida per le donne con il delirio ideologico razzista e nazista e che teme che il popolo destinato al dominio mondiale non solo sia minacciato dal “pericolo esterno” dei suoi nemici e delle razze inferiori, ma anche da quello “interno” rappresentato dalle prostitute e dal loro sangue infetto, malato. In sostanza ciò che follemente imputa alle sue vittime, cioè prostitute o donne che lui ritiene tali – dal momento che potenzialmente ogni donna rientra nella categoria – è lo stesso reato che anche per il codice penale del Terzo Reich è tra i peggiori immaginabili, quello ideologicamente più grave di tutti: il reato di Rassenschande, di lordura della razza. Per punirle il killer rapisce le sue vittime, le tortura, le uccide e ne colloca il cadavere, dopo averlo orrendamente mutilato degli organi genitali, a gambe divaricate di fronte a monumenti dedicati ai caduti della Grande Guerra di alludente forma fallica.
Ne consegue che paradossalmente il regime nazista, mobilitando tutte le forze disponibili per catturare questo assassino – tanto che lo stesso Goebbels si interessa della faccenda, sollecitandone una celere risoluzione – dà la caccia a se stesso: un regime criminale, democida e genocida che insegue un proprio sostenitore, un devoto nazista della prima ora, convinto di contribuire con le proprie azioni alla salvezza della Germania, risvegliando e richiamando al loro dovere i camerati ormai corrottisi durante gli anni di governo e di gestione del potere. Uno stato, quello tedesco nazista, che aggredisce altri popoli, che invade nazioni, che stermina i propri nemici, che teorizza e pratica sistematicamente i crimini più efferati e che si ritrova a braccare la propria progenie, uno dei suoi “figli prediletti” e per poter fare questo servono l’esperienza, l’intuito ed il rigore professionale del peggior nemico di entrambi – tanto dello stato tedesco quanto dell’omicida seriale – l’EBREO Oppenheimer.