di Valerio Evangelisti
AA.VV., Pomigliano non si piega. Storia di una lotta operaia raccontata dai lavoratori, a cura del circolo Prc Fiat Auto-Avio di Pomigliano, A.C. Editoriale Coop, Milano, 2011, pp. 210, € 8,00
Esiste il rischio che un libro di basilare importanza, per comprendere gli anni che viviamo e le poste in gioco, passi sotto silenzio per la modestia dell’edizione (non quanto a grafica, che anzi è elegante, ma per l’oggettiva marginalità della casa editrice). Invece questa raccolta di testimonianze dirette dovrebbe conoscere la massima diffusione. Farebbe la felicità degli storici futuri, che invece, probabilmente, non ne troveranno traccia nelle biblioteche. Fa già la felicità di chi ha l’opportunità di leggerla. Potrebbe indirizzare diversamente le ricerche degli studiosi, anche molto rispettabili, convinti che la classe operaia sia tramontata, sostituita in toto dal lavoro intellettuale; o che non abbia più nozione di se stessa; o, ancora, che non sia più avanguardia di nulla, avendo ceduto il proprio ruolo a non meglio precisate “moltitudini”.
Certo, la situazione del proletariato di fabbrica è difficile. Perennemente insidiato dall’invadenza del macchinario e dell’automazione, scomposto dal decentramento e dalla delocalizzazione, sottomesso alla prassi dei servizi “esternalizzati” , corroso dal precariato, schiacciato dal dogma bipartisan della flessibilità, bersagliato dal mantra ossessivo della propria insignificanza, costretto a indossare le vesti carnevalesche di un falso lavoro autonomo. Si direbbe che l’attività manifatturiera si sia estinta, sommersa da strati di mansioni “intellettive” (sic!), e che nel processo di produzione non abbia più alcun ruolo. Peccato che ogni oggetto che tocchiamo, inclusa la tastiera su cui sto scrivendo, abbia all’origine lavoro manuale. La piramide sovrastante di manipolazioni, transazioni, forze di mercato, interventi sull’immagine della merce, regole di finanza, ingerenze del sistema creditizio ecc. può amplificare, moltiplicare o ridurre il valore del prodotto. Sta di fatto che il valore originario nasce dai gesti semplici di un operaio che dà all’oggetto forma concreta.
Mi scuso della digressione, ma era necessaria per capire l’utilità di questo libro. La classe operaia può contrarsi di numero, ma non potrà mai sparire del tutto. La sua centralità è oggettiva, anche se viene continuamente sminuita questa sua prerogativa. Sminuita da chi? Non solo dai nemici, comprensibilmente interessati a spegnerne la soggettività. A “farla sentire” marginale, prima ancora di emarginarla sul serio. Ma anche dagli “amici” presunti, pronti a teorizzare che non conta più nulla, che non incide sui rapporti politici (è vero) o economici (non è vero), che il lavoro manifatturiero non esiste più, che le merci si producono da sole. O, in alternativa, che a produrle sono cinesi, coreani o polacchi. Il che è indubbio: ma non sono anche costoro parte della classe operaia internazionale?
La lotta strenua e parzialmente perdente — ma in certa misura vittoriosa – di Pomigliano ha preso tutti di sorpresa, perché in netta contraddizione con i dogmi correnti. Ecco una bella fetta di classe operaia che comincia a remare contro, a manifestare una dignità negletta e una individualità negata. Posta di fronte a un ricatto — accettare condizioni inique o perdere il lavoro, in un quadro di crisi e di disoccupazione — sceglie di battersi a dispetto di tutto e di tutti. Ha contro il governo, due terzi dell’opposizione cosiddetta (la palma della vergogna assoluta va al solito Ichino, a Chiamparino, all’imbecille che governa Firenze), tutta la grande stampa, tutti o quasi i mezzi televisivi, tutti i sindacati tranne la FIOM — di fatto condannata dalla CGIL — e alcuni di base. Sotto il profilo politico, ha con sé partiti comunisti nemmeno rappresentati in Parlamento.
La sconfitta è inevitabile, e tuttavia di misura. Scontenta molto il padronato, che chiedeva una resa totale. Scontenta i “consociativi” per vocazione. Scontenta l’intero ceto politico parlamentare, che da un cedimento senza condizioni progettava di ricavare norme lavorative che abolissero il conflitto di classe una volta per sempre. Scontenta i media, turbati nello scoprire che chi ha accettato un contratto capestro lo ha fatto perché timoroso del licenziamento, e non per convinzione. Scontenta — è ovvio — i teorici della sparizione completa del lavoro materiale.
Ma raccontata da me, la storia è banale. Bisogna ascoltare protagonisti e testimoni, le loro motivazioni concrete, la loro vita in fabbrica. Speranze, delusioni, idealità. Questo piccolo libro soddisfa la richiesta. Procuratevelo, non ne usciranno altri così.