di Luca Baiada (da Il Ponte, XLVII n. 5, maggio 2011)
[Pubblichiamo l’articolo senza le note, che potranno essere rintracciate sul numero indicato de Il Ponte.]
Cos’hanno in comune la fondazione Rockefeller, il papa, la Carnegie Corporation e il Consiglio mondiale delle chiese? E come mai la loro concorde attenzione al diritto internazionale calza su misura, a proposito di Africa? Già, perché le due risoluzioni del Consiglio di sicurezza sulla Libia fanno riferimento alla protezione dei civili, col frasario di una teoria che mette d’accordo persino le religioni: la responsibility to protect. In sigla, R2P.
Ma per cercare una risposta alle nostre domande, dobbiamo tornare indietro: alla fine del secolo scorso e all’inizio di questo.
Nel 2000, in Vaticano il papa Wojtyla celebra il giubileo. In Israele, Sharon sale in armi sulla spianata delle moschee, e comincia la seconda Intifada. Negli Usa, Bush perde le elezioni ma occupa la Casa Bianca. La guerra del Kosovo è finita da poco, e la Jugoslavia non esiste più.
In questo quadro, a settembre, all’Assemblea dell’Onu è annunciata l’istituzione dell’ICISS, International Commission on Intervention and State Sovereignty. L’iniziativa viene dal Canada, ma è da riferire a un più largo gruppo di interesse. Per individuarlo meglio, basta lasciar parlare il denaro: tra i finanziatori dell’ICISS ci sono appunto la Carnegie Corporation di New York, e le fondazioni Simons, Rockefeller, William and Flora Hewlett, e John D. and Catherine T. MacArthur.
A fine settembre 2001, l’ICISS presenta la sua relazione. Secondo la Commissione, sono possibili interventi militari ovunque, in base alla R2P, che sarebbe legittimata dalla Carta dell’Onu. Per superare il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza, deve rafforzarsi la prassi dell’astensione costruttiva, e vanno tenute in considerazione le organizzazioni regionali (combinazione, somiglia a quanto accadrà in Libia: astensione di alcuni nel Consiglio, e ruolo confuso di un’organizzazione africana). Sempre per l’ICISS, la sovranità è responsabilità, e si raccomanda all’Onu di accogliere la teoria della R2P. Solo il Consiglio ha in parte dato seguito alla richiesta, mentre una risoluzione dell’Assemblea nel senso voluto non c’è stata (ce n’è stata una più sbiadita).
Al centro della questione c’è la nozione di sovranità, che si vorrebbe «ricaratterizzare». Questo ha il sapore di una beffa storica. Quando le nazioni povere non contavano nulla, la sovranità era impermeabile, e regolava fondamentalmente rapporti tra ricchi. Fra loro l’ingerenza era vietata (malgrado questo, ci sono state brutali rese dei conti); gli altri erano protettorati. Insomma, sovranità piena. Adesso che nuovi stati si sono affacciati alla storia, e che è finita la contrapposizione fra i blocchi, sovranità dimezzata.
La disinvoltura con cui l’ICISS trascura questi aspetti è confermata dalla sua convinzione che si possano predisporre pacchetti-giustizia preconfezionati, justice packages, comprendenti anche uno standard model penal code. Portare giustizia è un programma importante, ma attenzione: imporre un sistema giuridico è un crimine già evidenziato col processo di Norimberga. Nei principi giuridici che ne furono tratti, c’è la condanna dell’intervento negli affari di uno stato, anche solo con mezzi economici o politici. Quindi, intesa senza misura la R2P consentirebbe l’ingerenza istituzionale con mezzi persino più aggressivi di quelli che a Norimberga furono considerati criminali.
L’ICISS si esprime anche sulla questione mediatica, sottolineando la necessità del governo dell’informazione: «Non c’è dubbio che la cronaca ben fatta, le opinioni ben argomentate e specialmente la trasmissione immediata di immagini di dolore producano la spinta interna e internazionale a intervenire. L’“effetto Cnn” può essere quasi irresistibile». Più chiaro di così. Il ricordo corre ai casi celebri di immagini false o manipolate: soldati iracheni che invadono un ospedale in Kuwait, uccelli morenti in pozze di petrolio, un civile scheletrico dietro il filo spinato in Jugoslavia, una militare Usa liberata in Iraq dai suoi commilitoni.
Vediamo il seguito della R2P.
Dopo il 2001, non ha alcun effetto contro le aggressioni all’Afghanistan e all’Iraq, crimini condannati anche dai più consapevoli giuristi italiani.
Nel 2005 una delibera dell’Unione africana contiene un vago riferimento alla teoria. Ma soprattutto, chiede almeno due membri permanenti nel Consiglio di sicurezza, con diritto di veto, e il rispetto della Carta di Algeri del 1976 (la Carta ribadiva il diritto all’autodeterminazione dei popoli). Richieste senza esito. Nello stesso anno, col 2005 World Summit Outcome l’Assemblea riconosce la R2P, ma fa riferimento a un’azione collettiva, attraverso il Consiglio di sicurezza, in conformità alla Carta dell’Onu, in collaborazione con le organizzazioni regionali. Questa affermazione non aggiunge quasi nulla, come osserva Noam Chomsky.
In seguito, il World Summit Outcome è citato nella risoluzione del Consiglio di sicurezza 1674 del 28 aprile 2006, sulla protezione dei civili nei conflitti armati. L’atto, in un primo momento oscuro, diventa più chiaro quando è richiamato dal Consiglio nella risoluzione 1706 del 31 agosto, sul Darfur.
Poi, la R2P riceve ulteriore appoggio dall’alto, molto dall’alto. All’Assemblea dell’Onu, il 18 aprile 2008, il papa attribuisce la R2P allo ius gentium, e addirittura a Francisco De Vitoria, un domenicano del Cinquecento. Due giorni dopo, il direttore dell’«Osservatore romano» Giovanni Maria Vian scrive:
«Una legge naturale iscritta nel cuore di ogni essere umano, fondata sull’origine comune delle persone […] Questa nuova “responsabilità di proteggere” deve riguardare tutti i diritti umani, e dunque anche quello alla libertà religiosa.»
La R2P che il papa intravede nel Cinquecento, per Vian è nuova. A conclusioni prestabilite si giunge per strade diverse, anche opposte. Ma «La civiltà cattolica» va oltre. Ricorda le dichiarazioni di Wojtyla sulla guerra, le collega alla presa di posizione di Ratzinger e sintetizza con questo funambolismo: «Nel catechismo della chiesa cattolica è implicita la dottrina della R2P». È nuova, ma era nello ius gentium; la vagheggiavano nel Cinquecento, e abita nel catechismo. Più versatile del prezzemolo.
A gennaio 2009, il Segretario generale dell’Onu approva il rapporto Implementing the responsibility to protect, un documento ambizioso ma confuso. Lo sfondo storico, lo descrive così: «Il Ventesimo secolo è stato sfigurato (marred) dall’Olocausto, dai campi di sterminio in Cambogia, dal genocidio in Ruanda e dagli eccidi di Srebrenica». Una narrazione accomodata che sparpaglia la violenza per tre continenti. Va notata, oltre all’assenza degli altri due, la condanna del XX Secolo, un elemento che vedremo ripreso dal papa. Per ora notiamo che il secolo è marred. È una parola negativa usata più volte nella Bibbia di Re Giacomo.
Pochi mesi dopo, a giugno 2009, l’enciclica Caritas in veritate riafferma l’appoggio alla R2P. Lo stesso documento chiede «il governo della globalizzazione». L’Italia si adegua subito: ad agosto il ministro degli esteri Franco Frattini sostiene la R2P, e addirittura propone di non considerare democrazie i sistemi politici basati su elezioni, se non rispettano i diritti umani.
Il 14 settembre, una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu prende solo atto della situazione, e decide di continuare a tenere in considerazione la R2P.
Ma adesso, va citato un fatto apparentemente remoto, e invece rilevante. A gennaio 2010 nella sinagoga di Roma si incontrano il papa, chierici e rabbini, e i rappresentanti della Comunità ebraica romana e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. I discorsi di quel giorno fanno riferimento all’ambiente, ai diritti umani, e a un concetto criptico: la «cura del creato». Il papa esprime un giudizio drasticamente negativo sul XX Secolo, proprio come ha fatto il Segretario dell’Onu. In particolare, per quello che qui interessa, c’è da chiedersi se il concetto di ambiente indichi in realtà lo spazio geopolitico, inteso come oggetto di controllo. E ciò, anche per il contenuto del messaggio per la giornata della pace 2010. E perché a gennaio 2010, nel discorso al corpo diplomatico presso il Vaticano, il papa ribadisce la necessità di protezione del mondo: «ripeto con forza che, per coltivare la pace, bisogna custodire il creato!». Nello stesso mese, rivolgendosi all’assemblea della Congregazione per la dottrina della fede (di cui è stato a lungo il prefetto), parla di diritto dicendo che alcuni contenuti del cristianesimo «iscritti nel cuore dell’uomo, sono comprensibili anche razionalmente come elementi della legge morale naturale».
Sempre a gennaio 2010, ancora il ministro Frattini sull’«Osservatore romano» si riporta all’enciclica Caritas in veritate e al messaggio per la giornata della pace, e aggiunge: «Democrazia e diritti umani sono componenti essenziali della nostra azione nel mondo». Fa un brutto effetto, che su una questione così ampia un ministro della Repubblica italiana si esprima direttamente sul quotidiano del Vaticano. Fa un effetto ancora peggiore, che accetti un semplice ruolo responsorio del pensiero altrui. Ma se un ministro si ispira al papa, può forse accadere persino il contrario? Ne è convinto il quotidiano confindustriale, quando sostiene che un altro ministro, Giulio Tremonti, ha contribuito alla Caritas in veritate, col suo libro La paura e la speranza. Di certo, va tenuto presente che l’enciclica compare all’inizio della crisi economica in cui si iscrivono i nuovi conflitti. A prescindere da chi davvero ispiri e chi si lasci ispirare, nella filigrana di queste reciprocità si leggono due cose: la prima è il vero volto di chi comanda in Italia; la seconda, che nell’orientamento di questo ceto dirigente tutto avvicina l’economia e la geopolitica, ma nulla è a favore degli italiani.
Traendo qualche conclusione, siamo di fronte a una dura partita per la sistemazione simbolica della storia e del mondo, del tempo e dello spazio, e soprattutto per la definizione dell’esercizio giusto della violenza. Tutto questo impianto riguarda il possesso del mondo e la conformazione della civiltà (quindi, il diritto-dovere di tutelarla). Vi sono anche ombre religiose: il Vaticano si impegna per la R2P, sostenuta dall’«Osservatore romano» e dalla rivista dei gesuiti. Allo stesso tempo, il progetto del 2000 è finanziato da organizzazioni connesse all’ambiente ebraico statunitense, come Carnegie e Rockefeller, e almeno un sostenitore della R2P dà alla teoria una dichiarata argomentazione ebraica. E ancora, dal 2003 la R2P riceve impulso dal World Council of Churches (ne fanno parte oltre 300 chiese evangeliche e ortodosse). Sarebbe difficile accertare l’origine della R2P: il papa, la fondazione Rockefeller, le chiese che si richiamano alla riforma o all’ortodossia? Certamente, non è stato il remoto Francisco De Vitoria: la R2P nasce dopo la liquidazione della Jugoslavia. Già, ma perché proprio allora? Probabilmente perché nella ridefinizione dei confini in Europa, negli anni Novanta, hanno avuto un ruolo le nazionalità, cioè insiemistiche definite per lingue, religioni, etnie vere o dubbie. Accantonata quella partita, torna comoda un’insiemistica diversa: i civili.
Un altro elemento ha un ruolo nella R2P: i diritti umani. La loro frequentazione dimostra un’investitura che legittima la forza, la loro assenza dimostra la colpa. Ma proviamo per un attimo a mettere alla prova i diritti umani, osservando qualcosa su quelli alla partecipazione politica. Durante la campagna elettorale del 2010, interviene Roberto Saviano:
«L’Italia […] dovrebbe chiedere all’Osce, all’Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale. […] Le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate. L’Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. […] Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all’Onu, all’Unione Europea, all’Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale: la pulizia e la regolarità delle elezioni.»
Questo intellettuale controverso fa bene a segnalare un fatto vero. Eppure, persino il blocco politico che lo stima incondizionatamente stenta ad ammettere che possa essere l’Italia ad aver bisogno di aiuto.
I diritti umani esistono, e sono importanti. Quando si tratta di definirli e di verificarne il rispetto, però, si scopre che torna comodo reclamarli solo a casa d’altri. Così, i più limpidi propositi si offuscano, e i più ampi progetti si rivelano poveri di prospettive. Largheggiano di mezzi, invece, gli enti che coltivano la R2P. Hanno sede a New York la International coalition for the responsibility to protect (ICRtoP), e il Global centre for the responsibility to protect (GCR2P).
Insomma, la R2P è un istituto nato dentro una complessa partita geopolitica e simbolica, discusso dai più accorti osservatori. Fa riferimento a problemi reali, e sarebbe velleitario sottovalutarli. E anche se quanto sta accadendo ha ben altre cause, che diatribe giuridiche o filosofiche, tenere presente la R2P offre un interessante punto di osservazione. Anche perché non c’è da illudersi: stuzzicati al momento opportuno, o allevati come galline dalle uova d’oro, i problemi cui la R2P si riferisce si ripresenteranno presto e parecchio.