di Franco Pezzini
Un trivio a Piccadilly
“Ebbene, Ecate, che c’è? Perché hai quegli occhi irati?”. Così il Macbeth, nel primo di quei passi (3, 5; 4, 1) di solito scartati dalle rappresentazioni moderne. La situazione è questa: il protagonista Macbeth, indotto in tentazione dal vaticinio di tre streghe che gli hanno profetizzato il regno, è riuscito a usurpare il trono e fare un primo repulisti degli avversari, ma si trova ossessionato dalle ombre dei propri delitti. Anche le streghe, però, hanno i loro problemi, perché si beccano un cazziatone dalla principale, cioè appunto Ecate, signora dei sortilegi e della stregoneria: la Dea lamenta di non essere stata interpellata, e contesta un uso della magia per i disegni privatissimi di un profittatore. Nell’economia della tragedia, la comparsa di Ecate è funzionale a preparare la scena dell’opera innominabile, come la chiamano le streghe, con il corteo di spettrali apparizioni che recheranno a Macbeth le notizie sul suo destino. Ma queste comparsate della Dea, come accennato, vengono oggi usualmente tagliate dai registi: sia perché di dubbia autenticità (sono accompagnate tra l’altro da due canti, Come away, come away e Black Spirits, che comparivano anche in un’altra opera elisabettiana, The Witch, di Thomas Middleton); sia per evitare il sapore un po’ grottesco dei rimproveri alle scagnozze, che agli occhi di un pubblico moderno potrebbero smorzare la drammaticità del contesto — e che invece l’autore elisabettiano inserisce proprio come connotante la realtà delle streghe, a cavallo tra pauroso e strambo, inquietante e grottesco persino nei manuali demonologici coevi. Nei fatti l’Ecate attribuita a Shakespeare appartiene ormai compiutamente agli scantinati del demoniaco, ed è quella che perverrà all’immaginario moderno, alla famosa illustrazione di Blake (1795), alla letteratura di genere e persino a certe odierne logge sataniste.
Ma l’evoluzione del personaggio Ecate è ovviamente molto più lunga. Il primo poeta a menzionare la Dea è Esiodo, nel cosiddetto Inno a Ecate all’interno della Teogonia (411-452), dove è l’unica divinità — a parte Zeus — a vantare giurisdizione sulla terra, sul mare e in cielo: un segno di particolare devozione del poeta (si è persino pensato che proprio grazie a questa citazione Ecate venisse promossa dalla tradizione greca al pantheon olimpio), ma forse anche la traccia di un’origine pre-ellenica connessa a una Grande Dea di tutta la realtà. Non a caso Esiodo presenta Ecate come figlia di Asteria e di un Perse della progenie dei Titani, entità antichissime legate alla dimensione ctonia e a culti pregreci; e le connessioni con la Tracia e con regioni dell’Anatolia (in particolare la Caria) influenzate da continui flussi dal nord dei Balcani rimandano a una cultura che i Greci avvertivano come arcaica e selvaggia, e ancora impregnata di elementi e credenze dell’Europa primordiale. Il mito forse più esplicito di una “adozione” di Ecate nel pantheon greco è quello che la vorrebbe in origine umana — sarebbe stata una sacerdotessa, da qualcuno identificata in Ifigenia — e, per i suoi insulti ad Artemide, spinta da lei al suicidio. A quel punto però la Dea Cacciatrice avrebbe adornato il cadavere di gioielli e comandato allo spirito di tornare ad albergarvi: e la reviviscente sarebbe stata chiamata Ecate. Che dunque svolgerebbe un ruolo simile a quello di Nemesi, la Giustizia compensatrice e Signora della vendetta, ma solo per le donne ingiuriate. Sarebbe interessante capire di più sull’origine di questo mito: ma l’immagine di quel cadavere ingioiellato richiamato dalla Dea a qualche forma di vita, simile a certe livide figure di Moreau con tiare e monili, svela una disturbante potenza. E come una sorta di Perturbante sociale, finisce con l’evocare tutta una storia plurimillenaria di voyeuristici oltraggi alla donna, fino alle muertas di Ciudad Juárez e a fatti molto più vicini.
Se d’altra parte la raffigurazione triforme di Ecate comparirà nel mondo greco non prestissimo, rimanda però a una tradizione “sorprendentemente persistente documentata fin dall’epoca magdaleniana […]. Questa tradizione continua in tutta la preistoria e in epoca storica, fino alle Moire greche, alle triplici Matres o Matronae romane, alle Nornen germaniche, alla triplice Brigit irlandese, alle tre sorelle Morrígan e alla triade di Machas, alla triplice Laima baltica e alla triplice Sudicky o Roznicy slava. I segni tripli e la triplicità sono presenti perfino nelle tombe, dove sembrano simboleggiare la Dea quale padrona della triplice fonte dell’energia vitale necessaria al rinnovamento della vita”, come ricorda Marija Gimbutas ne Il linguaggio della Dea, straordinario repertorio iconografico sulla Grande Signora neolitica. E continua ricordando come tale simbolismo sia “lunare e ctonio, costruito intorno al concetto che la vita sulla terra è in continua trasformazione, in costante e ritmico cambiamento dalla creazione alla distruzione, dalla nascita alla morte. Le tre fasi lunari — luna nuova, luna piena e quarto di luna — sono ripetute nelle trinità o divinità con triplici funzioni che le richiamano: fanciulla, ninfa e megera; che dà la vita, dà la morte e trasforma; che sorge, muore e si autorinnova”. Se poi la triplicità femminile conoscerà forme di sopravvivenza ancora in ambito cristiano (si pensi a tutta una devozione medioevale alle Tre Marie testimoni di Passione e Resurrezione), da un versante tenebroso la triforme Ecate preluderà a epigoni letterarie come le stesse streghe del Macbeth, le tre vampire del Castello Dracula o le Tre Madri che dal Suspiria de Profundis di Thomas De Quincey transiteranno fino a Dario Argento.
La documentazione antica presenta Ecate come dea delle zone incerte e dei passaggi — dai passaggi fisici come i trivî delle strade, a quelli esistenziali, in particolare tra la vita e la morte: e come ben sappiamo gli uni e gli altri sono popolati da ombre e fantasmi, da cui il titolo di Regina degli spettri che la Dea acquisisce in età ellenistica. Ma ad accompagnarla è in realtà un più vasto corteo di bestie, mostri e diavolesse. Quale dea della notte e della morte, per esempio, una tradizione iconografica sostanzialmente ininterrotta fin dal Neolitico le vede compagno il cane, a lei anche sacrificato: un uso particolarissimo, a fronte dello scarso interesse dei riti greci per quest’animale, e che richiama appunto a un contesto più arcaico o straniero. Al di là di ogni mielosa retorica odierna sul miglior amico dell’uomo, nel simbolismo di quell’antico mondo il cane è l’animale ambivalente capace di muoversi tra i vivi e i morti — dal campo di battaglia dove strazia i cadaveri alle porte che custodisce con fedeltà, compresa (nel caso di Cerbero) quella che impedisce ai morti di tornare. Merita rammentare che la tradizione dei cani della morte è ancora ben viva in Europa, con massima diffusione nelle Isole Britanniche — se vogliamo, fino al cane dei Baskerville e alle odierne leggende metropolitane; ma Ecate stessa è talora raffigurata come cagna. E, come lei appare talora triforme e spesso ostenta un serpente (anzi nei testi esoterici tardoantichi è presentata a volte con tre teste: di serpente, cane e cavallo), anche Cerbero ha la coda di serpe e tre teste — immagine dell’uggiolante molteplicità notturna dei cani della Dea. Del resto un altro mostro a lei associato è Scilla — considerata talora figlia di Ecate, altre volte di Lamia; e non a caso il corpo di Scilla è connotato da un micidiale viluppo di teste e zampe canine, con cui i compagni di Odisseo passano un brutto quarto d’ora.
Ma ad accompagnare Ecate è soprattutto una variegata serie di demoni femmina, sue seguaci o proiezioni protovampiriche. Una galleria di orchesse che perplessi mitologi censiscono in età relativamente tarda: Mormó, Gelló, Empusa, la stessa Lamia… e proprio queste figure, babau da favole di nutrici o protovampire assetate di fluidi vitali, costituiscono l’ideale trait-d’union tra gli aspetti oscuri della Grande Dea neolitica e la letteratura gotica di qualche millennio più tardi. Certo, i richiami documentali antichi a questi spettri sono relativamente rari, forse proprio per l’apparente ovvietà del tema e l’appartenenza a un sottomondo in gran parte popolare, di scarso interesse per gli eruditi; ma la distanza in spazio e tempo tra le singole emersioni evoca in termini indiretti l’estrema diffusione del modello, con variabili ormai impossibili di mappare troppo precisamente ma una relativa uniformità nelle linee di fondo.
La tentazione di far rigar dritti bimbi monelli con il timore di oscure minacce è ben più vecchia di Pierino Porcospino: e ha popolato il folklore già antico-mediterraneo di grotteschi orchi-femmina, pronti a fare dispetti, provocare il solletico o strappare i capelli (se interpretiamo in modo corretto due glosse di Esichio) ma anche di mangiarsi i bambini. Una costellazione di mascheroni che però adombra miticamente qualcosa di assai più serio: e cioè il mistero delle gravidanze infelici e soprattutto della frequentissima mortalità infantile, attraverso la sottrazione del respiro-spirito da parte di demoni femmina epigoni dell’Assassina neolitica. Creature insomma che penetrano nelle case, si librano sulle culle e colpiscono — e contro le quali il pensiero arcaico ha cercato di elaborare difese esorcistiche, ma senza potervi confidare troppo.
L’elenco è assai ampio, a partire da quel Mormó (“lo Spauracchio”) di volta in volta demone maschile partner di Ecate, o invece femminile — in un’incertezza di identità sessuale che rimanda al confuso orizzonte del demoniaco e si lega, per altro verso, all’ermafroditismo di figure come Lamia. La versione femminile di Mormó sarebbe capace di “mordere” i bambini, ma forse il riferimento svela una censura per l’atto antropofagico: e la figura evolve in quella lupa Mormolice citata in altre fonti, corrispettivo del “lupo cattivo” delle fiabe classiche, nutrice del mostro infero Acheronte e capace di render zoppi i bimbi disobbedienti. D’altronde, come Empusa con le Empuse e Lamia con le Lamie, anche nel caso di questo demone femmina il singolo si rifrange in un’intera categoria, le Mormolici; e a proposito dell’uso della forma contratta Mormó, Kerényi ipotizza che l’abbreviazione del nome si leghi proprio al linguaggio dei bambini. Come forse per altri di simili spauracchi, quali Accó (“Colei che ghigna/fa smorfie”), Alfitó (“l’Infarinata”), Carcó (“la Mordace”?), Gelló. Sul rapporto tra Lamia e l’orco Lamo dovremo tornare.
Se attraverso Ecate veniamo a contatto con un orizzonte mitologico assai più vasto e ambiguo di quello che associamo alla Grecia, queste sue figlie o proiezioni demoniache già indefinitamente confuse negli autori antichi sono ancora più esplicite di un meticciato dell’immaginario. A volte le loro caratteristiche richiamano in via diretta le origini neolitiche: le arcaicissime Dea-Rapace e Dea-Civetta riemergono, nei loro aspetti oscuri, sia in tutta una nebulosa di volatori da incubo — Sirene e Arpie, ma anche le Chere evocate da Omero, le Strigi latine (matrici per il futuro “strega”, use ad abbeverarsi al sangue di neonati e di puerpere: rimando al proposito al magnifico studio di Laura Cherubini, Strix. La strega nella cultura romana, Utet Libreria 2010) e la Lilith alata dei miti ebraici. Altre volte il richiamo è ad indecifrabili imprestiti dalle più svariate culture orientali: restando alla schiera di Ecate pensiamo al rapporto tra la Lamia greca e la Lamassu assira; o alla figura di Gelló — una fanciulla di Lesbo morta prematuramente, che per dolore e rabbia tornerebbe a rapire o uccidere i bambini — in realtà mutazione femminile dell’antico Gallû o Galu sumero-accadico. Il nome di quell’antichissimo demone mediorientale, facente parte della categoria Utukkû, è in realtà anche usato per indicare genericamente certi gruppi di demoni; in ogni caso, Gelló, o Gylo o Gyllou in età bizantina, troverà posto anche nella demonologia ebraica come Gilu fino a essere considerato un nome segreto di Lilith. Merita rammentare che un’altra ombra molto simile e pure di origine mesopotamica, Alû, in origine non connotata sessualmente, conoscerà sviluppi sia come come demone femmina che come maschio: in forma — ovviamente — di cane selvatico vagherebbe per le strade di notte irrompendo nelle camere da letto a terrorizzare i dormienti. Quale diavolessa appare poi nelle tradizioni ebraiche con il nome di Ailo, esso pure una dei nomi segreti di Lilith, oppure come figlia di Lilith; ed è almeno interessante rammentare che una delle Erinni del mito greco, ma esse pure legate a un contesto culturalmente più sfuggente e arcaico, presenta il nome non troppo distante di Aletto (Alektó).
La stessa Lilith viene dalla Mesopotamia, da una variegata costellazione demoniaca (sul tema si tornerà in prosieguo): in sostanza le tate ebree o greche, parlando di Lilith, Gelló o Lamia, riecheggiano ancora i nomi della Terra dei Due Fiumi. Ma dall’altro lato della linea del tempo, tali figure arcaicissime conducono al mondo moderno: pensiamo alle streghe ematofaghe di certi processi italiani tra Quattro e Seicento (Trentino, Friuli, Toscana), o a creature del folklore regionale note ancora ai nostri vecchi. Come la variegata schiera di succhiasangue della terra sarda, che annovera le surbiles, le cogas — in un bassorilievo della cripta del Duomo di Cagliari le vediamo legate da San Sisinnio — e poi la busha, la surtòra, la stria, la giana… Un orizzonte comunque su cui la ricerca può dirsi tutt’altro che conclusa; e dove avventure culturali coraggiose come quella di Martin Bernal in Atena nera — fondamentale anche al di là dei suoi singoli dati, in continua verifica — incalzano a scoprirci molto più meticci di quanto potremmo mai sospettare, con buona pace di ogni asfittica chiave localistica.
Una parte della schiera di Ecate, si è detto, minaccia i più piccoli attingendo fatalmente al loro respiro-vita. Ma un altro fronte pericoloso riguarda (soprattutto) i giovani adulti, a evidenziare i lati oscuri dell’esperienza erotica e segnalare miticamente i rischi di un eros mal regolato, col drenaggio pernicioso di energie fisiche e sessuali: e tra le principali seguaci di Ecate attive in questo secondo ambito c’è senz’altro Empusa, dall’etimologia dubbia. Se il nome è greco — del che spesso si dubita — si tratterebbe di “colei che sorprende” (da katempazo); “colei che si prende cura” (da empazomai), in senso evidentemente sarcastico e lascivo; “colei che intralcia/ostacola” (da empodizo); “colei che sopraggiunge/s’incontra/piomba addosso” (da empipto), in relazione alla minaccia per i viaggiatori, e alla strada come dimensione anche simbolica del passaggio in cui spesso il demone si manifesta; “colei che preme/comprime” (da empiezo), nel senso dell’Incubo che grava sul petto, forse l’etimologia più interessante e credibile; “colei che tracanna/succhia/beve avidamente” (da empino), in senso plausibilmente vampiresco, tanto che un suo nome secondario sarebbe Oinopole, “Ostessa” — e non manca un’etimologia popolare, “con un piede solo” (en + pous), a dar la stura a una serie di suggestioni più o meno grottesche.
Il nome di Empusa è talora soltanto un attributo di Ecate, ma più spesso connota una figura autonoma, un singolo demone o invece una categoria demonologica — e a quel punto potrebbe trattarsi di figlia (o figlie) della stessa dea, magari da un accoppiamento con quel demone Mormó che a tratti appare come spirito maschile. Del rischio per maschi giovani già si è detto: e sarebbe intrigante vedere in figure come le Empuse sorta di guardiane della soglia di quella nascita all’età adulta che è l’esperienza sessuale, come Mormolici & socie lo erano della “prima” nascita. Del resto si è ipotizzato che l’apparizione dell’Empusa in chiave di parodia nelle Rane di Aristofane possa richiamare alle più serie e terrifiche ombre con le quali gli iniziandi ai riti misterici — un’ulteriore “nascita”, insomma — devono all’epoca confrontarsi. Se d’altronde Ecate presiede al passaggio e ai trivi delle strade, le Empuse trovano soprattutto sulle strade il proprio terreno di caccia insidiando i viaggiatori, che possono spaventare o divorare — sia nel senso letterale legato all’espressione cannibalesca, degradata ed estrema di piacere sessuale e possesso erotico, sia in quello di una fatale sottrazione di sangue o energie vitali. E sulle ombre che minacciano i viandanti — in senso proprio e persino di metafora — le tradizioni si sprecano in ogni zona del pianeta. Laddove poi nelle vampire di Stoker emergerà un confuso tessuto di paure legate (tra l’altro) alle donne perdute latrici di malattie veneree, si può forse cogliere già in questi protomodelli mediterranei la saldatura tra timori folklorici e demonizzazioni di un sottomondo di marginalità femminile. A fronte infatti delle forme animali che la trasformista Empusa può assumere — particolarmente cagna, giovenca o mula, legate al bestiario di Ecate — più di frequente essa appare come procace fanciulla, per irretire lo sventurato di notte o nel pericoloso meriggio. Il sembiante insomma di una prostituta, o comunque di una donna ai margini, sconosciuta/estranea alla comunità e magari straniera, come nella storia dell’Empusa di Corinto narrata da Filostrato: quasi a evocare miticamente quegli spettri sociali le cui alcove invisibili — in tutti i sensi e in tutti i tempi — emergono alle fantasie collettive come insieme attraenti e minacciose, luoghi di piacere e bassifondi in cui sparire.
Come poi gli Incubi medioevali — di cui rappresenta un ideale antecedente — e moltissime altre figure in leggende di tutto il mondo, l’Empusa può collegarsi a una variegata serie di fenomeni fisiologici, dai sogni bagnati alla sleep paralysis (o paralisi notturna, che oggi sappiamo connessa ad alcune fasi del sonno e può associarsi ad allucinazioni ipnagogiche) — e ovviamente a contesti patologici. Il tema del demone che comprime il petto richiama infatti l’idea mitica del ghermire il respiro e veicola sottotesti psicologici di vario genere, ma con peculiari declinazioni nell’immaginario vampiresco folklorico e poi letterario: dalla localizzazione sul petto del punto di drenaggio delle energie (e il passaggio alla giugulare potrebbe anche ascriversi a censure linguistiche piuttosto diffuse nell’Ottocento, quando il richiamo al collo permetteva di non citare petto e seni delle signore coinvolte) all’associazione con le diffusissime malattie polmonari tanto evidente nelle vampire di Poe. Anche se i dati fisiopatologici non esauriscono, è ovvio, il vasto pelago di suggestioni alla base del motivo mitico.
Pur davanti a un personaggino tanto pepato, comunque, qualche possibilità di salvarsi c’è, e se ne parlerà in prosieguo a proposito degli esorcismi di Apollonio da Tiana: ma una prima e fondamentale avvertenza starebbe nel guardar bene la bella seduttrice prima di appartarsi con lei. Qualcosa infatti, sostengono i beninformati, può sfuggire alla sua trasformazione: e si potrebbero notare sotto la gonna delle membra un po’ strane. Entriamo così nell’etimo popolare del “piede solo”, per cui la fanciulla potrebbe svelare una gamba di bronzo e una zampa d’asino, oppure — calcando sul grottesco che esorcizza i timori spettrali — modellata in sterco d’asino o bovino; o invece potrebbero apparire natiche d’asina e sandali di bronzo. Il bronzo, occorre rammentare, è in età storica considerato metallo infero, legato all’Oltretomba, a numerose realtà ivi collocate e (in chiave di omologia) al serpente; anche la Gorgone avrebbe mani alla cyborg di bronzo.
Soffermiamoci però sui curiosi piedi dell’Empusa: il piede “strano” è segno e marcatore dell’alterità nascosta, e infatti donne pericolose con gambe o piedi anomali, e magari di bestie, sono registrate in svariatissime tradizioni. Un esempio celebre è la regina di Saba, che secondo il Targum sheni (parafrasi aramaica del Libro di Ester giuntaci in una tarda versione, sec. XI o posteriore) ha un piede peloso. In versioni successive ebraiche proprio questo particolare farà identificare la regina — in termini di sospetto, o invece quale dato certo — con la stessa Lilith: madre a sua volta, in tali storie, di Nabucodonosor distruttore del Tempio. In una tradizione etiopica diffusa nel Tigrè, la regina di Saba ha invece un piede d’asino come Empusa, a seguito (viene spiegato) del contatto accidentale con una goccia di sangue di drago; e in un’altra storia copta conservataci in lingua araba, la regina ha un piede umano e uno zoccolo di capra, perché sua madre durante la gravidanza aveva espresso ammirazione per un esemplare di tale specie. Sia il piede d’asino della prima storia che quello di capra della seconda tornerebbero però umani all’arrivo presso Salomone. La Tentation de saint Antoine di Flaubert (1874), riaccreditando la regina di Saba per demoniaca seduttrice, le attribuisce nuovamente il piede deforme. Invece nella tradizione araba la regina, chiamata Bilqīs, ha semplicemente gambe pelose, a ricordo di una madre appartenente alla stirpe dei ğinn: non insomma le zampe d’asino che i demoni le hanno attribuito per sviare Salomone — e a quel punto, per farsi perdonare, i bricconcelli inventano un depilatorio che rende le gambe di lei particolarmente leggiadre. Ma se pensiamo che la nutrice ğinn di Bilqīs ha sembianze di cagna — come Ecate e la sua faccia oscura Lamia, almeno nelle versioni più arcaiche — si ha la sensazione di un eterno ritorno.
Le varianti della signora dal piede deforme sono comunque molteplici, da Berta dal gran pie’ delle storie sulla corte francese alla regina Pédauque con la sua (appunto) zampa d’oca — cioè la presunta regina tedesca Pedoca del folklore piemontese, dell’Alessandrino — fino alla dissoluta e bellissima “Reina Jana” dalla strane appendici commemorata sempre in Piemonte (stavolta Cuneese, zona Boves). In quest’ultimo caso si tratta della trasfigurazione leggendaria di un personaggio storico, la regina Giovanna di Napoli, che dopo quattro mariti e una vita allegrotta se n’era tornata alle terre avite tra Provenza e Piemonte, e secondo i beninformati avrebbe avuto al posto dei piedi zampe di gallina.
Quanto all’asino, nell’antico Medio Oriente le Lilim, figlie di Lilith, possono mostrare natiche d’asino, segno di crudeltà e di lussuria nell’ambito di un contesto mitico e simbolico fitto di continue ibridazioni. Empusa approderà alla demonologia bizantina come Onoskelis, cioè “dalla gamba asinina”, e lo studioso Ezio Albrile ha dimostrato come “nella cosmologia antica l’immagine dell’Asino sia utilizzata per rappresentare l’emisfero australe, cioè l’Ade. Simboli «assiali» quali la mano della Gorgone Medusa o la gamba di Empusa-Onoskelis esprimono tutti il medesimo concetto di polo infero effigiato nel suo metallo, il bronzo” (Oltre le soglie di Ade. Un excursus mitografico, Laurentianum, 47, 2006). In ogni caso il moderno folklore greco trattiene ancora traccia delle Empuse in forma di folletti che infastidirebbero i pastori sotto l’aspetto di cani, buoi o muli.
Empusa, come Lilith nelle tradizioni ebraiche, è la Terribile Femmina che estorce sesso al maschio standogli sopra. Un’immagine adatta alla sua natura da demone Incubo e che appunto giustifica il possibile richiamo etimologico al comprimere, ma finendo con l’evocare un più variegato orizzonte di suggestioni sulla temuta supremazia femminile e la minaccia alla virilità: e il motivo arcaico riacquista forza e diffusione virale proprio nell’età vittoriana, attraverso opere di enorme impatto sull’immaginario collettivo. Se il topos è ben rappresentato nella letteratura vampiresca, l’immagine più nota è naturalmente quella del Dracula (cap. 3), con le citate tre seduttrici che incombono su Harker coricato su un divano del castello. Anzi, una si china su di lui, si inginocchia e si protende sul corpo dell’inglese fremente, proprio come un’Empusa o un Incubo. Se poi il narratore parla pudicamente del tocco delle labbra “sulla pelle tanto sensibile della gola”, gli interpreti hanno intravisto implicazioni un tantino più hard: “Nell’Inghilterra del 1897” glossa per esempio Stephen King in Danse macabre “una ragazza che ‘si inginocchiava’ non era proprio il tipo […] che uno si sarebbe portato a casa per presentarla alla madre; Harker sta per essere stuprato per via orale”.
Il romanzo di Stoker appare in libreria nel maggio 1897. Ma soltanto a un mese prima risale un altro importantissimo documento sul tema della predatrice sovrastante, stavolta pittorico: e cioè quel quadro The Vampire di Philip Burne-Jones, figlio del più celebre Edward e amico di Stoker, che all’apparizione alla New Gallery di Londra suscita un pandemonio tra i castigati vittoriani. Il tema è la denuncia (udite udite) della femminilità predatrice, sulla scia delle ultime “rivelazioni” scientifiche — gli Charcot, Lombroso, Nordau guarda caso citati in Dracula; anche se il discorso può svelare retroscena assai meno accademici, se davvero il quadro allude alla relazione dell’autore con la diva Beatrice Stella Tanner, alias Mrs. Patrick Campbell, che all’epoca dell’esposizione alla New Gallery furoreggiava sul palcoscenico del famoso Lyceum di Henry Irving. In effetti lo sfondo del dipinto vede tendaggi simili a un sipario, e l’impianto è piuttosto teatrale; ma anche Stoker, impresario proprio al Lyceum, scriveva con un occhio al teatro, e se consideriamo che potevano essersi reciprocamente influenzati con anticipazioni delle relative opere, i rimandi non risultano troppo casuali. L’immagine è nota: troviamo un giovane privo di sensi e di energie su un letto — parrebbe un artista, a considerare il contesto un po’ bohemiènne — e una macchia scura come una ferita gli segna il costato, a riportare al tema dei drenaggi pettorali. Ad incombere su di lui è ovviamente una femme fatale con denti aguzzi e occhi scuri, come scuri sono i capelli sciolti: anzi la sua tensione — nota Dijkstra, commentando il quadro nell’intrigante Perfide Sorelle (Garzanti 1997) — contrasta in modo drammatico con l’immobilità del corpo del giovane. I figli della generazione preraffaellita, insomma, sembrano guardare con estremo sospetto le Dee evocate dai padri, e preparano la strada a generazioni persino più preoccupate dello sfinimento delle energie virili ad opera di pericolose seduttrici.
The Vampire, è evidente, rappresenta una rilettura al femminile del Nightmare di Füssli (dove c’era persino la tenda sullo sfondo che Burne-Jones Jr. riproporrà): in effetti anche in questo caso pare suggerito un rapporto di contiguità onirico-erotica tra visitatore e visitato, un legame tra la vittima e le proprie fantasie — e, come ammonisce Kurt Vonnegut che la sapeva lunga, “Attenzione alla vostre fantasie, perché potreste diventarne parte”. Persino Stoker, nell’episodio delle vampire del castello, ammorbidisce la remota alterità del contesto transilvano in riferimento a un orizzonte ben più noto e interiore ad Harker: il viaggiatore (come quelli insidiati dalle Empuse), entrato nella stanza fatale, prima si sdilinquisce su ipotetiche “dame gentili” che vi abitavano un tempo, rattristate dalla lontananza dei propri uomini in guerra, con tonalità e colori che paiono rimandare ai bozzetti di Burne-Jones padre o in generale preraffaelliti; e in seguito conosce ma non riconosce la Perturbante china su di lui. Inevitabile insomma ipotizzare che anche il pittore-vittima del quadro di Burne-Jones Jr. stia soccombendo all’orizzonte delle proprie fantasie, quelle stesse corteggiate con la sua arte; o, per dirla con altre parole, che a vampirizzarlo sia proprio una delle Dee del Giardino preraffaellita — magari incarnata nella seducente diva Campbell.
Viene anzi da domandarsi se Burne-Jones Jr. conosca un racconto pubblicato con lo pseudonimo ‘Von Degen’ nel dicembre 1886, A Mystery of the Campagna in realtà dell’americana Anne Crawford baronessa Von Rabe (sorella del Francis Marion Crawford a sua volta autore del vampiresco For the Blood is the Life, 1880). E ambientato appunto, recita il titolo, nella “Campagna”, cioè la campagna romana: dove l’avvenente Marcello — guarda caso uomo di teatro e artista, in quanto scrittore d’Opera, scultore e modello di un pittore — cade preda di una vampira. Quando il corpo di lui viene rinvenuto dagli amici (tutti uomini, alleati contro la predazione femminile — e pare interessante che a confermare il modello sia una narratrice) apprendiamo che “i suoi bei lineamenti non erano contatti; aveva piuttosto l’aspetto di una persona morta serenamente per sfinimento — scivolata inconsciamente dalla vita alla morte. Il colletto era aperto e si poteva scorgere una parte del suo petto, di un bianco spettrale. Proprio sul cuore c’era una piccola macchiolina”: come nel quadro di Burne-Jones. Responsabile d’altronde è proprio una modella, nel senso che pare lei la figura di cui Marcello ha modellato un busto; e una figura sorta proprio dal mondo antico delle fantasie dei pittori ottocenteschi, visto che si tratta di tale Vespertilia, emersa bellissima da un sepolcro latino ma con carta d’identità velata del genitivo greco tés aimatopotídos, “la bevitrice di sangue”. L’Autrice specifica che Vespertilia ha lunghi capelli ramati, ancora come le dee preraffaellite o la gentile esumata Lizzie Siddall. E a chiudere idealmente il cerchio è un’illustrazione ottocentesca (riportata per esempio nell’edizione tascabile Newton Compton, da cui ho tratto la citazione): Vespertilia vi appare di lato, biancovestita, col braccio sinistro scoperto e i capelli sciolti — e molto simile alla vampira di Burne-Jones.
Ma torniamo al dipinto, e alla postura della predatrice sovrastante. Che esprime certo, visivamente, l’idea del dissanguamento dal petto — suggerita in termini dinamici dall’arco tra viso della vampira e ferita della vittima. Ma che evoca al contempo la privazione di energia per altre vie: dove il contatto del corpo abbandonato col ventre della predatrice e la posizione a forbice delle sue gambe, quasi mascelle mortali di una mantide, già proclama un topos di estenuazioni sessuali che correrà abbondantemente nel Novecento — e al quale certe disinvolte contesse di Jess Franco doneranno solo una forma conclamata a mo’ di sberleffo. “Come molte altre icone culturali che si conquistano la notorietà attingendo direttamente alla fonte degli interessi ideologici di un dato periodo storico” nota Dijkstra “questo quadro toccava una corda le cui note capricciose avrebbero vibrato in lungo e in largo. Infatti lo scandaloso dipinto di Burne-Jones ebbe una risonanza internazionale che eccedeva di gran lunga i suoi meriti artistici. La sua popolarità divenne emblematica della popolarità e dunque dell’impatto sociale del tema del vampiro sviluppatosi dal tardo XIX secolo fino ai nostri giorni”. Al punto da ispirare Kipling per la lirica The Vampire, sempre 1897; e da venir ripreso sulla copertina del famoso A Fool There Was (titolo tratto proprio dall’incipit kiplingiano) di Porter Emerson Browne, 1909, che trasposto al cinema condurrà nel 1915 al trionfo di Theda Bara e del neologismo “vamp”. La vecchia Empusa, insomma, non si è data da fare invano.
[Continua -]