di Danilo Arona
In un recentissimo libro al quale ho avuto la fortuna di partecipare (1), Giuliano Santoro così scrive a un certo punto:
«Il non-morto incrocia la figura del migrante, di colui cioè che muore nella società tradizionale da cui proviene per approdare all’altro mondo. Il migrante si aggira, secondo la rappresentazione corrente, smagrito, con gli occhi allampanati e muto (se non altro perché non conosce la lingua). Tuttavia, il migrante non si limita a varcare il confine, a passare da un luogo all’altro, da una cultura all’altra, da un tempo storico all’altro. Innanzitutto sconvolge il luogo di arrivo. I residenti che accolgono chi arriva spesso hanno paura di essere divorati da quegli esseri emaciati e indecifrabili. La paura dell’invasione genera mostri. Oltretutto, di tanto in tanto il migrante torna, ottenendo l’effetto oggettivo di perturbare gli equilibri locali del paese da cui era partito. Migrare significa cambiare sia la cultura del luogo di arrivo che quella del luogo di partenza, come dicono sia gli autori che sottolineano l’autonomia dei movimenti migranti e il loro eccedere le esigenze della divisione del lavoro globale, che gli studiosi che si concentrano più sugli aspetti antropologici e culturali del mondo post-coloniale. Il rapporto tra chi parte e chi è sospeso nel tempo e nello spazio si ripercuote oggettivamente anche nella sfera del diritto: ci riferiamo al tentativo fallimentare di codificare lo status giuridico dei migranti, di incasellare in qualche modo queste vite sospese cui sono richieste in egual misura capacità di auto-attivazione e volontà di sottomissione, autonomia e dipendenza, creatività individuale e annichilimento personale.»
E un paio di pagine più in là:
«Lo zombie post-moderno ritorna perché quella che ci ripropone, seppure in forma inedita e adatta alle condizioni contemporanee, è la stessa domanda che aveva animata la ribellione profetica degli schiavi di Haiti, la terra del voodoo: come è possibile conciliare la democrazia liberale con lo schiavismo? E se la modernità ha davvero dispiegato il suo progetto in tutto il pianeta, come mai tornano i fantasmi di forme arcaiche di sfruttamento?»
Forse sarebbe il caso di plaudire alla preveggenza di Santoro che ha rilasciato queste riflessioni circa un anno prima della crisi di Lampedusa. Ma, più che incensare, quel che mi sembra importante è sottolineare ancora una volta come, tra le figure classiche del gotico moderno, quella dello zombie riesca più di tutte a richiamare alla mente di chi la “consuma” la putrescente realtà sociale in cui ci troviamo immersi da qualche tempo. Chi con rassegnazione, chi con scoramento, chi con senso — dicesi antiquato — dello scandalo, ma tutti con la loro proporzionale dose di disgusto. Lo zombie è brutto e puzza, ma dietro la sua figura barcollante e triste forse l’inconscio ci rimanda immagini di ben altri zombie. Diversi e più pericolosi. Un profetico e impagabile film di Peter Medak del 1971, La classe dirigente, ne offriva un meraviglioso campionario nelle scene finali dove il pazzoide Jack (un incredibile, indimenticabile Peter O’Toole) vede la Camera dei Lord che lo sta inneggiando trasformarsi in un sulfureo teatrino di non-morti sbavanti e ricoperti da ragnatele. Quelli, appunto.
Il paradosso è che le prove generali dell’interazione tra potere e terrore con riferimento agli zombie sono avvenute per un sacco di tempo in quel posto tanto disgraziato quanto mitico che si chiama Haiti. Come accenno nel libro succitato, riportando un indimenticabile passo di Franco La Polla (2) — che riporto spesso perché tutto è già lì… – il potere ha inventato il terrore, e certa percezione del soprannaturale non è altro che la conseguenza di una radicata tradizione di paura che il potere ha coltivato e instillato nel corso dei secoli. Haiti, almeno sino a quando hanno spadroneggiato gli orridi squadroni della morte di Papa Doc Duvalier, è la stata quasi un modello da riproporre altrove in modo più raffinato e tecnologico. Esasperando il clima di superstizione in merito agli zombie, i Tontons Macoutes si sono imposti come “uomini neri” del potere su due livelli: uno pratico, con il potere di disporre del mix delle malefiche droghe necessarie per il processo di “zombificazione” introdotte a forza in molti casi nelle bocche dei torturati, e uno antropologico, perché i Tontons Macoutes hanno per anni incarnato nel mondo reale di un’isola compromessa in primo luogo sul piano percettivo una figura archetipica affine agli spauracchi occidentali. Ci riferiamo al cosiddetto “Zio Bisaccia” o “Zio Sacco di Iuta” proveniente dalla mitologia creola, un Bogey Man che percorreva le strade al sopraggiungere della notte e che rapiva i bambini che facevano tardi, infilandosi nel suo sacco di iuta e facendoli scomparire per sempre. Persino il modello mitico era imitato alla lettera: chiunque venisse sospettato di non essere a favore di Duvalier, veniva portato via di notte e del disgraziato non si sapeva più nulla. Che c’entrano gli zombie? Facile capirlo. O ti adegui o diventi zombie. E’ politica, pellegrini, vi risponderebbe Joe Lansdale.
L’Italia e l’Europa — e anche certe sacche dell’Occidente più in generale – sono così lontane da quel modello che è stato Haiti in epoca Duvalier? Mica tanto, se c’imponiamo di ragionare su certi meccanismi di persuasione che vanno a lavorare in profondità. Come si legge in un libro di Marco Della Luna e Paolo Cioni, Neuroschiavi: manuale scientifico di autodifesa (del quale personalmente non prendo tutto per oro colato, ma di certo offre qualche prezioso dato su cui riflettere), viviamo in società sulle quali è possibile operare a livello dispercettivo attraverso un riuscito matrimonio fra tecnologia e tecniche invasive di convincimento. Attraverso certi media ad esempio basta dare o non dare certe notizie, suscitare con facilità meccanismi imitativi perché “così bisogna fare dal momento che lo fanno tutti” o magari trasmettere un’immagine manipolata ed educorata di una realtà che magari è un po’ (tanto) diversa. Senza arrivare a ipotizzare un complotto mondiale gestito da chissà quale altezza e comprendente ogni comparto di aggregazione (dalla scuola al cinema) come sembrano sostenere i due autori, l’ipotesi che ci siano al lavoro dei “Tontons Macoutes” della mente, qua e là al servizio dei poteri forti che ne richiedono le prestazioni, non è campata per aria.
Su certe notizie, spesso e volentieri, si applica il modello di abbinamento con gli archetipi (Satana, satanismo, uomo nero, in occasione di delitti particolari). Alcuni tipi di propaganda (es. gli OGM che risolverebbero la fame nel mondo), anche di già inseriti in testi scolastici se non in omelie vaticane) appartengono di fatto all’utopia, ma tendono a innestarsi nella mente collettiva come dati di fatto già all’opera. Impotenza generale, chiusura in se stessi, egoismi assoluti non sono poi atteggiamenti disgiunti da una campagna mediatica selettiva dove vige legittimo il sospetto che certe manipolazioni siano al servizio di specifici interessi (come diceva Joe più sopra, pellegrini?).
In tanto coagulo di energie che si contrastano, si potrebbe azzardare la seguente tesi: lo zombie, al contrario dei vampirelli alla Twilight, è passato attraverso le maglie dei manipolatori del marketing. Ci è passato, loro malgrado. Ed è questa la forza diversa di questa nuova alba di ritornanti. Si tratta di una tendenza che scaturisce dal basso. Di una metafora popolare, quasi da periferia degradata. Adesso, anzi da un po’, il sistema si sta mobilitando per gestire il fenomeno. Qualche volta ci riesce, altre no. Il film francese La Horde di Yannick Dahan e Benjamin Rocher non fa certo parte di un apparato di manipolazione subliminale. Spiazza, è sporco e violentissimo e fa a pezzi la morale corrente: poliziotti corrotti e banditi della peggior risma si alleano per non soccombere a migliaia di zombie che stanno letteralmente distruggendo Parigi. Salvarsi la pelle val bene l’uccisione di tutti i diversi.
Comunque la pensiate, gli zombie — di Romero e soci — hanno ben anticipato certe, desolanti immagini televisive dei nostri giorni. Potere presago del cinema. Visionarietà di autori con le antenne puntate al futuro. Mentre il mondo, citando il mio amico Altieri, si sta facendo un megaclistere tra terremoti radioattivi e guerre a grappolo un po’ qua e un po’ là (ma di quelle veramente spaventose se ne parla pochissimo, vedi Darfur — un tipico caso “sistematico” di selezione di notizie…), ecco che una massa grigia, scura, di migranti zuppi d’acqua si accalca sulla banchina. E invade l’italico territorio altrimenti affogherebbe.
A me ricorda un film. Appunto: zombie, sopravvivenza (cannibalismo spaziale), il film era Il giorno degli zombi. C’era la stessa massa, scura per gli effetti speciali di Savini e Nicotero, tenuta a bada dai fili spinati e i soldati, più rincoglioniti dei morti viventi, che li sorvegliavano con i mitra spianati. Ogni tanto ne facevano fuori un po’.
Gli zombie erano — sono – per i vivi una minaccia globale e permanente. Campi di concentramento o di accoglienza, la differenza estetica tra un vecchio film e un recente telegiornale pare quasi nulla.
Proprio in questo modo sono percepiti oggi i migranti da tanti italiani.
Per dirla con Santoro, zombie e migranti sono due figure assimilabili. Barcollano, sono sperduti (stranieri in terra straniera) e hanno fame. Possono divenire predatori. Possono persino reclutare. Paura del contagio. E paura del confronto — l’attimo che forse precede lo scontro ma che è anche in grado di preludere alla pace. La risposta è quella di sempre, dal 1968, l’anno de La notte dei morti viventi: loro sono noi, colpiamo loro e, uccidiamo noi stessi. Non ci sono vinti né vincitori in una guerra del genere.
Solo zombie.
Concludiamo con un esempio tratto dalla cronaca e sul quale può essere legittimo sollevare un dubbio di pertinenza culturale. In Italia e anche altrove hanno operato in vari periodi trascorsi con lo stesso metodo di terrorismo psicologico alla Tontons Macoutes (ma pure con sostanze in grado di deprivare psicologicamente e schiavizzare sul piano fisico le vittime prescelte), pseudo-stregoni africani e antillesi che minacciavano di “zombizzare” prostitute nigeriani, senegalesi e ghanesi, se queste non avessero obbedito scrupolosamente alle istruzioni dei loro “padroni”. Al di là di generiche interpretazioni di rituali per i quali servirebbe quanto meno un approccio specialistico, si sembra interessante riproporre questo pezzo d’archivio del giornale “La Repubblica”, risalente allo febbraio di due anni fa:
Roma, 5 febbraio 2009. «Noi ti facciamo morire e poi risorgere. Adesso che sei risorta hai una nuova vita. Io sono il tuo padrone, ho potere di vita e di morte su di te, farai tutto quello che ti dirò… Adesso sorridi, fai vedere quanto sei contenta di essere rinata». Sono immagini agghiaccianti, il video di una sorta di rito d’ iniziazione per trasformare una ragazza romena di 21 anni, madre di un bambino di 4 che vive coi nonni nel suo paese, in una prostituta da strada. Sequenze dell’orrore trovate dalla squadra mobile nel computer dello stupratore. La giovane donna, all’inizio, è avvolta in un piumino, trascinata a terra e sballottata da due uomini come un cadavere. Poi viene tirata fuori, terrorizzata, e resta in balia del capo dei suoi aguzzini, un romeno di 26 anni, Valentin Gigi Voetisi, arrestato dagli agenti del vicequestore Vittorio Rizzi. L’ uomo, un bruto calvo, massiccio e tatuato, la strattona a lungo, la insulta gridandole frasi oscene in faccia, la spinge di forza in una stanza e continua a strillare prima di estrarre un grosso coltello e appoggiarlo sul viso della ragazza. Gli occhi della vittima sono due pozze di terrore puro. Ma non è finita: l’ uomo la costringe a sorridere e quelle labbra tirare in una smorfia che vorrebbe essere allegra sono, probabilmente, la parte più orrenda di questo filmato agghiacciante. Ma oltre alle minacce fisiche, al coltello e agli sputi in pieno viso che concludono il video, lo strumento di costrizione più efficace erano altre immagini: quella del bambino, filmato in Romania dagli sfruttatori: «Proprio bello tuo figlio….». Gli aguzzini non avevano bisogno di aggiungere altro. Un’ inchiesta partita quasi per caso quando, nel settembre scorso, gli agenti della mobile fermarono un uomo di 55 anni che portava tre ragazze romene in auto a Castel di Guido. Le ragazze erano costrette a prostituirsi in un appartamento di via delle Camomille e il “tassista” (che fu subito arrestato per favoreggiamento della prostituzione) era ricompensato con 20 euro per ciascuna passeggera. Durante gli accertamenti della mobile, fu ascoltata la ventunenne romena, una ragazza bionda e spaurita che dimostra meno della sua età. La giovane donna raccontò di essere stata costretta a prostituirsi da una sua conoscente, la fidanzata del ventiseienne che compare nel video e che l’ aveva attirata in Italia con la scusa di trovare un lavoro. Fin qui niente di nuovo: la classica odissea di tante giovani ragazze dell’Est che, più o meno consapevolmente, finiscono per battere il marciapiedi. Ma la novità era in quel tremendo rito iniziatico, organizzato per spezzare la sua volontà e trasformarla in una schiava, un po’ come i rituali voodoo con cui le maman nigeriane assoggettano le ragazze del loro paese…
Non so se si capisce l’antifona. Haiti ha colonizzato le menti dei Dracula dell’Est europeo? L’Occidente ha imposto un suo modello mediatico? Un dubbio che va lasciato al momento in sospeso, mentre quella che qualcuno chiama l’Orda continua ad avanzare. Ma senza dimenticare Romero: loro sono noi.
1) Arona, Santoro, Pascarella, L’alba degli zombie, Gargoyle Books, Roma, 2011.
2) Franco La Polla, Il terrore e lo sguardo, Cinema & Cinema n° 13, Marsilio, Venezia, 1977.