di Danilo Arona
Pochi giorni fa, ad Alessandria, è stata tirata a terra l’insegna dell’ex cinema Moderno in Piazzetta della Lega. Evento prepotentemente simbolico che conclude una falcidia iniziata con il cinema Corso, proseguita con l’Ambra e il Galleria.
E il Moderno che diverrà un centro commerciale di specialità alimentari di alto livello.
Erano i cinema tradizionali, uccisi in parte dalla crisi e dalla trionfale e cinica avanzata della tecnologia immateriale che ha mandato a morire un sacco di onesti mestieri. Ah, già, dimenticavo la digitalizzazione. Ovvero, se il proprietario del cinema non possiede i fondi per passare dalla pellicola al digitale, non esistono proprio alternative: si chiude.
I cinema storici della mia vita (senza elencare le cosiddette “arene estive”, già defunte da eoni), quelli in cui assistetti, stretto fra paura e senso della trasgressione, alle proiezioni di Suspense, Psyco e Gli uccelli. Quando decisi, inconsapevolmente, che il cinema sarebbe stato per sempre la mia passione maniacale, associando immagini e divieti (ai minori di 14 anni) a pulsioni interne difficili da definire, ma troppo piacevoli.
Chiusero: un percorso senza ritorno. E divennero qualcos’altro. Ma una parola composta li definisce tutti: non-luoghi. Contenitori che sono anche monumenti alla stupidità di massa. Perché contengono il vuoto. E nel vuoto si materializzano i fantasmi. Non importa creati da Chi o da Che Cosa.
Il più esemplare – perché soprattutto non è diventato ancora Altro, né un piccolo centro commerciale, né un posteggio, né un condominium alla James Ballard (manca poco però) – è proprio il Moderno. Esemplare anche perché sta nel cuore della città, in Piazzetta, e perché – pochi ne sono a conoscenza – esiste un piccolo, nascosto passaggio per entrarci.
Io non vi dirò dov’è.
Posso solo svelare, ma non svelo niente, che l’ingresso è lì, visibilissimo sotto gli occhi di tutti, e per la nota legge degli estremi coincidenti (una volta in politichese “opposti estremismi”) del tutto invisibile. Ma percorribile per chi sa vedere.
Oh, Alessandria, giova ricordarlo, è stata un’avanguardia cinematografica. Patria di Adelio Ferrero e di Nuccio Lodato, dell’Azienda Teatrale Alessandrina, del Festival Ring e della casa editrice Falsopiano. Ovvero, rigurgitava – rigurgita – di gente che andava al cinema. Ogni volta che ci andava, che entrava, quella gente lasciava parti del sé a vagare in quegli spazi. Emozioni, lacrime, spaventi, stati d’animo e della psiche. Tracce. Quelle che poteva captare il piccolo Danny Torrance, armato dello Shining, all’Overlook Hotel.
Al Moderno le tracce abbondano.
Dentro ci stanno ancora le sedie. Lo schermo e un sacco di ragnatele. La polvere. Non è agevole respirare.
Quando entriamo – non ci vado mai da solo -, aspettiamo che si attivi un meccanismo di reazione che abbiamo imparato a conoscere. Perché noi, quelli che entriamo mai visti da nessuno, sappiamo che il Cinema, per quanto morto e abbandonato, sta dichiarando guerra a quel Blob che da troppo tempo sta fuoriuscendo dai tubi catodici e imprigionando la gente tra le mura domestiche: un Blob che assomiglia alle gibbose mostruosità di Richard Matheson (Su dai canali), che scaturisce Videodromicamente dagli schermi TV, che attraversa e contagia l’Infosfera e invade la psiche collettiva. La gente non esce quasi più dai manicomi di acciaio di pietra, i condominia, appunto, di Ballard; al massimo può accadere che decine di abitanti di un qualsiasi quartiere periferico si sporgano dalla finestra per osservare nei minimi dettagli un lunghissimo e terribile omicidio perpetrato da un serial killer del rione, e poi tornino subito a prostrarsi davanti allo schermo tv, rapiti dall’ultimo Grande Fratello. Negli appartamenti, chiusi dall’interno a doppia mandata, dove c’è Sky, il lettore dvd o Blue-Ray, uno schermo sempre acceso e “dalla bocca sempre aperta”.
Ma, come dicevo, il Cinema sta reagendo.
Bastano tre persone. Ben coese e motivate.
Che entrano di soppiatto.
Si siedono.
Ci sediamo.
E poi, nella penombra (il buio, dopo che ti ci abitui), ci guardiamo. E ce lo chiediamo.
Cosa vogliamo vedere?
Oggi come allora.
Sempre quello.
Allora, d’incanto, la polvere scompare. Parte il caratteristico, gracidante rumore della macchina coi rulli.
E sullo schermo appare il leone ruggente dentro la cornice. In bianco e nero. Metro Goldwin Mayer. E ci guardiamo attorno e… C’è gente, cazzo, c’è gente. Altri che hanno trovato il passaggio. Dopo il leone e i suoi ruggiti, ecco davanti e sopra di noi (stiamo in terza fila) un gregge di pecore scampanellanti. Quindi: un contadino a bordo di un trattore, un cane che sonnecchia accanto a un camino e un tipo che telefona.
«Accidenti, non ci sono neppure i titoli», commenta un pirla dietro di noi.
«Zitto, scemo», protesto vivacemente, «siamo ad Alessandria, capitale della critica!», e imitando Sgarbi: «Capra!»
Il pirla si è spaventato e non reagisce. E intanto sullo schermo il tizio che stava telefonando, un profilo aquilino e importante, interrompe di colpo la comunicazione e, come colpito da un infarto, si accascia a terra. Sorpresa, uguale sorte tocca al suo cane, peraltro già ampiamente appisolato. Al contadino sul trattore che inizia a girare in tondo fino a travolgere un albero. Alle pecore transitate dopo il leone ruggente. A un vecchio accasciato sul marciapiede con espressione sbigottita. A una donna intenta a stirare la camicia di un congiunto. In sostanza, a ogni abitante del villaggio inglese di Midwich.
Esaurito il prologo, la camera inquadra l’orologio di un campanile ed ecco i titoli.
Il villaggio dei dannati.
Sempre quello vogliamo vedere.
Perché Lui è il Grande Fantasma. Che ci racconta un’eterna verità. Ovvero, le donne possono rimanere incinte senza rapporti sessuali. Riuscendo a partorire bambini dai capelli biondo platino che sono proprio bastardi dentro. Né musica, né colore, né dischi volanti, ma tutte le volte ci caghiamo sotto.
Perché la prima volta che lo vidi qui nel ’61 mi cagai così tanto addosso che la metaforica merda a forma di fantasma ancora circola qui e ancora posso percepirla dato che un po’ di Shining lo possiedo anch’io.
E continuiamo ad avere paura. Io. E i miei genitori. Adesso abbiamo quasi la stessa età perché i fantasmi (loro) non invecchiano.
E Il villaggio continua a farci piacevolmente paura. Midwich che, totalmente addormentata, viene dichiarata zona infetta. Midwich che si risveglia e s’interroga. Le donne che si ritrovano incinte. I bambini che nascono e da subito appaiono strani, tutti biondi, tutti telepatici, con gli stessi occhi giallastri.
Adesso potreste ribattere che Il villaggio dei dannati lo si potrebbe anche vedere a casa. In TV. Senza rischiare di essere beccati qua dentro da qualche forza dell’ordine e venire denunciati per violazione di domicilio.
Naaaa. Non lo programmano mai. Né lui, né La stirpe e neppure il remake di Carpenter. Quelle bocche catodiche sempre aperte vogliono che stiamo – che stiate – buoni e che non ci vengano strane idee per la testa.
E poi preferiamo così. Perché questi non-luoghi – i cinema chiusi e non utilizzati – esprimono questo straordinario potere (che potremmo chiamare autoinfestazione) anche per una sola persona. Ed è un segreto che non vogliamo dividere con qualche pirla che al cinema parla a sproposito e disturba la visione con i suoi commenti da imbecille. Giusto?
Peraltro noi domani sera torniamo.
Finché c’è vita non è mai l’Ultimo Spettacolo.