di Alessandro Barile
Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Editori Laterza, 2017, pp. 210, € 20,00
Nel 1976 Perry Anderson, nelle sue Considerations on western marxism (tradotto in Italia da Laterza e pubblicato nel 1977 col titolo: Il dibattito nel marxismo occidentale), invitava a prendere atto della scissione epistemologica avvenuta nel campo del marxismo. Da una parte il cosiddetto “marxismo occidentale”, inaugurato nel 1923 dalla pubblicazione dei saggi di György Lukács (Storia e coscienza di classe) e Karl Korsch (Marxismo e filosofia); dall’altra il “marxismo orientale” dei paesi socialisti. Coi lavori di Lukács e Korsch il marxismo inaugurava l’epoca della sua completa maturità filosofica, in grado finalmente di confrontarsi col pensiero borghese su di un piano di parità intellettuale. In Unione sovietica, in Cina, così come nei paesi in lotta contro il colonialismo, il marxismo era andato trasformandosi in una rozza teoria del potere che poco o nulla più condivideva col marxismo propriamente detto.
Questa differenza sostanziale tra i due marxismi era in realtà stata rilevata prima di Anderson dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, che già nel 1955 riconosceva una divaricazione lampante tra un marxismo grezzo ma utile alle rivoluzioni anticoloniali (il marxismo orientale), e un marxismo occidentale filosoficamente adulto ma politicamente impotente nei contesti a capitalismo maturo. Domenico Losurdo prende le mosse da questa dicotomia, la fa propria e ne indaga i caratteri originari. Per l’autore, il nodo di gordio prende forma durante la Prima guerra mondiale: «a partire dall’orrenda carneficina, ufficialmente scatenata da una parte e dall’altra in nome della difesa della patria, si diffonde in larghi settori del marxismo occidentale un internazionalismo esaltato e astratto, incline a considerare superata la questione nazionale e di conseguenza a delegittimare i movimenti di liberazione nazionale dei popoli coloniali».
Questa intervenuta difficoltà nel conciliare il proposito internazionalista con le contraddizioni generate dalla lotta per l’indipendenza nazionale delle popolazioni colonizzate porterà, secondo Losurdo, al problema da cui prenderà forma la scissione nel marxismo: il «mancato incontro» tra marxismo occidentale e rivoluzione anticoloniale (continuamente evocata dall’autore come principale avvenimento del XX secolo). In effetti tale mancato incontro è il prodotto di propositi politici differenti, a loro volta frutto di contesti sociali e nazionali in contraddizione tra loro: «A partire dal caso esemplare di Lenin possiamo comprendere il processo di apprendimento attraverso cui è costretto a passare il gruppo dirigente bolscevico: prima della conquista del potere esso tende a pensare la società postcapitalistica come la negazione totale e immediata del precedente ordinamento politico-sociale; con le prime esperienze di gestione del potere si fa strada la consapevolezza che la trasformazione rivoluzionaria non è un’istantanea e indolore creazione dal nulla, ma una complessa e tormentata Aufhebung (per riprendere una categoria centrale della filosofia hegeliana) e cioè un negare che è al tempo stesso un ereditare i punti più alti dell’ordinamento politico-sociale negato e rovesciato». In altre parole, se in Occidente il comunismo assume i caratteri dell’«Altro assoluto» rispetto al capitalismo, in Oriente «i paesi meno sviluppati, prima di abbattere completamente il capitalismo, hanno bisogno e sono desiderosi di usufruire delle “meraviglie”, del meraviglioso sviluppo delle forze produttive, che il Manifesto del partito comunista a ragione attribuisce a tale regime sociale. Vedremo Mao dichiarare nel 1940 che la rivoluzione da lui promossa, prima di conseguire il socialismo, intende “sgomberare il terreno allo sviluppo del capitalismo».
Con ciò prende forma quella che può legittimamente indicarsi come caratteristica distintiva tra i due marxismi: da una parte, nei paesi socialisti (o in lotta contro il colonialismo) il marxismo conserva il suo carattere prioritario di “filosofia della prassi”, sistema poco organico filosoficamente ma capace di dare voce alle istanze di liberazione delle popolazioni subalterne. Un sistema di idee forse “rozzo” ma efficace ai suddetti propositi di liberazione. Nell’Occidente capitalistico il marxismo procede slegandosi da una prassi immediata, trasformandosi in coerente filosofia matura in grado di dialettizzare e contaminarsi col pensiero filosofico borghese: il nichilismo nietzschiano, l’esistenzialismo, lo strutturalismo, la psicologia, eccetera. Perdendo la relazione con “l’immediatezza” della rivoluzione, al marxismo occidentale non resterebbe che convertirsi in “teoria critica” dell’esistente, mantenendo i caratteri profetici del marxismo originario, tradotti però in una religiosa attesa messianica, per ciò stesso impotente di fronte al mondo.
Da Horkheimer («La nostra teoria critica più recente non si è più battuta per la rivoluzione, perché dopo la caduta del nazismo nei paesi dell’Occidente la rivoluzione condurrebbe a un nuovo terrorismo, a una situazione terribile. Si tratta piuttosto di preservare ciò che ha un valore positivo, per esempio l’autonomia, l’importanza del singolo, la sua psicologia differenziata, taluni momenti della cultura, senza arrestare il progresso») ad Adorno («Indubbiamente, oggi l’ideale fascista si fonde tranquillamente con il nazionalismo dei paesi cosiddetti sottosviluppati»), da Tronti («Ci deve essere dato atto che non cademmo mai nel terzomondismo, delle campagne che assediano le città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai “cinesi”») ad Hardt e Negri («Il concetto di una sovranità nata da un processo di liberazione nazionale è ambiguo, se non completamente contraddittorio. Nel momento stesso in cui il nazionalismo si batte per liberare la moltitudine dal dominio straniero, esso istituisce strutture di dominio interno ugualmente dure. […] Dall’India all’Algeria, da Cuba al Vietnam, lo stato è il regalo avvelenato della liberazione nazionale»), il «mancato incontro» di cui parla Losurdo non sembra situarsi tanto rispetto alla rivoluzione anticoloniale, quanto con la categoria del potere. In altri termini, mentre a Oriente il marxismo viene utilizzato come teoria per l’edificazione di un potere alternativo a quello capitalista, a Occidente il marxismo si riduce a speculazione critica del potere stesso. Il risultato, secondo Losurdo, è quello di una negazione indeterminata del capitalismo che sfocia nella completa astrazione filosofica, non in grado di interagire politicamente col presente, decretando così la morte del marxismo come teoria e come prassi. Il marxismo occidentale, secondo il filosofo pugliese, verrebbe confinato a un’«ermeneutica dell’innocenza», peraltro totalmente eurocentrica.
Se questa è la diagnosi, la prognosi proposta da Losurdo rifugge ogni determinismo e auspica l’incontro tra queste due “esigenze” del marxismo: «a Oriente la prospettiva socialista non può fare astrazione del compimento a ogni livello della rivoluzione anticoloniale; in Occidente la prospettiva socialista passa attraverso la lotta contro un capitalismo che è sinonimo di acutizzazione della polarizzazione sociale e di crescenti tentazioni militari. Non si vede, tuttavia, perché queste differenze si debbano trasformare in antagonismo». Facile a dirsi, complicato tradurlo in pratica. In effetti, la sintesi losurdiana, sebbene in alcuni passaggi eccessivamente schematica (in “Occidente” il marxismo è stato molte cose, non solo la Scuola di Francoforte o la biopolitica foucaultiana, come d’altronde riconosce Losurdo parlando di Sartre o Marcuse), ha il pregio di indicare uno dei caratteri limitanti che è andato assumendo nel corso del tempo il pensiero marxista: è un dato di fatto che il marxismo in Occidente sopravvive in taluni dipartimenti universitari ma è completamente espunto dall’attualità politica. Nonostante ciò, la progressiva deriva capitalista cinese (anche ammettendo, ma non concedendo, la natura “tattica” del suo contingente modello di sviluppo, secondo Losurdo) difficilmente può costituire un esempio edificante al fine di riattivare un’efficace prassi marxista in Occidente. Di certo, l’attuale fortuna delle forze populiste deve molto alle difficoltà incontrate dal marxismo nell’organizzare un’efficace discorso sul potere.