di Valerio Evangelisti
[Propongo la mia introduzione a un libro straordinario: Valerio Monteventi, Serafino D’Onofrio, Berretta Rossa. Storie di Bologna attraverso i centri sociali, Pendragon, Bologna 2011, pp. 234, € 16,00. Se non lo trovate in libreria lo potete acquistare qua].
Per raccontare la vicenda della sinistra invisibile bolognese, Valerio Monteventi ha scelto la strada più adeguata: la “storia orale”. Mi riesce difficile, davanti a questa opzione, adottare una via diversa. Eppure credo che sia il momento di razionalizzare un pochino ciò che, altrimenti, sembra consegnato all’insignificanza e, inevitabilmente, all’oblio.
Questo senza dimenticare che, in quegli anni, io fui una delle parti in causa — “protagonista” non lo sono mai stato — col nomignolo ricordato nel testo, “So Long”. Il nomignolo mi fu affibbiato da “Papalla” di Lotta Continua. Derivava dalle sigarette che fumavo e dalla statura altissima. Ci si chiamava essenzialmente per nome o soprannome. Valerio Monteventi, per esempio, era “Ciano”. Il cognome vero l’ho imparato molto tempo dopo, come quello del compagno che nel libro è detto “Pietruccio”. I cognomi riguardavano la polizia. Nessuno stava a chiederli.
Come So Long, dopo avere militato dal 1969 nella sinistra extraparlamentare e nelle sue tarde appendici, agli inizi degli anni Ottanta presi parte a due occupazioni di centri sociali: il Crack 1, ma soprattutto il Crack 2. In seguito mi convinsi che non ci sarebbe stata una rivoluzione in Italia, e che bisognava sostenere quelle in corso altrove. Assieme ad altri (“Sacco”, “Antonello” ecc.) diedi così vita a un gruppo internazionalista, il Circolo Carlos Fonseca. L’interesse per situazioni straniere, e in particolare per l’America Latina, forse ci salvò dalla repressione durissima che si abbatté sul movimento.
Alle soglie degli anni Novanta promossi una rivista intitolata Progetto Memoria. Ne nacque in seguito Carmilla, fortunata esperienza prima cartacea e poi on line. Questo è tutto ciò che posso dire di me stesso. Adesso vengo al tema “serio”. Non senza avere dichiarato che, delle idee del passato, non ho mai rinnegato nulla, a parte aspetti molto marginali. Al contrario, quelle idee mi sembrano più attuali che mai.
La Rivoluzione francese, che tanta influenza esercitò sulle insurrezioni dei due secoli successivi, aveva un motto notorio: “Libertà, uguaglianza e fraternità”. La terza parola, la più trascurata, è quella che meglio definisce l’esperienza dei centri sociali. Laboratori di politica e cultura, certo, fucine di lotte e di forme alternative di svago, ma anche, in primo luogo, aggregazioni di individui che hanno deciso di aderire a un comune assieme di valori.
Ciò appartiene in fondo alla storia del movimento antagonista, sia antica che recente. Funzionavano grosso modo così le Case del Popolo, risalenti ai primi del ‘900 e, in qualche caso, all’ultimo decennio dell’ ‘800. Pensato alla stessa maniera era il circuito ARCI. Più vicini a noi, nel tempo e nello spirito, i Circoli del Proletariato Giovanile degli anni ’70, o le Mense proletarie di Napoli e di altre località. Certi bar, come si ricorda nel libro, erano e sono centri sociali di fatto (per la Bologna di oggi, penso ad esempio al bar di Dodi, alla Vereda ecc.).
Quando la sinistra istituzionale (PCI, PSI) è entrata in crisi, le prime a essere liquidate sono state le Case del Popolo, a favore di circoli e sezioni meramente politici aperti, di norma, un solo giorno a settimana. Tipo uffici. E quando a entrare in crisi è stata Rifondazione Comunista, che alla “fraternità” non aveva dedicato molta attenzione, gli stessi circoli di partito hanno cominciato a chiudere i battenti.
A ben vedere, la sinistra antagonista si è sempre differenziata da quella istituzionale non tanto per questioni ideologiche (riforme o rivoluzione, elezioni o astensionismo, sindacato o organizzazione autonoma dal basso, e così via), quanto per la valorizzazione del momento esistenziale quale supporto a tutto il resto. E continua a farlo, più debole che in passato e tuttavia tenace.
Non sedimentò nulla, si dirà. Non è affatto vero. E’ alla sinistra “scomoda”, e non a quella imbolsita e oggi transitata a destra, che si devono la vittoria — attualmente messa in discussione, ma dopo due decenni — contro il nucleare, le più decise azioni antirazziste, il permanere di un antifascismo militante, il sopravvivere di un internazionalismo autentico, l’ancora larga diffusione di culture non ufficiali che passano di generazione in generazione, l’antimilitarismo, la critica dei sindacati accondiscendenti, la scoperta e l’uso di mezzi di comunicazione alternativi, la genesi di nuovi generi musicali, letterari e pittorici (i graffiti tanto odiati dal potere), la prima affermazione di massa del femminismo, l’antiproibizionismo.
Se tanti giovani si fossero affidati alla sinistra “storica”, oggi non sopravvivrebbe nulla di tutto ciò. Essa fece del suo meglio per reprimere le nuove idee, pose al centro del discorso una lenta penetrazione nelle istituzioni, poltrona per poltrona, assessorato per assessorato. Mobilitò spie, esaltò la delazione, usò la forza solo contro chi la contestava da sinistra. Oggi si può dire soddisfatta. Sul seggio di Presidente della Repubblica siede il massimo esponente della sua ala più reazionaria, Giorgio Napolitano, il repressore per eccellenza — prima in nome dell’Unione Sovietica, poi del modernismo, e infine della quiete pubblica. Ogni giorno borbotta e gorgoglia qualcosa, che ha regolarmente a che fare con la pace sociale.
Di fronte, quella sinistra diventata con disinvoltura destra ha sempre avuto, come spina nel fianco, alcune migliaia di oppositori abituati a vivere assieme, a coltivare una comune visione del mondo, a esplorare le vie verso una società più umana. Non che le contraddizioni siano mancate. Litigi continui, incertezze, voltafaccia. Assenza totale, per la fuga in massa degli intellettuali “amici”, di un coerente quadro teorico.
Eppure, malgrado fratture a getto continuo, una compattezza rimane. Siamo il partito della fraternité. E’ giusto, urgente e necessario rintracciarne le origini. Una ricostruzione delle storie individuali può aiutare moltissimo a ricomporre la storia complessiva. Vale per Bologna, vale per tutta Italia.
Concludo con un aneddoto individuale. Ho 58 anni, e le cure per una malattia grave mi rendono difficile camminare. Un paio di mesi fa sono andato a presentare un mio libro al Dans la Rue, una libreria legata al centro sociale Crash. Ebbene, Paolino, Pietruccio (non è il suo vero nome) e Pilò mi hanno sorretto e trasportato fino alla sedia della conferenza. C’era una quantità di giovanissimi. Dopo, sono uscito tenendo per mano Paolino.
Nel passato avevamo appartenuto a tendenze differenti. Non erano mancati gli scontri. Ma che conta? Eravamo vissuti assieme, avevamo passato uniti traversie indescrivibili.
E’ questa solidarietà duratura la forza autentica dei centri sociali.
Andatelo a spiegare a un ex pcista “pidduino”, non capirà una parola.