di Cassandra Velicogna
Andrea Staid, Abitare Illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, le Mileu, Milano 2017, pp 184, € 14,90. Prefazione Marco Aime
«La casa è di chi l’abita, è un vile chi lo ignora»
Gli strascichi della crisi hanno eletto la distopia a forma letteraria più attuale, Andrea Staid attua una scelta differente: addentrarsi nell’eterotopia. Con metodo etnografico (ovvero su campo, tramite le voci dei diretti interessati), l’autore mette in luce alcune realtà contemporanee molto differenti tra loro. Si parte dai vituperati campi nomadi, dove rom e sinti mettono in luce il prorpio concetto di casa, incompatibile con quelle fastidiose scatole di cemento in cui si rinchiudono volutamente i gagé. Prosegue poi con le case occupate, le esperienze di Milano e Barcellona sono prese ad esempio nel secondo capitolo, ma si parla anche di altre realtà europee e della storia dei movimenti di lotta per la casa. Il quarto capitolo è dedicato a comuni, Wagenplatz ed ecovillaggi e i due finali trattano autocostruzione (specie dopo un terremoto) e slum, a partire dal Gran Ghetto di Rignano, raccontato dalla dai ragazzi di Radio Ghetto: la coraggiosa emittente radiofonica che diffonde la voce dei lavoratori agricoli che abitano nella baraccopoli.
Il differente modo di concepire la propia casa, ovvero non affittandola né acquistandola, crea nuove forme di vita. È indubbio che il sistema (turbo) capitalista non tolleri l’esistenza di queste “anomalie”, presto spiegato dunque il valore della descrizione e dell’analisi dei modi di abitare illegali. L’eterotopia è tra le altre cose un nucleo di infrapotere: qualcosa che non potrebbe esserci, ma c’è. La capacità reattiva di nomadi, occupanti e comunarde va dunque oltre i confini delle case. Sparigliando le carte a uno dei sistemi di estrazione di valore dal lavoratore (affitto, mutuo), l’abitare informale è un attacco diretto alle urbanistiche che escludono i poveri. Vedi il caso delle case occupate di via Torricelli a Milano, che rappresentano la contraddizione lampante tra il tessuto storicamente popolare della zona adiacente ai Navigli e il tentativo, per lo più riuscito, di trasformare il quartiere in un divertimentificio con prezzi al metro quadro da capogiro. Fortunatamente ci sono più cose in cielo e in terra di quante non ne sognino i nostri governi e palazzinari (spesso leghisti, al nord) e se ci sono più case senza gente che gente senza casa, da qualche parte un bastone nell’ingranaggio del sistema è stato messo. Ma la questione della riappropriazione dell’abitare nei quartieri gentrificati non è l’unica proposta degli occupanti. Quello che si evince dalle numerose interviste, che siano occupanti di San Siro, Corvetto o del Raval barcelloneta, è il tentativo di praticare svariate forme di solidarità attiva. I movimenti di lotta per la casa, negli anni, hanno saputo creare vere e proprie strutture di supporto per la popolazione. Laddove le municipalità hanno abbandonato le periferie, gli occupanti di case hanno portato cultura, formazione (non ultime le expertises edili), solidarietà e mutuo soccorso tra lavoratori, genitori e musicisti…
Il modo di vivere degli occupanti non si limita a riprodurre illegalmente la dinamica del chiudersi entro quattro mura e curare il proprio esiguo pezzo di mondo, si propone anzi di generare e alimentare un tipo differente di società in cui la casa è comunque parte di un fatto sociale.
Ma non si ferma qui, Andrea Staid. Mettere in luce l’abitare informale significa anche andare oltre al concetto di squat, casa occupata o spazio sociale “con abitativo” che sia. A partire delle comuni, il libro dimostra come la differenza tra l’abitare “normale” e quello informale proliferi in una serie davvero ampia di forme e modalità. L’esempio delle comuni è importante per quel che riguarda la riproduzione stessa della vita. Casse comuni e lavori condivisi sono all’ordine del giorno per gli Elfi o gli abitanti di Urupia, per fare un esempio. E se l’utopia di un rapporto diverso con la natura e con gli esseri umani spessissimo riguarda comunità libertarie, nel libro si parla anche della comune di Agognate (Novara), creata e sviluppata da cattolici che incentivano il concetto di rifugio per chi si trovi ai margini della società. «Abitare, vita in comune è per me una sfida continua. Sono partita per questa avventura perché i confini della famiglia e delle forme di vita religiosa esistenti mi stavano strette». Dichiara una delle abitanti di Agognate.
Quello che esce “dal seminato” è spesso vario, multiforme, fantasioso. Ma soprattutto non è subito passivamente. Nessuno degli intervistati sostiene che il proprio modo di abitare sia più semplice che affittare un appartamento in periferia. Staid è chiaro: il fattore economico è solo uno dei mille in questa scelta. Dal momento in cui lo spazio vitale è anche un compromesso con altri e non è possibile abbandonare una casa occupata vuota, senza che la sgomberino, l’eterotopia è un luogo altro da conquistare, che costa fatica affinché dia soddisfazione o semplicemente “funzioni”.
Come tutte le cose ottenute con sforzo, però, la casa “informale” è una casa non alienata, non alienante, totalmente a immagine e somiglianza di chi la vive, ne rispecchia pregi e difetti. E veniamo all’importantissima domanda che l’autore si pone in partenza: “Quando abbiamo smesso di costruirci le nostre case?”
Il capitolo sulle forme di autocostruzione è davvero “inspiring”. Per prima cosa si prende ad esame una situazione non secondaria, né ahimè sporadica: il post-terremoto. Se all’Aquila Bertolaso e Berlusconi (più mafie varie) non avessero voluto inibire a proprio uso e consumo la ricostruzione delle abitazioni, privando l’accesso in un’ampia parte della città, forse sarebbe andata diversamente. Forse sarebbe andata come in Friuli, nel 1976, quando gli abitanti si rimboccarono le maniche e rimisero letteralemente in piedi le proprie case.
Così ha fatto Mina, dopo il terremoto dell’Emilia, utilizzando un modulo abitativo totalmente biodegradabile (in canapa) che però si presenta e funziona come una casa in muratura. L’ha visto a Made Expo, ha chiesto di acquistare il modulo esposto e l’ha fatto installare dove sorgeva la sua casa. Senza permessi o fastidiose “zone rosse”.
L’autocostruzione non è un’alternativa solo per i terremotati. Le interviste effettuate in California dipingono delle forme di autocostruzione che prevedono officine comuni e case sull’albero. Il problema è che il know how di base per tirare su un muretto o fare la malta, occuparsi di un impianto idraulico o impermeabilizzare un tetto è andato perso. Ricordo perfettamente mio nonno che fa la malta e aiuta mio zio a ristrutturare una casa in campagna, ma pensavo di avere un super nonno. Io non so fare la malta, ma effettivamente aver occupato una casa e svariati spazi sociali mi ha insegnato parecchie cose. Prima fra tutte quello che si evince dalla lettura di questo libro: con la voglia di imparare, l’olio di gomito, un buon insegnante e l’idea che non sarà sempre tutto perfetto si possono addirittura costruire le case. Staid, dopo i molti esempi riportati, ammonisce: se deleghiamo ad altri la costruzione dei nostri spazi vitali, come meravigliarsi che questi siano scomodi e non ci rispecchino?
Le alternative a queste forme di abitare illegale non sono molto entusiasmanti. Basti pernsare che l’unica forma simile a quelle che pratichiamo legalmente è quella descritta nell’interessantissimo ultimo capitolo: al Gran Ghetto di Rignano, dove, con rare eccezioni qui descritte si vive in condizioni precarie, si paga un affitto di 40 euro a stagione. L’unico caso in cui l’eterotopia è distopia e l’incapacità di immaginare soluzioni alternative macchia la credibilità dello Stato, ce ne fosse ancora bisogno. Non oscurare il ghetto, lo slum, rappresenta il lodevole amor di completezza dell’antropologo che, grazie all’esperienza di Radio Ghetto, fa luce su una realtà poco penetrabile.
La questione dell’abitare è il fulcro dell’economica mondiale. Non a caso il mattone era ritenuto prima della crisi del 2008 l’unico bene rifugio. La stessa crisi è stata frutto dell’esplodere della gigantesca bolla immobiliare e ancora oggi le lobby del mattone continuano a costruire per rivalutare il valore dei terreni. Cattedrali nel deserto, che spesso costano troppo per le popolazioni inpoverite, mentre l’edilizia popolare de facto viene cartolarizzata, svenduta, fatta cadere a pezzi e gentrificata. Gli affitti nel frattempo stanno salendo di nuovo, mentre gli stipendi, per chi è occupato, restano bloccati… è più facile oggi per turista trovare un Airbnb a basso costo, che per un “autoctono” una casa in affitto, nelle città italiane. Il governo Renzi ha aggiunto la ciliegina sulla torta: il famigerato articolo 5 del Piano Casa (2014), ovvero quello che impediva di attaccare le utenze agli occupanti. Per fortuna tre anni di lotte hanno mitigato questa decisione criminale: ora saranno i sindaci a decidere se preferiscono attaccare l’acqua alle palazzine occupate o lasciare che scarso igiene e condizioni di vita medievali siano avallate in città…
Un piccolo passo avanti in un quadro a tinte fosche in cui i governi si disinteressano del disagio abitativo di fasce sempre più ampie della popolazione. Questo libro ha la pregevole funzione di indicare possibili soluzioni dal basso a un problema che investe una parte vitale dell’esistenza delle persone. Staid dimostra però che abitare informalmente non è solo resistenza, ma anche attacco a logiche sempre più castranti: riprendere in mano la questione della casa è un passo per impedire alle nostre città (o campagne o montagne) di alienarci, di non riconoscerci.