di Pina Piccolo
Gentiana Minga, Ciao mamma! Un saluto da Bolzano, Terre d’Ulivi, 2017, pp. 84, € 11
Con un titolo come “Ciao mamma! Un saluto da Bolzano” che sembrerebbe preannunciare una cartolina, si dà invece l’avvio alla prima antologia tratta da svariate raccolte inedite, in italiano, della poeta Gentiana Minga, nata, e cresciuta in Albania, con alle spalle una solida esperienza letteraria nel suo paese d’origine e ora residente in Italia da diversi anni. Ben lungi dal formare un quadro statico, come quello che potrebbe essere una cartolina che di solito fissa all’interno di una cornice luoghi storico/sociali o naturali deputati alla bellezza, in questa antologia la poeta ci restituisce sequenze quasi cinematiche, dinamiche, in pieno movimento di fenomeni complessi utilizzando ricche metafore, dalla struttura e contenuto abbastanza insoliti rispetto alla tradizione poetica italiana, atte ad approfondire anche i più reconditi risvolti di rapporti, sentimenti, fenomeni sociali.
Due sono i nuclei dell’esperienza umana su cui si sofferma la telecamera: il poemetto narrativo d’apertura delinea il rapporto tra chi ha lasciato un Paese e chi vi è rimasto (in questo caso la madre rimasta e la figlia emigrata, quella che manda i saluti) quindi temi della memoria, nostalgia, sensi di colpa, egoismi, rabbie, piccoli ricatti. L’altro grande tema è l’amore coniugale e il rapporto di coppia nella quotidianità: sono quindi privilegiati l’indagine del nucleo familiare sia d’origine che acquisito. Al tema dell’amore vanno riferiti questi versi, “ So chiaramente che stasera mi sogni / mentre raccolgo le schegge e sto attenta /
a non tagliarmi le mani e le ginocchia. / Non serve sporcare di sangue il tappeto. / Dopo un campo lungo sull’esperienza della poeta nel corso della giornata, la difficoltà della comunicazione dell’esperienza quotidiana tra amanti viene evocata in “E poi mi scende una lacrima scarsa / e vorrei dirti tutto, /ma ho il dubbio che è troppo, / parlarti della mimosa, della mosca, /del fiore che non so annaffiare nella misura giusta, /e temo che mi stia morendo.
Un terzo nucleo, che si dipana in maniera meno unitaria rispetto ai 2 principali, si riferisce alle esperienze di migrazione che interessano l’Italia, l’Europa e il mondo di oggi: vengono presentati personaggi come Narin, la guerriera di Kobane, o il migrante somalo fulminato nel tunnel della Manica, o Abuk Ajou che muore di fame e a cui si nega perfino la domanda “- Saluti Abuk Ajou! Stai morendo bene?”. A differenza delle altre raccolte, anche quando sono raggruppate, a queste poesie manca una continuità narrativa: sono poesie che scaturiscono dalla frequentazione quotidiana della poeta con i fenomeni della migrazione attuale, che la vedono sia “migrante” in prima persona, sia persona impegnata per i diritti dei migranti tramite l’azione e la scrittura. E’ utile, in questo riguardo, sapere che Gentiana Minga è vicedirettrice del bollettino enmigrinta (immigrato in esperanto) contro le discriminazioni, pubblicazione di cui dirige la sezione di Bolzano; scrive regolarmente per El Ghibli, la più importante rivista della migrazione in Italia; è membro del direttivo dell’Associazione Rete dei Diritti dei Senza Voce Bolzano, e membro sostitutivo della Consulta Provinciale per l’Integrazione degli Stranieri in Alto Adige.
Il poemetto di chiusura “La signora di Scutari e delle ortensie” che contiene quasi tutti i temi dell’antologia rimane il più lirico ed enigmatico a dispetto del titolo che sembrerebbe preannunciare una narrazione più piana. Le ortensie evocate nel titolo potrebbero rimandarci alle atmosfere crepuscolari de “L’amica di Nonna Speranza” di Gozzano, ma invece, pur essendo ambientati nella capitale culturale dell’Albania, suscitano sentimenti più bui e di disagio, partendo dall’evocazione della leggenda del sacrificio propiziatorio della giovane donna murata viva per garantire la costruzione del castello della città. Nel descrivere l’atmosfera di Scutari, ci aspettano versi come, “Trema la musica mentre Marley urla. / Dal treno che scende e sale senza sosta./ Io stasera devo sbattere il giorno /come un tappeto sporco // La notte è lunga, e sempre affamata. / Difficile, nonna mia, che questo mondo ci ami. /”
L’evoluzione di queste esperienze umane viene tracciata seguendo una specie di albero genealogico della migrazione/estraneità piazzate in contesti storici completamente diversi (i genitori della poeta si incontrano in veste di giovani studiosi stranieri, in preda all’estraniamento e alla nostalgia, in Cina negli anni 70 del Novecento, entrambi studiosi provenienti dall’Albania, due nostalgie messe a confronto che si riconoscono e trovano rifugio una nell’altra). La nostalgia per il passato viene invece interpretato dalla coppia dei nonni che discorrono “dei compagni che / non c’erano più” sulle note di una “canzone straziante di Zdravko: / – Ti moses sve. Tu non puoi fare niente …” mentre l’occhio della nipotina li segue curiosa e impietosa (non le sfugge l’occultazione della bottiglia di vodka del nonno). Quindi chi legge si trova prima a fare la conoscenza di una serie di personaggi e situazioni, una specie di campo lungo, e una volta avvinto dalla trama, Gentiana Minga mette in campo potenti metafore che funzionano non tanto come primi piani ma come lente di microscopio ad altissimo ingrandimento che mette a nudo le molecole dei sentimenti, rivelandone le nervature, gli interstizi. La nostalgia, il sentimento di mancanza e di assenza sono temi molto sfruttati nella letteratura del 900 e del duemila, ma il pregio dell’opera di Gentiana Minga, oltre alla sua professione di poetica generale “[Scrivo per…] non lasciare nell’oblio quello che fa uno,/ uno qualunque, scrivo. / quello che succede in un istante, e non succederà mai di nuovo” sta nell’indagarne le pieghe, nel collocarli nel presente di una società tecnologica e collegata, (“Nulla sfugge al mio cuore, straniero./Distante da me sento il tuo palpito, /il fremito della testa che si percuote /per mettere/ il naso fuori acqua”. E riesce ad ottenere tali risultati grazie alla profonda padronanza di tecniche poetiche e strumenti linguistici nati da un lungo allenamento alla scrittura maturato sia in Albania che in Italia, come giornalista, negli anni novanta, di importanti testate albanesi come Koha Jonë, Rilindja e Zëri i Kosovës, Studenti, Zëri i Popullit e poi con le pubblicazioni letterarie, la raccolta di racconti novelle intitolata Autopsia e shkatërrimit (Autopsia del disastro -Europa, Tirana, 1993); Zonja e Shkodrës (La signora di Scutari -ciclo di poesie, Florimont, Tirana, 2003)
A livello più pratico e “utilitaristico” ulteriore pregio dell’antologia consiste nel suo lanciare un ponte verso l’Albania, offrendo al mondo dei lettori italiani uno scorcio storico, geografico e intimo di un paese vicino (come la poeta ci ripete nella prima raccolta “Città Admirabilis fu Epidamnus /caro Cicerone!” rievocando la Durazzo albanese di oggi), con il quale esistono rapporti antichi ma che l’ordine mondiale degli ultimi 70 anni hanno reso alieno e distante.