Sei. Alla scoperta di un maestro del nostro tempo.
Il piacere di vivere la casa e le parentele non intacca l’indipendenza interiore degli spiriti liberi ma li aiuta a radicarsi nella felicità coniugale-domestica. Le porte si aprono ad amici e ospiti in spirito di convivialità. All’esterno, la lotta continua… INDIPENDENTI.
È oggettivamente un libro brutto. Scritto male. Una scrittura patetica, sgrammaticata, infantile. Diretta. È tutto elementare. Meglio. Didascalico. È un libro per deficienti. Per subnormali. È come se in ogni pagina ci fosse scritto GUARDA CHE QUI C’È QUELLO CHE CERCHI E NON ALTROVE.
La storia è imbarazzante. Un giovane che non sa più in cosa credere, sbandato.
L’incipit: Non sapevo che fare, ero in un momento di crisi totale.
La terza riga: Avevo diciassette anni e non sapevo dove sbattere la testa. Nulla mi andava bene, mi trovavo male in ogni luogo, non mi sopportavo e non sopportavo nessuno.
Amico mio. Si chiama ADOLESCENZA. Non conosco una sola persona che non abbia provato almeno una volta in vita sua quella sensazione a quell’età. Anche per anni.
Con i miei genitori era impossibile avere qualsiasi tipo di comunicazione, in particolare con mio padre. Erano quasi due anni che avevo deciso di non andare più in chiesa.
Mi fermo. Mi viene da ridere di questo idiota e contemporaneamente monta un senso di rabbia.
Tu sei un cialtrone! Non è finita la prima pagina e già ti sei rivelato un cialtrone. Ne mancano ancora 299 e io già ti odio.
Smetto perché vorrei affrontare la lettura con meno pregiudizi, ma è molto più dura di quello che credessi.
Per me poi la lettura è un momento di piacere, o di crescita. O di svago. Seduto sul cesso. Quando sono costretto a leggere una cosa che mi fa orrore lo sento come uno stupro.
Ma è per il bene dell’umanità! Sto conducendo un’inchiesta. Devo documentarmi.
Respiro.
Vado avanti.
Sto qui, nella mia stanzetta da adolescente nella casa dei miei genitori a leggere questo libro malscritto. Sdraiato sotto i poster di Che Guevara di quando avevo sedici anni. Proprio l’età del personaggio di questo capolavoro della letteratura.
I miei sono in campagna. E io posso avere un po’ di privacy solo quando loro sono assenti.
Se mi viene voglia di invitare una donna devo farlo ORA, perché è l’unico momento che ho a disposizione. Proprio come quando ero ragazzino.
Solo che oggi ho trent’anni e non è entusiasmante calibrare le proprie scopate con gli impegni dei miei genitori.
Ma questo è il meno. Insomma.
Ho le valigie pronte da tre mesi. In realtà non le ho mai sfatte, le valigie, da quando sono qui. Vivo con i bagagli ammucchiati nella mia ex stanza da adolescente, che ora è un ambiente informe, pieno di oggetti non miei, di una madre che giustamente l’ha fatto proprio, dopo che me ne sono andato di casa.
E ora di nuovo qui tra due genitori preoccupati, che non riesco a guardare in faccia, che si angosciano perché il loro figlio maschio non trova il modo di tirare avanti dignitosamente.
Ormai mio padre dice ai suoi amici e colleghi frasi tipo:
«Eh, mio figlio purtroppo è un disoccupato.»
UN disoccupato. Nemmeno disoccupato e basta. No proprio sono parte della categoria dei disoccupati, UNO dei disoccupati. M’hanno messo il timbro.
E quella specie di tono pietoso, lamentoso, e triste con cui lo dice, mi fa venire il veleno. Non contro di lui. Contro me stesso.
E accumulo veleno che scarico ormai appena ne ho occasione. Mi rendo conto che ultimamente cerco sempre la rissa, lo scontro con degli sconosciuti che fino a qualche tempo fa non avrei minimamente filato.
Mi sono appiccicato con il proprietario di un locale a San Lorenzo perché mi ha fatto pagare sette euro una birra Menabrea da venti cl. È buonissima la Menabrea, per carità, ma gli ho dovuto urlare che è un ladro. E lui mi rispondeva male. E più mi rispondeva più mi incazzavo e cercavo lo scontro fisico. Mi hanno buttato fuori a forza dal locale.
Cazzo, devo fare qualcosa.
Il mio psichiatra dice che ho una specie di tendenza a fare il giustiziere, che estremizzo le situazioni per trovare lo scontro. Non ho capito bene che dice il mio psichiatra, perché sono sempre troppo occupato a incazzarmi e a urlare cose senza senso per cinquanta minuti. Poi, dopo che mi sono sfogato, gli stringo la mano e ci vediamo mercoledì prossimo.
Continuo a leggere le banalità di Sagramolo. C’è una parte di me che si ritrova nelle riflessioni di bassa lega di questo autore di culto. Sono problemi così generici che si potrebbe tranquillamente definirli universali, riguardano un po’ tutti.
Come gli oroscopi.
È facile accalappiare adepti facendo loro sentire che anche altri hanno avuto gli stessi turbamenti.
Grazie al cazzo! Sono i turbamenti di tutti quelli che si fanno domande. È la risposta che non va.
Da mesi continuo a mandare articoli e reportage in proposta a varie redazioni.
Apprezzo molto le risposte negative da parte dei vari redattori. Le apprezzo perché è quasi impossibile che qualcuno ti risponda. In assoluto. In genere vige la regola del silenzio. E non è un assenso.
Perciò quando uno si prende la briga di mandare due righe di risposta a uno sconosciuto, benché nelle due righe dica che «purtroppo in questo momento non abbiamo in previsione alcun tipo di collaborazione esterna», mi sembra uno dei gesti più umani e nobili che si possa immaginare.
Oggi ho ricevuto questa risposta per un lavoro in una nuova redazione online:
«Abbiamo risettato e ottimizzato la struttura del progetto e non avevo ancora chiarito meglio il target e le fasi di sviluppo.
Comunque da una prima valutazione del suo curriculum, davvero interessante, il capo ha pensato che probabilmente non sarebbe adatto al ruolo.
Lei è già ad un livello decisamente più alto rispetto all’esperienza dei redattori che stiamo valutando – e forse andrebbe anche incontro ad un calo di interesse rapido verso le tematiche che cureremo.
Sinceramente, se dovessimo affrontare progetti in cui le sue competenze possono essere adeguatamente valorizzate, sarà nuovamente preso in considerazione.»
Questo sì che è poesia. Poesia delle risorse umane.
Traduzione: non abbiamo bisogno di te, ma è colpa tua, perché sei sovradimensionato e ti annoieresti!
Siete dei geni.
Traduco un’enciclopedia della scienza dallo spagnolo. All’inizio è interessante non conoscere nulla di quello che stai traducendo. Mi pento quasi di non aver intrapreso una carriera scientifica. Chissà com’è fare il precario del CNR.
Se non sapessi che mi consente di sopravvivere mi permetterei di dire che è una delle cose più noiose che abbia mai fatto. Ormai è un lavoro meccanico. Riesco addirittura a pensare a progetti e idee per nuovi articoli mentre traduco cartelle e cartelle di definizioni scientifiche (divulgative. È una bellissima enciclopedia per ragazzi).
Ascolto Smells like teen spirit dei Nirvana. Mi ricaccio nella mia adolescenza. Già che ci sono…
Prosegue la lettura.
Dopo alcune vicissitudini e incontri fortuiti davvero poco interessanti (e poco credibili), il protagonista del libro del secolo arriva finalmente a conoscere il Maestro. A.
Esso si rivela subito un saggio, ma soprattutto trasmette un’energia enorme.
«Una sensazione incredibile mai provata prima.»
Cazzo che descrizione. Ma chi sei Tolstoj?
Leggendo questa frase mi viene in mente SUBITO la prima volta che allo stadio ho visto segnare Francesco Totti.
Una sensazione incredibile mai provata prima.
Poi anche la prima volta che ho vomitato l’anima dopo una sbronza colossale. Notevole.
Poi anche la prima volta che mi sono fatto una sega. Sempre incredibile.
O il primo pacchetto di patatine alla paprika. Incredibile.
Mi convinco che Sagramolo intenda una specie di mix tra tutte queste esperienze incredibili mai provate prima.
A pagina novanta succede una cosa straordinaria. Il personaggio narrante è argentino. Il Maestro italiano. Ma parla un ottimo castigliano e riesce persino a imitare molti accenti latinoamericani. Questo lo faccio anche io. E non sono un Maestro.
Però l’autore si sente in dovere di dire una frase del genere, subito prima di descrivere la prima riunione di gruppo:
«E si mise a imitare i differenti toni di questi paesi, questo mi impressionò moltissimo perché io ero negato per le lingue.»
Cazzo! Sei un vero guru, porcatroia! Devo ammettere che tutto questo è proprio scioccante.
Inizia una vertigine di capitoli in cui vengono tracciate le caratteristiche del Maestro. Esso è infallibile. Viene dichiarato come un assioma immediatamente.
Gli adepti sono scelti in quanto hanno delle caratteristiche particolari (che però sfortunatamente non vengono spiegate) e viene loro chiesto di seguire alla lettera alcune indicazioni del Maestro. È richiesto esplicitamente di non ribellarsi mai. Per nessun motivo. Anche se non sono d’accordo con il Maestro.
È perché ancora non possono capire, ma Esso tutto sa e soprattutto sa esattamente cosa è giusto per ognuno degli adepti.
Esso si premura di dire che molte delle cose che lui dirà non verranno capite se non al momento opportuno.
Poi l’autore sottolinea ripetutamente che il Maestro è persona estremamente simpatica, divertente e con un innato senso dell’umorismo. Io penso che anche in me nascerebbero impulsi di ilarità se sapessi che sto plagiando e manipolando gruppi di gente che mi adora come un dio in terra, oltre che farmi arricchire.
Ne ho piene le palle di questa roba. Sono le 02:18.
I miei dormono nella loro stanza in fondo al corridoio e fuori piove.
Ma non mi va di dormire. Devo fare i miei compiti. Devo leggere questo libro.
È come se domani avessi l’interrogazione. Sto regredendo insieme al grande scrittore Sagramolo.
A sedici anni la vita era: paura dell’ignoto. Insicurezza. Voglia di spaccare tutto e domande su domande.
A trenta è: paura del conosciuto. Insicurezza. Voglia di avere voglia di spaccare tutto. E rabbia perché tutti ti trattano come se avessi sedici anni.
La verità è che leggere “La vera Via” mi spaventa. Mette a nudo un pensiero che si fa strada e diventa un ciccione chiuso nella stanza insieme a me. Non posso fare finta di non vederlo.
È ciccione, sudato e si scaccola sul mio letto.
Questo pensiero ciccione è che guardandomi intorno vedo dei trentenni che vivono, pensano, si comportano e vengono trattati da adolescenti. Questo siamo. Siamo stati allenati a rimanere adolescenti. Contratto di adolescenza a tempo indeterminato.
Per poter consumare per tutta la vita come i ragazzini.
Donne e uomini che gestiscono rapporti di coppia a trent’anni come se andassero alle medie.
Affrontiamo i problemi della vita come al liceo.
Le nostre attività, divertimenti, svaghi, impegni, sono da sedicenni. Non possiamo lamentarci allora che ci si tratti così. Che i datori di lavoro, che dovrebbero essere in pensione da anni, ci considerino ancora troppo giovani, che i maestri di vita si prendano gioco di noi lucrando sulle nostre debolezze. Fanno bene. Lo farei anche io se solo riuscissi a crescere. Se solo riuscissi a non avere sedici anni.
Sagramolo mi stanca. La mia disciplina è come una bandiera. Quando cala il vento si affloscia. Devo fare altro.
Mi metto a leggere Survivor di Chuck Palahniuk.
Domani provo ad andare avanti con Sagramolo. Domani vedremo.
***
Mi chiama Massimiliano. Mi invita a cena. È invitata anche una mia amica. Una mia amica che ho conosciuto la sera alla festa sul terrazzo a San Paolo. Una amica di Ginevra. Un’amica che mi piace. Con la quale non è possibile fare sesso perché è amica di Ginevra.
E l’ipocrita etica femminile le “impedisce” di fare sesso con l’ex della sua amica.
Lei si chiama Margherita. È bella. È roscia. Roscia finta, ma una bella roscia.
Una volta siamo andati al mare insieme a Ustica. Ginevra, Margherita, io e Michele, il migliore amico di Ginevra.
Margherita è in topless a fare il bagno e viene pizzicata da una medusa. Grida. Fortissimo. Piange. La medusa l’ha pizzicata proprio su un capezzolo.
Io mi tuffo, la raggiungo e la traggo in salvo.
Sono un eroe.
Lei grida.
Mentre grida mi viene in mente una scena che non mi tolgo dalla testa. Il caldo è torrido. L’acqua è fresca e il suo capezzolo arrossato.
Ti DEVO pisciare addosso. Altrimenti io MUOIO.
«Margherita, non preoccuparti. Ora calmati. La soluzione è che ti piscio addosso.»
Non vengo preso sul serio. Tutti pensano che sia una battuta e persino Margherita apprezza il gesto.
Ero serissimo invece. Un eroe che piscia addosso alla migliore amica della sua donna. Clamoroso!
Michele suggerisce di mettere due pietre calde sul seno.
Per quale cazzo di reazione chimica al mondo il dolore dovuto a una medusa su un capezzolo diminuisce a contatto con pietre calde??
Ero già pronto a fare una bellissima golden shower a Margherita. Già mi gustavo la scena. Invece interviene Michele a rovinare tutto.
Poi un giorno Margherita si è stupita perché le ho detto che per me l’amicizia tra uomo e donna non esiste.
«Ma come? E noi non siamo amici Samuele?»
«Sì. Ma non come siamo amici io e Giorgio. Io con Giorgio non ci vorrei scopare.»
«Perché? Con me sì?? Ma sei pazzo?»
«No. È che non sono ipocrita. Sei bella. Simpatica. Intelligente. E sei una donna. Non vedo perché non dovrei voler scopare con te.»
«Ma perché sono amica di Ginevra! Anche se vi siete lasciati è una cosa impossibile. Non accadrà mai. Toglitelo dalla testa.»
«…»
L’ha detto come se davvero fosse una cosa ovvia.
Per un momento ho dubitato di me. Poi mi sono ripreso.
«Senti Marghe. Noi magari non scoperemo mai nella realtà. E per mille motivi. Non certo perché siamo amici. Anzi. Magari siamo amici perché non scopiamo. Io ti trovo attraente. È naturale. Poi si mettono in mezzo tante ragioni contestuali per cui magari non finiremo mai a letto insieme. E sarà un bellissimo rapporto. Però questo non toglie che in condizioni favorevoli io non mi tirerei indietro.»
«Sei un maiale!»
Arrivo a cena da Massimiliano alle 22:26. Massi ha preparato un’ottima pasta coi broccoletti romani. C’è Margherita e Martino, un amico di Massimiliano. Ha la faccia sveglia. Mi piace.
Dopo mangiato ci mettiamo a bere e a suonare un po’. Massimiliano non può fare a meno di esibirsi. Per chiunque sia il suo pubblico. È un animale da palco.
È creativo. Gioca. Si diverte come un matto. Il suo lavoro è giocare.
Ci mettiamo a suonare e a improvvisare con una chitarra, un piano, un jambé e un kazoo.
La serata è allegra. Distesa.
Arriva Shirin, un’amica iraniana di Margherita. Continuiamo a bere e a suonare finché i vicini non ci chiedono di smettere.
«Ok. Adesso che si fa?»
«Un’orgia, ovviamente!» è l’iraniana a parlare. Parla e ride. È una boutade da ubriaca. Ma la parola è diventata solida e ha spaccato l’aria attraversando la stanza.
Il concetto espresso da Shirin ha frantumato gli equilibri della serata. Si è diffusa una sensazione strana di tensione elettrica e imbarazzo. Sguardi smarriti e vogliosi vagano per la stanza a casaccio, mentre si ricomincia a chiacchierare di cazzate. Non è più come cinque minuti fa però.
Si è aperto il vaso di Pandora. Ognuno di noi sta pensando a una inquadratura diversa della stessa gangbang evocata dalla Persia.
Ok. allora facciamo così. Ognuno deve dire qual è la sua perversione sessuale preferita.
In che senso?
In senso orario.
Idiota.
Inizia tu.
A me piacerebbe essere legato da una donna, poi scopato. Poi slegato e incularmela. Poi darci dei baci.
A me piace essere sopraffatta. Umiliata.
A me piacerebbe menare. Dare dei pugni.
Io amo il sesso in piedi. Amo i piedi.
Io odio i piedi. Mi fanno impressione. Mi fanno schifo.
Voglio essere scopata da due maschi.
Mi piace dire le porcate.
Mi piace stare in silenzio. Sentire solo ansimare.
Mi piace stare in finestra mentre faccio sesso. Che da fuori si veda soltanto la mia parte superiore e la gente pensi che sia tutto normale. Invece sto facendo sesso.
Attacchiamo una bottiglia di Tequila reposado. È buono.
Siamo un branco di animali affamati. La tensione sessuale passa attraverso le nostre parole. Ci facciamo schermo con le nostre parole perché siamo un po’ intimoriti da quello che potremmo fare ora. Teoricamente con un altro tipo di desiderio potremmo anche uscire e andare a ammazzare di botte i barboni. Noi cinque, nella stessa formazione. Se solo questa carica invece di essere sessuale fosse rabbia.
Siamo carichi.
Decidiamo di spostarci a casa di Shirin perché lei ha altro alcol, si può mettere la musica. Ha la casa più accogliente.
Infatti sembra di stare dentro una bomboniera. Le pareti lilla. Divano bianco, sedie una diversa dall’altra. Enorme lampadario di cristallo “a cascata” stile Italia anni ’20. Profumo e fiori elegantissimi in tutta casa. Cinque persone adulte ubriache che devono fare sesso di gruppo. Senza motivo.
Le due donne si rintanano nel closet a cambiarsi per noi. Corpetti, scarpe col tacco, gonne, sottovesti.
Noi: a continuare a bere.
Massi mette i dischi. Ottima musica world. Scalda l’ambiente. Un pessimo Bacardi brucia lo stomaco. Il Bacardi fa schifo. In più la famiglia Bacardi è stata cacciata dalla Revolución dei barbudos e ora non può nemmeno dire che il rum Bacardi è cubano. Pare tra l’altro che la Bacardi finanzi attività terroristiche anticastriste per rovesciare il regime cubano.
Forse è per tutti questi motivi che comincio a sentirmi male. Sta arrivando una pezza tremenda. Per contrastarla continuo a bere. Aggiungendo succo di pera.
Entrano le donne. Finalmente femmine.
Noi: tre cani arrapati. E ubriachi.
Mi ritrovo a leccare il capezzolo di Shirin mentre un altro maschio (Massimiliano?) si struscia dietro di lei e le bacia il collo. Le mani sotto la gonna. La musica è un’evoluzione dei ritmi tzigani, mixati da un genio.
O dall’alcol che ho addosso.
Per me essere ubriachi in generale non è una giustificazione per comportamenti antisociali o per fare cose che “normalmente” non farei. Anzi. È un’aggravante.
Il mio essere ubriaco in questo contesto denota solo il fatto che GLI ALTRI potranno avere la scusa di dire «eh, dai, eravamo ubriachi.» Se io sono il solo sobrio non reggerà mai.
Continuo a navigare nella carne morbida e profumata della padrona di casa persiana. Faccio scendere le mani sul corpetto. Sulla gonna. Sulle gambe. Continuo a leccare un capezzolo, quasi mi ci aggrappo, come se fosse l’ultimo appiglio per non cadere dalla rupe giù nel baratro.
La sua fica è bagnata. Ma sopra, la testa dice «no, dai, vi prego….»
Io non capisco.
Due maschi ti circondano. Fanno quello che desideri. Ti leccano, ti accarezzano, ti baciano, ti toccano.
Continua a dire no. Mi stacco. Bevo un sorso di quella merda di rum. Ora riconosco l’altro maschio. Massimiliano balla bene con Shirin mentre io sono seduto a bere. Si toccano e si leccano. Finita la canzone Shirin mi prende per mano. Balliamo noi. Io ballo meno bene, ma la lecco meglio.
Mi gira la casa intorno. Che cazzo ci fa il lampadario sul muro viola? Però il divano bianco non sta male sul soffitto.
Mi riprendo e continuo a tuffarmi sempre più sconvolto nel decoltè generoso e morbido della regina di Persia. Massimiliano sempre dietro. Ci scambiamo di posto nel ballo. Ora non ce la faccio. Mi risiedo. Ma dove cazzo sono finiti Margherita e Martino??
Hanno tradito il patto di gruppo e sono andati a scopare DA SOLI??? che merde!
Entro in camera da letto barcollando. Margherita e Martino!! TANA!! AMMERDE!! che cazzo ci fate qua da soli??
Imbarazzo. Ridono. Si rivestono e vengono di là!!
Io però, ottenuta la mezza vittoria, non ce la faccio proprio più. Ho gli occhi di nebbia.
Il Bacardi ha vinto.
Recupero la giacca, apro la porta e rovino giù per le scale.
Il selciato di sampietrini è verticale.
Cammino senza vedere.
Raggiungo la macchina e comincio a vomitare.
Vomito tutto. Il sesso, i muri viola, la cena, la musica, l’amore finito, il rum di merda. Vomito le orge, i capezzoli, l’amicizia, la tristezza. Vomito la gente dello spettacolo, la mediocrità, il successo, i maestri di vita.
Vomito me stesso. E continuo a vomitare.
Le conseguenze delle proprie azioni. V.
Sono in libreria. Ho nelle mani un libro di Ivan Illich. La convivialità, l’opera di uno dei più grandi pensatori del novecento. Edizione Fondo de Cultura Económica. Ma in realtà non lo leggo. Sfoglio a caso.
Sto cercando di mettere insieme i pezzi. Di schiarirmi le idee. Sono passati due giorni dal mio incontro con il baratro, con il lato oscuro della “Vera via”.
Sto depressurizzando.
Entra El Santo in libreria.
Entra Blue Demon in libreria.
Entra El Mistico in libreria.
Entrano tre lottatori della lucha libre messicana in libreria.
Due dei quali in teoria dovrebbero essere morti più o meno da trent’anni.
Sono Armadi. Vestiti eleganti. Come può essere elegante un doppiopetto. Al giorno d’oggi il doppiopetto è elegante solo in America latina e a casa Berlusconi.
A una prima occhiata non sembrano intellettuali. Non sembrano fanatici di letteratura francese.
Oddio, magari invece sono studiosi di Foucault o di Proust.
Pregiudizi piccolo borghesi.
Entrano in libreria tre energumeni mascherati da luchadores e nessuno fa una piega.
Loro non si preoccupano nemmeno di fingere di essere dei clienti. Non si prendono nemmeno la briga di dare un’occhiata alle ultime novità editoriali. All’ultimo libro di Paco Ignacio Taibo II.
Filano dritti e silenziosi verso il settore sociologia.
Filano dritti e silenziosi verso lo scaffale “teologia della liberazione”.
Filano dritti verso di me.
Io sto cercando di far capire alla commessa che sono un’intellettuale italiano molto curioso delle teorie sviluppatesi in America latina e anche molto libero per la serata.
Mi sembra che lei mi abbia appena lanciato uno sguardo incoraggiante. Uno sguardo. Che io leggo senza dubbio incoraggiante. Ha un bellissimo vestito a fiori giallo, che mette in risalto il colore bronzeo della sua pelle di mestiza.
Le sue labbra carnose e umide e gli occhi nero carbone sono il mio cartellino di garanzia.
Tra un secondo mi lancio.
Tra un secondo una manona si appoggerà sulla mia spalla destra. Senza violenza. Si appoggia. Come un tricheco si appoggia sullo scoglio. È calmo, tranquillo. Solo che appoggia cinque quintali su un corpo inerte.
Lo guardo in faccia.
Guardo la faccia di Blue Demon.
Ho anche io una maschera così a casa. Me l’ha portata Giorgio dal Messico anni fa. L’ha comprata all’Arena México dopo uno spettacolo di lucha.
Io l’ho indossata al Carnevale di Civita Castellana, diventando subito il re della festa.
Bisogna saperla portare una maschera del genere.
E lui oltre a saperla portare ha anche il physique du role.
Va detto questo.
Guardo Blue Demon e lui mi prende per mano. Come un padre prende per mano un bambino dopo averlo chiamato inutilmente per mezz’ora al parco giochi.
Io lo seguo più per automatismo che per convinzione. Non ho capito bene cosa sta succedendo, ma non so perché decido istintivamente che non è il caso di contraddire papà/Blue Demon in una libreria della Condesa.
Anche perché magari lui non si incazza, ma zio El Mistico e zio El Santo forse sì.
Stanno zitti e camminano ai lati.
Usciamo in strada.
Sono le cinque del pomeriggio. La calle Tamaulipas è trafficata e piena di gente, ma nessuno mostra stupore per le tre figure mascherate e l’italiano bambino che trascinano per mano.
Si vede che questo paese ha una lunga tradizione surrealista!
Qui amava girare i suoi film Luis Buñuel, perché sosteneva che il Messico è già abbastanza surrealista.
O forse era Breton?
Comunque un grande surrealista era convinto che in Messico non c’è bisogno di fare niente.
Salgo su un Vocho bordeaux.
Vocho è come i messicani chiamano il Maggiolino VolksWagen.
L’ultima fabbrica di maggiolini ha chiuso qui nel 2003. Si producevano a Guadalajara e nonostante questo nessun messicano è mai riuscito a pronunciare come si deve questo nome teutonico. Il risultato è Vocho. Molto più amichevole e adatto di VolksWagen in effetti.
El Santo guida. Io sono seduto tra Mistico e Blue Demon. Mistico si gira. Mi guarda e tira fuori due stracci dalla tasca della giacca.
Con uno mi benda gli occhi.
Buio.
Con l’altro capisco che mi vuole bendare la bocca, visto che mi ci caccia un ditone dentro per aprirla.
Mistico si accende una sigaretta senza aprire il finestrino.
Odore di fumo.
Cazzo. Sono stato rapito!