di Giovanni Iozzoli
Francesco Migliaccio, Primavera breve. Viaggio tra i labili confini di Israele e Palestina, Monitor edizioni, Napoli, 2017, pp. 183, € 15,00
Primavera breve è un racconto di viaggio pieno di storie, facce e umanità. Ma ad essere protagonista del libro è l’idea del Confine e l’attrazione fatale che esercita sull’autore: il confine come espressione materiale e simbolica allo stesso tempo – nella divergente suggestione dell’appartenenza e dell’attraversamento. E quale luogo può esaltare il mistero polisemico del Confine, se non il Medioriente israelo-palestinese?
È un libro denso di vite concrete, dicevamo, ma tutte queste vite – le identità, i bisogni, le aspettative, i poteri – sono ordinate e informate dal sistema complesso dei confini plurimi che si sovrappongono nella Palestina occupata. E i confini non rappresentano tanto linee di divisione tra territori, quanto dispositivi che gerarchizzano e disciplinano la vita e decidono i destini: degli implacabili produttori di senso.
Il narratore non racconta molto di sé – si intuisce che è uno dei tanti cooperanti-attivisti-solidali che da decenni si recano in Cisgiordania per sostenere progetti di sviluppo e schierarsi dalla parte della causa palestinese. Ma è un’attivista riluttante, per così dire, dotato di uno sguardo acuto e disincantato, poco propenso a farsi arruolare alla causa senza “conoscere” realmente: e conoscere significa condividere, toccare, attraversare i mondi inconciliabili e sovrapposti che nell’arco di poche decine di chilometri determinano il viluppo di quella che definiamo “questione palestinese”.
È così che il protagonista racconta la sua esperienza in una famiglia di contadini israeliani nel villaggio nazareno di Zippori, per spostarsi poi a Ramallah, a Gerusalemme, fino a ritrovarsi, quasi senza esserne consapevole, nel cuore di una colonia ebraica.
Il suo peregrinare è un attraversamento continuo, spesso quotidiano, di confini di ogni tipo: confini naturali, confini storici ormai superati, confini disegnati dall’Onu, confini amministrativi, confini di fatto, tracciati dalla forza delle armi e dell’occupazione. Muri, cancelli, filo spinato, checkpoint: confini incombenti eppure misteriosamente labili, porosi, dotati di un propria flessibilità politica. Il loro grado di attraversabilità definisce status e gerarchie di chi abita quel reticolo.
Lo sguardo del narratore si posa su ogni pietra, su ogni ulivo, a contemplare l’incredibile e inafferrabile ricchezza di queste terre: etiopi vestiti come galiziani dell’800, contadini israeliani schiacciati dalle multinazionali agrotech, palestinesi rampanti che reclamano il loro futuro di mercato, coloni assai poco religiosi tristemente consapevoli della loro funzione, mano d’opera tailandese che nei campi sostituisce l’insofferente forza-lavoro palestinese.
Ovunque una rassegnata ineluttabilità, una specie di destino comune tra nemici affini, in cui le vite e le storie sono condannate a condividere il medesimo spazio geografico agitato dai flussi della storia.
E sulla storia ci cammini sopra, da quelle parti, letteralmente. Non solo la storia arcaica di profeti e patriarchi, ma la storia violenta e struggente che sta dietro l’angolo della nostra memoria.
Passeggiando tra gli ulivi, il protagonista scopre che il paese attuale di Zippori sorge sulle rovine nascoste del villaggio arabo di Saffurya, che indietro nei secoli fu la città bizantina di Sepphoria. Nel 1948 gli israeliani distrussero il villaggio arabo, radendolo al suolo. Al suo posto pietre e ortiche e, un po’ più in là, il parco archeologico con un piccolo museo:
gli oggetti raccolti – monete, ceramiche – dimostrano che prima dell’ Esilio, il villaggio fu abitato dagli ebrei. Sui pannelli ho letto: 538. Cyrus of Persia allows the Jews to return from Babylonia… 70, The second temple is destroyed. La lingua ebraica scorre parallela all’inglese… L’archeologia si ammanta d’un velo di neutralità e dispone il tempo lungo una linea retta… Ogni reperto può diventare la testimonianza per una narrazione delle origini secondo un intento politico figlio della contingenza (p. 45)
È una terra in cui ognuno rivendica radici millenarie, ma nella quale tutte le identità sembrano posticce e tutti vorrebbero essere altro da ciò che sono, plasmando lo spazio urbano e geografico a misura della loro inquietudine. Poco lontano da Gerusalemme:
la terra mediterranea si è magicamente trasformata in una foresta pregna di nostalgie mitteleuropee… Qual è la patria anelata, qual è la Heimat di questi ebrei ritornanti? Sono i boschi della Germania, della Polonia, la foresta abitata dal bufalo lituano? L’Europa lasciata? Il paesaggio della foresta di Gerusalemme è un incrocio di desideri: un’Europa abbandonata che ritorna nella terra promessa per secoli abbandonata (p. 91)
L’autore-narratore, fedele al suo imperativo di “camminare attraverso” si ritrova a Ramallah in una delle settimanali manifestazioni contro il Muro, a succhiare la sua razione di fumo di lacrimogeni tra l’indifferenza di gran parte della popolazione locale e l’eccitazione degli “internazionali”. Le domande sorgono implacabili, oltre il politicamente corretto del “viaggiatore solidale”:
Voglio dirvi che la Palestina è un mercato a riposo forzato, e so che qualcuno ha iniziato a capirlo. Prevedo che la Palestina sarà uno stato libero, in un futuro non troppo lontano. Vi sarà libertà d’impresa e di scambio, libertà di importare merci e di costruire. Ho l’impressione che noi immaginiamo questo posto come la nazione della fionda, della kefiah, dell’Intifada, delle pietre contro gli occupanti. Io ora vedo Rawabi, una città costruita in pochi anni grazie ai fondi del Qatar: agglomerato di vetro e cemento nato su una collina che un tempo era terrazzato a ulivi. Vedo un campus universitario immenso, ancora in costruzione, e vedo il centro storico restaurato con guest house e vie abbellite con opere di artisti occidentali. Sono luoghi ancora deserti ma in attesa di esplodere (p. 109)
A Gerusalemme egli respira l’aria sospesa del Ramadan nei rioni arabi; poche centinaia di metri più in là, in un quartiere ultraortodosso condivide le ritualità ebraiche con uomini e donne che non si sentono israeliani e considerano il sionismo “un’eresia moderna”.
Confini su confini, contraddizioni su contraddizioni, e il povero cooperante occidentale, stranito, colto, dubbioso e aperto a ogni esperienza, giunge al culmine del suo viaggio dentro questo groviglio bio-politico: una colonia ebraica nella West bank, nei pressi del fiume Giordano. Qui l’occupazione si rivela nella sua nuda brutalità. E anche nella sua povertà, nella perdita progressiva di quell’aura di feroce entusiasmo, di quel sapore di epopea che si collega di solito alla parola “colono”: questi coloni sono poveri, consapevoli di rappresentare coi loro insediamenti, con la loro nuda esistenza, l’avamposto politico di Eretz Israel.
Questa vita diafana da fantasmi barricati in stanze con condizionatore è l’esito del sogno sconsiderato di Israele: avanzare in territorio nemico, dare una terra ai senza terra, usare i corpi dei senza terra per tenere le posizioni (p. 170)
Niente di eroico, sono la prima linea e basta. Fatica, terra, sudore, concessioni governative, costante protezione militare dentro un’enclave blindata e povera di vita, un futuro inafferrabile all’orizzonte. Il narratore sa che sono “oggettivamente” nemici di ogni coesistenza: se arrivasse la pace perderebbero tutto, la terra e il loro ruolo nella società israeliana. Quanti, da quelle parti, vivono sperando che il giorno della pace non arrivi mai?
Un bel libro, non scontato, dalla scrittura sobria ed elegante. Uno sguardo diverso, leggermente obliquo, sugli stereotipi “orientalisti” attraverso cui spesso, anche a sinistra, si legge il conflitto israelo-palestinese.