Si va in vacanza, al ritorno dalla quale avremo la possibilità di accedere a un nuovo, sbalorditivo capolavoro di Antonio Moresco: la seconda parte dei Canti del caos, questa volta pubblicato da Rizzoli, nuovo editore di Moresco. Non ho avuto il privilegio di leggere in stato di manoscritto questa seconda tappa della cosmogonia più sconcertante degli ultimi trent’anni di letteratura italiana. Ne ho sentito soltanto parlare. Un amico al telefono descriveva una scena del nuovo Canti del caos: “C’è uno che sta morendo e si chiama Lupus, ci sono delle modelle che escono dal tempo, quindi accelerano, lo spaziotempo si rattrappisce e contrae, quindi le modelle sono immobili eppure stanno procedendo a una velocità maggiore della luce, poi vanno a sbattere nuovamente contro il muro del tempo, è uno schianto”. Ci manca tanto lo stile di Moresco, che deve avere realizzato un mezzo miracolo con un’immagine simile. Ma appunto è lo stile di Moresco di cui si vuole qui trattare: uno stile che non è più lingua, ma visione, spalancamento di porte imaginali, la reincarnazione di Giordano Bruno nell’era hi-tech.
Ha scritto dei primi Canti del caos Tiziano Scarpa: “I Canti del caos spalancano interi universi dirigendosi inflessibilmente verso il punto di fuga della scrittura: è lì che Moresco ci conduce, nel punto d’origine di ogni fioritura, nel cratere che partorisce la visione, dove le forme sono in tensione, in sofferenza, dove il visibile è osceno e coincide con l’invedibile, con l’accecante e l’intollerabile. Chi non ha paura di rimanere ustionato vedrà sbocciare davanti ai suoi occhi storie e personaggi che non dimenticherà mai: una Musa, un ginecologo spastico, una ragazza dal flusso mestruale esondante, un vecchio con una paresi masturbatoria, l’intero staff di un’agenzia pubblicitaria… La fantasia che sgorga dai Canti del caos è crudele, e disperata della propria crudeltà”. Non soltanto concordo totalmente con questa definizione ambigua, eccentrica e tragica del libro di Moresco. Vado anche oltre: è sicuro che il futuro narrativo di Antonio Moresco si riassume nell’abbattimento, nel superamento per salto quantico e nell’oblio che tutto tiene in sé di quest’opera di rappresentazione dell’irrappresentabile, che è poi la radice autentica dell’autentica letteratura. Perfino la visione, lo sconfortante approdo alle meraviglie dell’ultraspazio e dell’ultratempo, l’immersione nella sorgente multicolore dell’universo – perfino quest’opera altissima, che nessuno tranne Moresco e Zanzotto da anni tenta in Italia, dovrà essere dissecata dopo essere stata magnificamente irrorata. Sarà la frontiera della letteratura contemporanea al suo apice: perché è quella la destinazione polare del viaggio ipernarrativo che Moresco sta compiendo in questi decenni.
Eccesso di narrativa chiama eccesso di giudizio critico, cioè l’uscita plausibile, rischiosa, storta e sbagliata dal campo critico. Compiere quest’operazione critica, del tutto parallela a quella narrativa e poetica che i Canti del caos portano a esasperazione, significa sottoporsi a quella che Carl Gustav Jung chiamava enanziodromia: corsa tra gli opposti. Per questo, Moresco è tanto odiato da certa critica e tanto amato da certa altra. Non ho dubbi nello schierarmi tra i partigiani di quest’ultimo schieramento. Sostengo che, se è vero che DeLillo e Pynchon e Roth e Oates al momento sono tra i massimi scrittori mondiali, l’elenco deve includere almeno anche Moresco e Houellebecq, con l’autore degli Esordi che però svetta quale autentico boxeur metafisico di razza europea, alla pari proprio con DeLillo e Pynchon. A differenza di Roth e Oates, infatti, ed esattamente come DeLillo e Pynchon, Moresco sbriciola ogni differenziazione di giudizio critico, ogni categoria usabile e abusata (nel caso di Pynchon, provate a parlare di contaminazione e generi, e sarete ridicoli; nel caso di Moresco, idem). Moresco esige una renovatio: quella della teoria della letteratura. I migliori scrittori contemporanei esigono questo refresh, questo upload della teoria. La critica del nostro tempo non pare rispondere a una simile, decisiva esigenza.
Lo stile di Moresco è molte cose: è un ritmo che, a tratti, anche grazie all’utilizzo estensivo di certi tropi retorici, è capace di assumere la delicatezza e la pastosità di certe prose poetiche – soprattutto, e non è poi così sorprendente, dello Char tradotto da Sereni, quando si entra in certi sussurri alti, un’altezza da cui si guarda il mondo in stato di stupore, dall’alto appunto e dall’esterno: lo testimoniano gli inediti della seconda parte dei Canti del caos, come il pezzo sui feti strappati all’utero dal vento, volanti in afflato e delicatezza come palloncini in cielo, legati al pianeta dai cordoni ombelicali. Quando invece cerca di esplorare la faglia geologica del tragico, Moresco utilizza altri stilemi, altri ritmi, altre disfonie: e spesso si appoggia alla tradizione del postromanticismo alla Trakl e alla Benn, due riferimenti centrali se si vuole comprendere da dove provenga quello scatenamento di immagini che fanno collassare il corpo umano e l’universo, in un delirio profetico che si innerva nel biologico e nel paradosso della scienza quantista.
All’interno di questo spettro stilistico, che per Moresco appare come pura occasione di dicibilità (come se dicesse: lo stile non è sostanza, o almeno non lo è lo stile che avete in mente voi), egli opera una separazione con mezzi nuziali. Antichissima operazione a cui Pynchon ha esplicitamente lavorato in Mason & Dixon: la mappatura che divide unendo, il confine quale rappresentante in terra dell’assenza di limiti nell’universo e l’universo stesso come domanda di un’ultrapsiche sui limiti della materia e della mente. La domanda su chi percepisce la totalità è il motore a moto perpetuo che sostanzia l’epica psichica di Moresco. Poiché di questo si tratta, soprattutto nei Canti del caos: è un’epica perché è la narrazione essenziale della comunità umana contemporanea che aspira a riconnettersi con un’universalità umana che prescinde dalle ere; ed è psichica, poiché la visione è sempre un fatto psichico, cerebrale e più che cerebrale. Osservate attentamente da quale prospettiva, non soltanto titanica e prometeica, Moresco racconta dei cicli naturali, dei cicli della dissennatezza economica, del comunicare in epoca attuale, del sesso e dell’oscenità e dell’amore, della morte superata in un’accelerazione materiale che spinge fuori dallo spazio e dal tempo: il punto di fuga di tutto questo racconto, mondano e cosmico al tempo stesso, è sempre la psiche, è sempre l’avvertimento che l’io non è tutto (e non è semplicemente superabile in larghezza, dal noi, ma è assorbibile anche in altezza, da una coscienza che è una sfera più ampia che contiene la biglia dell’io).
In poche parole: questo è l’umanesimo del nostro presente. Quello di Pynchon e DeLillo e Moresco. Non c’è da scandalizzarsi per questo accostamento. Non esiste irriverenza in un simile podio. Soltanto chi ancora pensa allo scrittore circonfuso da un’aura sacrale può scandalizzarsi se si mettono sullo stesso piano le scritture di Gravity’s Rainbow e dei Canti del caos. Che sono, per l’appunto, la stessa cosa: ciò che sorpassa la “cosa” per eccesso di luminosità e cecità.
Moresco è la figura che abbatte lo standard in cui il tempo presente pretende di incatenarci. Dobbiamo ringraziare per questa dissennata difesa dell’umano, che egli compie con una necessità e una magistralità tutte umane.
Appena tornate dalle vacanze, correte in libreria, acquistate la seconda parte dei Canti del caos e leggetela con furia famelica. Vi farà bene e vi farà male: cioè vi farà.
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