di Giovanni Iozzoli
Oreste Scalzone, Pino Casamassima, ’77, e poi…, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 336, € 20,00
’77, e poi… è uno dei libri di riflessione sul movimento del Settantasette che riscuoterà più attenzioni, anche in ragione della grana umana e politica dell’autore: a Oreste Scalzone non piace la memorialistica autocelebrativa e si porta dentro, a differenza di altri protagonisti di quell’epoca, un’inquietudine irrisolta che lo colloca fuori dalla schiera paludata dei “testimoni” o dei tromboni da commemorazione.
La scrittura di Scalzone non è sempre agevole: procede rapsodica, tra rimandi, domande, parentesi che non si chiudono mai – come se l’autore cercasse continuamente di forzare il linguaggio editoriale tradizionale, troppo povero (rispetto alla ricchezza della narrazione orale) e inadeguato a raccontare quell’esplosione di vita e potenza che fu il ’77 italiano.
La biografia dell’autore è il filo d’Arianna che attraversa un’intera stagione della nostra storia. Scalzone compie giovanissimo il viaggio che fu di molti, dalla sinistra tradizionale verso nuovi sconosciuti approdi: dalla FGCI ternana a Valle Giulia lo spazio geografico è poco ma il salto è epocale e generazionale. Il suo imprinting “ortodosso” non lascia molto spazio alle suggestioni dell’epoca: poco Foucault, poco Lacan, poco Reich, molta attenzione alla scoperta del comunismo critico, del consiliarismo tedesco e olandese, di tutti i marxismi eretici, così minoritari nella togliattiana provincia italiana – fino all’incontro decisivo con lo straordinario laboratorio operaista, nel pieno del suo fulgore teorico.
Il racconto rimbalza da una tappa all’altra di quella lunga stagione che comincia nel ’68 e culmina nel sequestro Moro. In un processo di accumulo di conflittualità che dura quasi un decennio, il Movimento non è rappresentabile in termini di esplosione quanto di necessario epilogo. E del resto, da dove far iniziare (convenzionalmente) una cronaca del ’77?
Scalzone sceglie la straordinaria giornata romana del 12 marzo: centomila in piazza di cui – sottolinea l’autore due volte in poche pagine – almeno 5000 armati. Non è un dato statistico: serve a Scalzone per ribadire quanto fasulla sia la narrazione di un ’77 diviso tra “lottarmatisti” cattivi e “movimentisti” buoni; in larghi settori di movimento in quei giorni è aperta la tematica dell’iniziativa armata – ci si divide, caso mai, sulla sua centralità, sul carattere strategico della clandestinità militare, sul rischio che trascini il conflitto sociale sul terreno della militarizzazione, in opposizione a un processo di contropotere i cui tempi di maturazione sono dettati dai rapporti di forza tra le classi e la “critica delle armi” deve piegarsi al servizio di questi passaggi di massa.
E poi l’assassinio di Francesco Lorusso, uno dei tanti giovani che in quegli anni (Walter Rossi, Giorgiana Masi…) lasceranno sul selciato insanguinato la loro voglia di libertà. E il Convegno di Bologna sulla repressione: Scalzone è tra i promotori della decisione politica, di non trasformare quelle giornate in un assalto alla cittadella della socialdemocrazia – un ultimo tentativo di sottrarsi ai ghetti e alle trappole, di offrire un immagine del movimento non condannato all’automarginalità, una decisione politica lungimirante che “passa” trasversalmente (nonostante le profonde fratture interne fra le diverse componenti organizzate).
Il tema della violenza attraversa tutto il libro, come un’interrogazione implacabile e sempre aperta. Le riflessioni di Scalzone in materia sono di una franchezza estrema, niente a che vedere con il politicamente corretto di alcuni suoi pacificati coetanei:
liberazione, autonomizzazione e comunanza son tutte cose che implicano sovversione e, senza eccezione, gli eventi storici implicano che la guerra c’è, latente, occulta, ed essa è a senso unico, guerra dall’alto verso il basso, se a un certo momento una guerra sociale di liberazione non incarna la forma necessaria del movimento. (p. 49)
La “violenza”- come sempre nella storia – è solo il prodotto della discesa in campo di larghe masse, nel tempo accelerato del ciclo di modernizzazione/crisi di questo paese, che si consuma nel breve volgere di un quarto di secolo.
Il ’77 a molti fa ancora paura e contro di esso viene cinicamente “giocato” anche il ’68 in una stucchevole opposizione tra festa creativa e violenza cieca. Infatti, secondo l’autore, è proprio il carattere selvaggio del movimento, non riconducibile agli schemi tradizionali, espressione della potenza di un corpo sociale e di un’intelligenza collettiva che cercano di liberarsi in modo caotico dai ceppi della valorizzazione capitalistica, a renderlo ancora oggi indigeribile a molti.
Non è la “quantità” di violenza in discussione: ma il fatto che essa non sia programmata e gestita da alcun centro di “nuovo potere”, da nessuna prospettiva di nuova statualità (ci proveranno le Br, con esiti infausti). Potenza produttiva, potenza creativa e potenza antagonista si inseguono caoticamente dentro la prima grande crisi del capitalismo (ormai maturo) italiano.
il Settantasette è la prima grande sollevazione sociale interna alla società del capitale mondiale integrato, alla società post-fordista globale e, se si vuole, al dominio reale del capitale. Il Settantasette è il primo movimento di contestazione che ci sia contemporaneo (p. 145)
È quindi questa l’anomalia selvaggia del ’77: il primo movimento rivoluzionario occidentale, in una società capitalistica a democrazia politica, nell’epoca della fine della centralità del lavoro: e quindi il primo movimento contro il lavoro (con tutti i drammatici fraintendimenti che questa posizione reca con sé).
Le vicende quotidiane – la militanza, il ritmo crescente degli eventi, i drammi dei morti e delle carceri speciali – scorrono come una cronaca in diretta. E in controluce i nodi irrisolti delle grandi questioni teoriche che quegli eventi sollevavano: non si riuscì, allora, ad evitare lo schiacciamento tra le posizioni di idolatria militarista e una pratica di massa costretta a radicalizzare sempre di più le sue forme per “reggere il gioco” e non ritrovarsi marginale.
Lavoro clandestino o iniziativa sociale, fucile o megafono, agire di partito o dimensione orizzontale: in particolare nelle organizzazioni dell’autonomia operaia, questi livelli si inseguono e si ingarbugliano, fino all’implosione – in un tentativo generoso di tenere insieme le “antiche” suggestioni insurrezionali (le memorie bolsceviche e fochiste sono ancora egemoni, nel ’77) con nuove pratiche di massa all’altezza di una mutata composizione di classe. Un equilibrismo quotidiano tutto da inventare – «tra il sublime e il demenziale» – che non poteva reggere a lungo, nella specifica condizione italiana di fine decennio.
Ma non è solo questione di prassi. Tutto il patrimonio teorico del comunismo ortodosso inizia a barcollare, centinaia di migliaia di giovani cominciano a sentirsi non “traditi” ma estranei al Movimento Operaio ufficiale: la cacciata di Lama non è un oltraggio al Padre, ma il respingimento dell’invasione di un esercito nemico. Secondo Scalzone è in questa stagione (ben prima dell’89) che tutto il maestoso monumento del marxismo “statualizzatosi” – da Lassalle a Breznev – comincia a mostrare le sue crepe. Il nuovo movimento “antioperaio” (Dio ci salvi dai fraintendimenti lessicali…) comincia a porre sul tappeto la questione della negazione di sé come proletariato, non della sua emancipazione. Un passaggio teorico e pratico mostruosamente complesso, eppure agito con semplicità, ai livelli di massa della nuova composizione sociale, scolarizzata, colta, velleitaria e piena di diffidenza circa i paradisi socialisti del futuro.
Evocare il rifiuto del lavoro nei giorni attuali (in cui un posto di lavoro sembra diventato l’obiettivo più agognato della vita ) può apparire lunarmente incomprensibile per un giovane proletario di oggi che più che altro si sente “rifiutato” dal lavoro, percependosi come eccedenza senza valore. In questo, il sistema ha dimostrato una demoniaca capacità di assumere le parole d’ordine del movimento – pensiamo anche alla parità di genere, alla questione dei diritti individuali, all’evocazione di una “giustizia più giusta” – per cavalcare un drammatico rovesciamento di senso e di segno, di quelle allusioni. Volete la liberazione dal lavoro? Vi daremo la precarietà di massa e la vostra stessa vita diventerà un continuum di tristissimo e inafferrabile lavorio produttivo.
In ogni argomentazione affrontata, aleggia l’interrogativo: siamo sideralmente lontani o piuttosto insospettabilmente vicini a quel mondo, a quella stagione e a quelle tematiche? Entrambe le cose. Scalzone non crede e non auspica la riproducibilità delle forme di quel moto, ma legge in esso tutti i semi che risultano adesso pienamente maturi, dentro la nostra modernità: il ’77 come esplosione, precoce e anticipatrice, di ciò che oggi, come condizione sociale, si mostra già pienamente dispiegato. E che compone un quadro di crisi antropologica, globale, dell’umano – oltre che del sistema capitalistico.
Tra i documenti in appendice, un livido editoriale di Rossana Rossanda che invita a «difendersi dall’infezione» dell’Autonomia Operaia, frammenti d’assemblee d’antan, un profetico appello promosso da Scalzone per il “diritto d’interferenza” da parte del movimento nella trattativa Stato-Br, per sottrarre Moro (e le stesse Br) a un esito drammatico e prevedibile che avrebbe mutato irreversibilmente i destini di tutti.
Il volume, primo di una trilogia, è curato dal gionalista e saggista Pino Casamassima e si apre con una prefazione di Erri De Luca. Un libro da leggere, senza dubbio. Che anzi andrebbe letto insieme ad un altro importante testo scritto da Carlo Formenti – La variante populitsta (Derive Approdi, 2016) – a suggerire quasi un controcanto disincantato contro ogni tentazione “romantica” e “mitopoietica” su quella stagione, sulla sua ricchezza, ma anche sui suoi sbracamenti teorici che proseguiranno fino ai giorni d’oggi.
Oreste Scalzone non è mai stato reticente sulla sua vita e la sua storia. Ha provato a scrivere un libro non per addetti ai lavori: dietro quelle infinite parentesi aperte sulla memoria, brucia la curiosità intellettuale di un giovanissimo settantenne, dallo sguardo mai pacificato. I rivoluzionari non vanno in pensione, si diceva una volta: è per quello che la loro scrittura, a volte, lascia sulla carta parole di verità.