di Franco Pezzini
In un sito che si chiama come questo, sarebbe impossibile non ricordarla. Ingrid Pitt, la più nota Carmilla del cinema, ha chiuso gli occhi il 23 novembre in un ospedale londinese — appena compiuti i settantatrè anni, e a distanza di poche settimane dalla scomparsa del regista che per la Hammer l’aveva diretta in quel ruolo, Roy Ward Baker. In The Vampire Lovers (Vampiri amanti), 1970, il velato accento polacco — era nata a Treblinka, il 21 novembre 1937 — e una certa teatralità tra il malinconico e il melodrammatico fanno parlare di lei come di un Bela Lugosi al femminile. E in effetti le apparizioni dell’attrice in contesti gotici — non numerose, ma fondamentali — bastano a consacrarla tra le Queen of Horror più carismatiche ed effervescenti.
Quando riceve la parte di Carmilla, l’attrice ha alle spalle una vita drammatica e avventurosa. Per l’anagrafe Ingoushka Petrov, è figlia di uno scienziato che rifiuta di collaborare ai piani missilistici nazisti e di un’ebrea polacca. A cinque anni — e per i successivi tre — vive prigioniera nel campo di concentramento di Stutthof; ma portate nella foresta per essere fucilate, le due donne riescono a fuggire e sono accolte tra i partigiani. Con il nuovo regime, incontriamo Ingrid a Berlino Est impegnata in lavoretti per i Berliner Ensemble, decisa a divenire attrice: il suo capo, Helene Weigel vedova di Brecht, salva varie volte dall’arresto la giovane poco prudente nelle proprie opinioni sul regime. Quando le cose si mettono male, la sera stessa del debutto in teatro, Ingrid sfugge alla Volkspolizei con ancora il costume addosso — e dopo un tuffo nella Sprea trova la salvezza, un bagno caldo e un po’ di brandy in un bordello dal lato occidentale. Dopo una parentesi matrimoniale americana con un militare, torna però nel Vecchio Mondo e appare con piccole parti in vari film spagnoli — l’unico dei quali ad avere risonanza all’estero è El sonido de la muerte (Prigionieri dell’orrore), 1964. Dove recita a fianco di Soledad Miranda, futura e indimenticata interprete di vampire per Jess Franco: e saranno proprio Ingrid e Soledad — seguite certo da altre celebri colleghe, ma mai eguagliate per presenza scenica — ad annunciare quell’Età d’oro delle vampire lesbiche (come è stata definita) che vede Carmilla imporsi nella nuova galleria teratologica di massa.
Dopo altri piccoli ruoli da un lato e l’altro dell’Atlantico (compreso però il leggendario Doctor Zhivago, 1965), Ingrid ha infine la ventura di entrare nel cast di Where Eagles Dare (Dove osano le aquile), 1968, con la parte interessante dell’agente Fräulein Heidi: ed è questo film che la fa notare agli ammiragli Hammer. Di una Hammer in profonda ridefinizione, e ormai negli anni del crepuscolo: anche se tale stagione tanto criticata mostra in realtà una vitalità e una capacità spregiudicata di conciliare tradizione e novità (i connubi tra vampiri e cappa-e-spada, o persino col kung-fu), con una fantasia che agli occhi odierni ha dello sbalorditivo. È in questo contesto che Roy Ward Baker — oggi è giusto ricordare anche lui —, il successore insieme più autentico e più sovversivo di Fisher, vara l’accesso di Carmilla al pandemonium Hammer. Illuminanti a questo proposito le pagine critiche di Teo Mora: quasi in consonanza con le tesi anarchiche dell’antipsichiatria inglese, solo in apparenza Baker aderisce alla separazione fisheriana tra mondo dell’Ordine e mondo del Caos, corrispondenti alla dicotomia Quotidiano / Soprannaturale. E rovesciandone il segno in termini provocatori — “follia” liberatoria / normalità repressiva — permette una lettura completamente rinnovata del mostro. Ma è Ingrid Pitt / Carmilla, con la sua educazione sentimentale e sessuale delle giovani ospiti-vittime, a compiere l’opera: offrendo alla vampira una dignità torbida e complessa di personaggio (e una simpatia, il che non è poco) ben oltre i limiti delle battute concessele, e tale da consacrarle un posto nella galleria di figure esemplari Hammer, nell’ambito di una mitologia di fortissimo impatto popolare.
Certo in The Vampire Lovers Carmilla non è l’adolescente di Le Fanu ma una giovane donna dall’aggressiva sessualità, in grado di sedurre e distruggere chiunque possa scoprire la sua vera natura. Eppure, al di là di questa e altre licenze, la versione bakeriana riesce a conservare la radicale ambiguità originaria delle figure e della vicenda, offrendone una lettura rispettosa e avvincente: dove anche la sensualità (non volgare né scontata, anche se sostanziata in nudità e atti erotici che il testo non conosce) non tradisce lo spirito originario. E se il ruolo della vampira non si logora negli opposti schemi del mostro ciecamente malefico o della semplice vittima della repressione maschile, una fedeltà parallela riguarda i “buoni vecchi” che la distruggono: a partire dal gentile Peter Cushing / generale Spielsdorf orbato della figlia, che provvedrà a impalamento e decapitazione rituali della funesta ospite. Con le loro spade falliche, Cushing e compagni ben riflettono la stessa dialettica tra dolente umanità e violenza vampiresca che caratterizza i patriarchi del racconto; e l’inquadratura con la giovane ormai indifesa e pronta per essere giustiziata, la testa brutalmente sollevata dalla mano del generale, reca un innegabile sapore di sadismo. Certo, i patriarchi tutori dell’ordine sono figure umanissime trascinate dai lutti alla brutalità, mentre l’eroina-vittima vampira sa attaccare e uccidere con gelida ferocia. Ma tale duplice solidarietà nel segno del tragico rimanda in fondo direttamente a Le Fanu e alle tensioni irrisolte di Carmilla — un testo che sembra sfuggire al lettore e all’autore medesimo, denunciarne i nervi scoperti, mettere in imbarazzo i nostri schemi culturali e cattive coscienze. E se la Hammer ha all’epoca motivi spregiudicatamente pragmatici e non certo libertari per cavalcare i temi della devianza sessuale e di una vivace dialettica erotica, dell’oppressione sessista e di una violenza (moderatamente) splatter, nei fatti, e grazie anche alle mezzetinte interpretative di Pitt e Cushing, The Vampire Lovers mantiene ancora a una visione odierna un’affascinante carica provocatoria. Se la pellicola costituirà anzi il protofilm di un’intera saga Hammer dedicata ai Karnstein e Pitt non parteciperà ad altre puntate, al contempo però rifiuterà varie offerte per film di vampiri banalmente erotici.
L’anno successivo, comunque, Ingrid colpisce ancora. Sempre per la Hammer la ritroviamo infatti in Countess Dracula (La morte va a braccetto con le vergini), 1971: l’opera che più direttamente consegna all’immaginario del cinema popolare la storia della Contessa Báthory, tra le innumerevoli sul tema che in quegli anni pare ossessionare i registi. Non a caso, il titolo un po’ fuorviante (che sembra alludere a una nuova puntata del ciclo sul Conte transilvano) costituisce oggi il soprannome con cui la Contessa Sanguinaria è meglio conosciuta nei paesi anglofoni. Girato dal regista Peter Sasdy e prodotto da Alexander Paal — entrambi ungheresi espatriati — su sceneggiatura di Jeremy Paul dalla fantasiosa biografia di Valentine Penrose (1962, tradotta in inglese nel 1970), Countess Dracula romanza melodrammaticamente la vita della nobildonna sulla falsariga delle vecchie voci in materia di cosmesi col sangue. Il clima claustrofobico è costruito non tanto sul tema dei crimini della protagonista — lo sguardo resta quello disinvolto di lei, per cui la morte delle serventi costituisce un dettaglio irrilevante — quanto sulle improvvise impennate di una vecchiaia sempre più rapida e disfatta: l’attrice alterna dunque sequenze in cui appare vizza e ingrigita con altre di splendore, nel fulgore di una bellezza cui il termine “sexy” (speso ancora largamente nelle commemorazioni di questi giorni) non offre giustizia. Certo, Ingrid Pitt è stata una delle attrici più sexy della sua stagione, ma in realtà molto di più: la sua bellezza è supportata da un carattere, uno spessore e un’intensità memorabilmente prestati ai ruoli. Come questa terribile Contessa; e se vengono sostanzialmente rimosse le implicazioni omoerotiche del caso Báthory (qui la donna si barcamena anzi tra due amanti uomini, l’anziano Dobi e il giovane Imre), la contiguità cronologica tra Countess Dracula e il ciclo Karnstein della Hammer e l’interpretazione vampirescamente cinica e fatua della mattatrice finiscono col confermare un forte legame tra le due saghe.
Ormai Ingrid è la vampira. Tanto più che in quello stesso 1971, poco prima di Countess Dracula, è stata arruolata in una produzione della casa rivale della Hammer, quella Amicus che ha portato in Inghilterra uno stile all’americana molto più fumettistico, e si è specializzata in film a episodi. Come appunto The House That Dripped Blood (La casa che grondava sangue) di Peter Duffell, costruito collegando quattro storie di Robert Bloch: e Ingrid compare nell’ultimo episodio, il grottesco The Cloak, impegnata nella caricatura di se stessa — sia come diva di una-casa-di-produzione-di-pellicole-horror (la Hammer, ovvio) sia come succhiasangue. Troviamo dunque la sua sofisticata, elegante e seducente Carla Lynde concedersi una rivincita a suon di canini sul collega specializzato in film vampireschi — interpretato, per il rifiuto di Christopher Lee, dal più modesto ma godibile Jon Pertwee. In altri episodi compaiono però Lee e Cushing, e il film è l’unico, curiosamente non-Hammer, a riunire in scampagnata i tre attori-simbolo della Hammer stessa.
Se poi consideriamo che Ingrid tornerà un paio d’anni dopo, con un ruolo di contorno ma significativo, in quel capolavoro assoluto dell’horror che è The Wicker Man di Robin Hardy, 1973 — con Lee come mattatore, e ci manca poco che entri anche Cushing, che deve però rifiutare la parte per altri impegni — è agevole comprendere come l’attrice possa a quel punto vantare una statura di simbolo nell’immaginario horror. Ma non solo nell’horror, a scorrere la lista delle interpretazioni in film fantastici, thriller e commedie, produzioni televisive e anche teatrali di svariato genere; e il diradare, nel decennio successivo, delle sue apparizioni su schermi e palchi, apre una vivace stagione di scrittrice, commentatrice (anche politica) e imprenditrice della propria immagine. Il suo sito, Pitt of Horror, diviene il portale di un dialogo costante coi fan, pragmaticamente aperto al merchandising. L’ultima apparizione su schermo, l’intrigante Sea of Dust, 2008, sarà però ancora un tributo agli horror degli anni Sessanta e Settanta; e qualche mese prima di morire, riuscirà a chiudere la narrazione di Ingrid Pitt: Beyond the Forest, un cortometraggio animato sulla sua esperienza coi nazisti, di uscita prevista nel 2011.
Quando scompare qualche volto noto, si scatena all’intorno una nobile gara a manifestare quanto strettamente gli si era legati, se ne veniva apprezzati e si era importanti per la sua vita. Al contrario, devo ammettere che la mia conoscenza personale di Ingrid Pitt si limita a un modesto scambio di biglietti in occasione dell’invio di un volume su Carmilla. “As you may know” scrive (9 aprile 2001) “there has been a number of attempts to redo Le Fanu’s Carmilla but they all seem to get lost along the way. I have three times been offered the part of the Countess, Carmilla’s guardian, and I still hope that some day some one will get it together”. Purtroppo nessuno di tali progetti conoscerà concreti sviluppi. E conclude: “In the meantime I am happy to see you are keeping the flag flying” — una frase che abbraccia, mi pare, tutti noi che ci ritroviamo all’insegna di Carmilla.
Ha chiuso gli occhi, ho scritto all’inizio — ma ci aspettiamo quasi che li riapra, come la bellissima vampira dal suo sonno. E al di là delle convinzioni personali di ciascuno su cosa possa seguire questa vita, una forma di sopravvivenza è certa: perché Ingrid Pitt, Contessa Karnstein, non la dimenticheremo mai.