di Marco Belpoliti
Nel 1972 Andy Warhol prese la foto ufficiale del presidente Mao, appesa in ogni ufficio della Repubblica popolare cinese, o recata in corteo dai suoi sostenitori occidentali, e ne tirò una serie su tela utilizzando la tecnica serigrafica; quindi iniziò a intervenirvi con colori acrilici: violetto, azzurro, rosso, verde. Diciannove anni dopo Don DeLillo intitola Mao II il suo nono romanzo. Che rapporto c’è tra il ritratto replicato del presidente Mao e la storia dello scrittore Bill Gray, grande “scomparso” della letteratura americana, che si dissolve a Beirut, dove si è recato per salvare un giovane poeta ostaggio di un gruppo comunista combattente? Quando nell’ottobre del 1992 DeLillo venne in Italia per presentare il libro, allora edito da Leonardo (con la medesima efficace copertina: l’opera di Warhol nelle diverse versioni), spiegò che due immagini erano state all’origine di Mao II: il ritratto rubato di Salinger, apparso sulla prima pagina del New York Post, e l’immagine che ritraeva lo sposalizio di massa della setta del reverendo Moon (nuova edizione Einaudi, tr. di Delfina Vezzoli, pp. 257, € 9,00).
Dopo un certo tempo l’immagine sconcertata, furiosa, e insieme interdetta, dell’autore del Giovane Holden, scomparso da 35 anni nello New Hampshiree, e l’istantanea dei sedicimila membri della setta, si fusero nella sua testa dando vita al racconto. Il libro si apre con la descrizione del matrimonio di una giovane, Karen, immersa nella folla dei membri della setta raccolta nello Yankee Stadium di New York e osservata attraverso il cannocchiale del padre. Poi il racconto ci porta a Bill Gray, nascosto in una casa dove sta terminando il suo terzo e ultimo romanzo, il libro che tutti aspettano da tempo. Ma Warhol cosa c’entra? Nel libro si parla più volte del suo ritratto di Mao; nel corso del suo viaggio italiano nel 1992, DeLillo dichiara che il suo lavoro è in una certa misura analogo a quello di Warhol, a metà strada tra arte e mass media. Il tema principale del libro è la ripetizione: “Warhol è una figura che in qualche modo si distacca dalla storia, galleggia sulla superficie delle cose, diventa icona, immagine “sacra”, come Elvis Presley e Mao Tse Tung. Il titolo del mio libro Mao II vuol dire questo. Siamo fuori dalla storia e dentro la ripetizione, la fotografia, la reiterazione di massa, l’obliterazione delle distinzioni, di ogni differenza” (Colloquio con Anna Detheridge, Il Sole-24 ore, 24 gennaio 1993). Da quando DeLillo ha pubblicato il suo romanzo, la reiterazione si è andata intensificando. Mao II non è il suo libro più bello, ma quello maggiormente profetico. Il romanzo si regge su un parallelo tra il mestiere dello scrittore e l’attività del terrorista: “Da qualche tempo ormai — dice Gray — ho l’impressione che i romanzieri e i terroristi stiano giocando una partita che si conclude zero a zero (…) Quello che guadagnano i terroristi, lo perdono i romanzieri. Il potere dei terroristi di influenzare la coscienza di massa è la misura del nostro declino in quanto forgiatori di sensibilità e del pensiero. Il pericolo che essi rappresentano è pari alla nostra incapacità di essere pericolosi”. Il protagonista stabilisce un legame tra il suo modo di vivere nell’ombra e la clandestinità in cui si trovano i terroristi. L’altro grande argomento che aleggia nel romanzo — scritto ricorrendo a un discorso indiretto fortemente soggettivo, in cui l’autore interviene di continuo con riflessioni — è l’idea che il romanzo sia “un grido democratico”; che chiunque possa scrivere dal nulla un grande romanzo. È davvero così? Non tutte le affermazioni di Gray vanno prese alla lettera; certo è che DeLillo-Gray ha individuato in modo straordinariamente efficace il legame che esiste nelle moderne società occidentali tra masse e democrazia, elitarismo e protagonismo, celebrità e anonimia: “Il futuro appartiene alle masse”. Il ritratto di Mao dipinto da Warhol lo rappresenta in modo perfetto. Nel colloquio italiano DeLillo osservava che si è rovesciata la previsione di Walter Benjamin secondo cui la riproduzione dell’immagine di un’opera d’arte uccide la sua “aura”. Riproducendo, come fa Warhol, l’immagine di Mao non si distrugge la sua sacralità, bensì si rende l’oggetto dell’immagine intangibile, pura astrazione, qualcosa di immateriale: “L’aura si crea col passaggio dei flash dei fotografi, dei registratori. Non c’è che l’aura, che si sta sostituendo alla realtà”. DeLillo ha ragione, basti pensare a cosa è accaduto dopo la distruzione delle Torri gemelle. Il tono del libro è decisamente apocalittico. E’ l’apocalisse quotidiana che DeLillo evoca nei suoi romanzi. Lo scrittore sottolinea di continuo l’onnipresenza invasiva dei media; ma lo fa in modo indiretto, sottile, misurandosi con i grandi eventi della storia contemporanea; anzi, generandoli egli stesso nei propri racconti, non per spiegarli, bensì per descriverli più a fondo: mostrare, non dimostrare. Sebbene quasi tutti i suoi libri siano nati da immagini per lui memorabili, da fotografie o brevi scene viste in televisione, DeLillo è uno scrittore potentemente aniconico: le sue pagine non contengono quasi immagini; e, se ci sono, si tratta di fotografie mentali, scatti astratti, che inclinano verso il concettuale. Per raccontare l’invasione delle immagini, la nuova aura delle icone visive dell’età contemporanea, occorre probabilmente una prosa asciutta, visionaria, come la sua (visionaria, non visiva), in cui le immagini siano presupposte e non esposte. DeLillo, come Warhol, ridipinge le icone della nostra epoca, virandole con il bianco delle sue parole.
[da L’Espresso, 22.7.03]