di Sandro Moiso
Gianfranco Ragona, Gustav Landauer anarchico ebreo tedesco, Editori Riuniti University press 2010, pp. 448, € 25,00
Gianfranco Ragona, ricercatore di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi di Torino, con il presente testo prosegue, dopo il precedente contributo dedicato al marxologo Maximilen Rubel, la sua ricerca sul pensiero e l’azione di alcune figure eretiche del socialismo, dell’anarchismo e del pensiero utopico del’900.
In tale contesto, la figura di Gustav Landauer spicca non solo per l’attualità dei temi che gli furono più cari, ma anche per la centralità che finì col rivestire all’interno di un dibattito che, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, vide coinvolti i maggiori rappresentanti della cultura ebraica e del pensiero socialista e anarchico tedesco.
In questo senso egli fu realmente mitteleuropeo, non solo dal punto di vista geografico, ma anche per la centralità che quei confronti e quegli scontri rivestirono all’interno del movimento operaio e della cultura europea tra la Belle Époque e il primo conflitto mondiale.
“Fare il possibile, desiderare l’impossibile”, in questa affermazione di Landauer, ricordata dall’amico Martin Buber, è compresa tutta la riflessione e l’azione dell’anarchico tedesco, animatore di giornali ed iniziative volte al superamento dell’ordinamento sociale capitalistico e statale. Fino al tragico epilogo della sua vita e della breve esperienza della Repubblica bavarese dei consigli, nel maggio del 1919.
Ragona ne segue il percorso a partire dalla nascita a Karlsruhe, in una famiglia di ebrei assimilati dediti ad un piccolo commercio di calzature, nell’aprile del 1870.
Nel 1890 lascerà gli studi universitari, manifestando già quell’insofferenza nei confronti dell’organizzazione del sapere borghese che lo contraddistinse fino alla fine dei suoi giorni.
Scriverà, infatti, ad un amico:” Non ne posso più del lungo tempo che spreco come studente. Rinuncio volentieri a un esame che non mi offre nessuna professione che io possa o voglia abbracciare. Ho bisogno di azione”.
Trasferitosi a Berlino, venne a contatto sia della questione sociale, sia con una città dove venivano stampati 774 periodici tra giornali e riviste, dei quali 62 erano di carattere politico e 206 del settore artistico e scientifico. Autentica capitale europea del dibattito politico e filosofico dell’epoca, con la fine delle leggi antisocialiste nel 1890, quella città avrebbe finito con l’indirizzarlo verso la solidarietà di classe e l’impegno politico e culturale.
Iniziò così a collaborare con il “Sozialist” , organo di propaganda di un gruppo di giovani scissionisti della Socialdemocrazia tedesca che si erano riuniti sulla base del rifiuto di ogni collaborazione con lo Stato, del conseguente antiparlamentarismo e dell’avversione al riformismo della burocrazia di partito.
“Così accadeva — scrisse venticinque anni dopo — che io, senza bisogno di definirlo, mi scoprii un anarchico prima di divenire un socialista: e fui tra i pochi a non essere transitato attraverso la socialdemocrazia”.
Il difficile rapporto tra l’anarchismo e il socialismo costituì, però, sempre, per Landauer, un problema che egli cercò ripetutamente, e soprattutto nella sua produzione giovanile, di superare tentando di armonizzare i due concetti.
Riconosceva “gli enormi meriti scientifici e politici di Marx”, anche se dopo il congresso di Londra della Seconda Internazionale, nel 1896, la rottura tra le due correnti si fece irreparabile.
Nella ricostruzione della vita e del pensiero dell’anarchico tedesco operata da Gianfranco Ragona sembrano essere almeno sei i temi che finiranno con il caratterizzarne tutto l’operato teorico e pratico:
– il cooperativismo come prefigurazione immediata della società socialista
– la rivoluzione intesa come processo e non come rottura traumatica
– la comunità cui si appartiene come singoli esseri umani e come rivoluzionari
– il richiamo al misticismo ebraico come fonte degli ideali anarco- socialisti
– un pacifismo pressoché integrale
– una critica radicale del sistema di istruzione borghese e dell’Università.
Nel cooperativismo, i cui ideali si erano affacciati in Germania alla metà dell’ottocento ed erano stati sviluppati in chiave “proletaria” da Ferdinando Vassalle, Landauer vedeva la possibilità per i lavoratori di riunirsi in unità di produzione e di consumo separate dallo stato e dalla società borghese. Una specie di socialismo qui, ora e subito che trasgrediva sia l’indicazione socialdemocratica della trasformazione per gradi attraverso la conquista del parlamento e dello stato, sia quella della “rottura” insurrezionale e violenta delle strutture del dominio capitalistico.
Contestando l’impostazione socialdemocratica per il raggiungimento del socialismo, criticava anche l’idea del monopolio statale sui beni di interesse generale e giungeva ad affermare (con anni di anticipo su quello che sarebbe poi stato il frutto dello stalinismo sovietico):” Grazie infinite per questo “socialismo”; noi troviamo il capitalismo di stato più abominevole di quello privato!”.
Solo attraverso un processo di realizzazione pratica, già in seno alla società capitalistica, degli ideali anarco-socialisti, non ridotti soltanto alla lotta economica o a quella parlamentare, Landauer vedeva la possibilità di realizzare una rivoluzione, intesa appunto come work in progress, come processo le cui radici affondavano nella lotta contro l’ingiustizia e la miseria, ma che non poteva avere come protagonista una sola classe (quella lavoratrice) e un unico programma da realizzare seguendo un semplificato e rigido algoritmo.
Avrebbe, infatti, poi affermato:”La rivoluzione non è ciò che credono i rivoluzionari”.
Nel suo pensiero, gli stessi rivoluzionari, gli stessi “profeti” della società futura dovevano riunirsi in una comunità di intenti, in cui le esperienze passate finissero con il ricollegarsi con le aspirazioni e le realizzazioni future, così come ogni comunità umana si componeva dei morti e dei viventi comprendendo spiritualmente anche l’avvenire.
A suo avviso sussisteva, ci spiega bene Gianfranco Ragona, un legame biologico e spirituale tra le generazioni, “Noi stessi siamo una parte di loro che è rimasta” e “i singoli corpi, che sin dal principio sono vissuti sulla terra, non sono una mera somma di individui isolati, ma una grande e reale comunità, cioè un organismo”.
In Landauer la rivoluzione era vissuta come rigenerazione e la comunità umana non andava costruita , ma recuperata.
La consapevolezza di far parte di una totalità avrebbe conferito un significato all’esistenza individuale (“Io vivo una volta sola, ho solo una volta il tempo di agire nel mondo secondo la mia volontà, e muoio molto presto. Perché non dovrei fare tutto il possibile per la liberazione dell’umanità”), che non si esauriva nel perseguimento del piacere “fugace, momentaneo, egoistico”.
Con decenni di anticipo sul concetto di comunità umana sviluppato,poi, in Bordiga e Jacques Camatte, il pensatore anarchico vedeva all’opera,nel legame tra gli uomini e tra essi e la natura, il sentimento di solidarietà che confermava “l’appartenenza di tutti alla grande comunità umana”.
Inutile dire che questo concetto lo allontanò sempre dagli anarco-individualisti e dal pensiero di Max Stirner, di cui riconosceva però l’importanza della rottura operata nei confronti della morale repressiva borghese.
La concezione di una comunità organica lo spingeva anche nella direzione di un anti-elettoralismo radicale, poiché tutti i procedimenti elettorali, diretti o segreti, gli sembravano appartenere “a un’epoca di diriti conculcati, di oppressione, d’inganno cesaristico-demagogico del popolo da parte dei privilegiati e dei loro partiti“. E finiva così con l’affermare che “L’età vergognosa delle cabine elettorali, delle schede elettorali, delle urne deve passare per sempre“.
Come è già stato qui detto, e come sottolineato da Ragona, per Landauer la rivoluzione sociale non consisteva nel rovesciamento violento delle istituzioni dominanti, ma nella costruzione, accanto allo Stato esistente e nelle condizioni date, di una controsocietà, che pacificamente si sarebbe sottratta all’influenza della società esistente. Immaginava lo sviluppo di comunità autonome, produttive e senza autorità centrale né sfruttamento, in cui la divisione sociale del lavoro non avrebbe dovuto fondarsi sulla separazione tra lavoro intellettuale e manuale.
Tale posizione derivava da un pacifismo pressoché integrale che, se da un lato lo portava a rifiutare qualsiasi militarismo e qualsiasi appoggio alle guerre, sulla scia del socialista olandese Domela Nieuwenhuis (che già su questo tema si era scontrato proprio con Friedrich Engels all’interno dell’Internazionale), dall’altro lo portò ad opporre un energico rifiuto a tutte le posizioni anarchiche che si richiamavano alla violenza e al terrorismo individuale.
Eppure questo suo pacifismo fu, dai suoi assassini, ringraziato con un’autentica orgia di sangue scatenata contro di lui, così come Ernst Toller descrive nel suo libro “Una giovinezza in Germania”: “Nel corridoio verso la stanza di guardia un ufficiale colpisce il prigioniero al viso. Coi calci dei fucili Landauer (che era stato arrestato il giorno precedente) viene spinto verso il cortile. Nel cortile il gruppo s’imbatte nel maggiore barone Von Gagern che picchia Landauer con una mazza a martello. Sotto i colpi del maggiore, Landauer crolla al suolo; si rialza tuttavia e tenta di parlare, ma il vicemaresciallo gli spara addosso, un colpo lo raggiunge alla testa. Landauer continua a respirare. Poiché vive ancora, lo coricano sul ventre — indietro, ragazzi — grida il maresciallo — gliene ficchiamo dentro ancora una — e gli spara alla schiena. Landauer ha ancora qualche sussulto. Il vicemaresciallolo calpesta coi piedi finché non è ben morto; poi gli tolgono di dosso tutto quel che ha, e la salma viene gettata nella lavanderia”.
Un martirio finale che ricorda fin troppo i metodi di eliminazione e le angherie che i nazisti avrebbero applicato ai loro avversari e agli ebrei dell’Europa Centrale in particolare.
Destino cui sembrava collegarlo non soltanto l’appartenenza famigliare, ma anche quella riflessione messianico- rivoluzionaria che, sicuramente, degli ebrei dava più fastidio e che oggi i sionisti di Israele e i loro falsi amici occidentali fanno a gara nel rimuovere dalla memoria.
Non a caso furono forse gli Ebrei polacchi, gli Ebrei più poveri dell’Europa dell’Est, a pagare più duramente le campagne di annientamento naziste, perché proprio in Polonia si era sviluppata, nel corso del XVIII secolo, l’ultima corrente mistica, e potenzialmente eretica, ebraica: lo Chassidismo.
Corrente che animò ancora negli anni a cavallo tra XIX e XX secolo il dibattito filosofico e politico interno al mondo culturale ebraico con cui Landauer fu in contatto, soprattutto, attraverso l’amicizia con Martin Buber.
Dibattito che attraversò il mondo ebraico e il nascente sionismo, arrivando fino a noi attraverso gli scritti dello stesso Buber, di Gershom Scholem, Ernst Bloch e di Hannah Arendt, e che ebbe tra i promotori, alle sue origini, Mose Hess che aveva respinto ogni approccio nazionalistico alla questione ebraica, contestando la possibilità che Israele potesse costituirsi quale Stato.
Mentre Scholem, molto più tardi avrebbe insistito sul fatto che “Il messianesimo ebraico è nella sua origine e nella sua natura una teoria della catastrofe. Questa teoria insiste sull’elemento rivoluzionario, cataclismatico, nella transizione dal presente storico al futuro messianico”.
Pure Buber, mai rinnegando il sionismo, avrebbe sostenuto che “Come per me in quanto uomo lo Stato in generale non è l’obiettivo determinante, così non lo è per me lo Stato ebraico […]che se sorgesse oggi, sarebbe eretto di nuovo anch’esso sugli stessi principi di ogni stato moderno […] Questo è ciò che intendo per Palestina, nessuno Stato”.
Per Landauer la redenzione degli ebrei doveva coincidere con la liberazione universale e proprio la diaspora rappresentava ai suoi occhi “il fondamento oggettivo del ruolo socialista internazionale degli ebrei. Contrariamente alle altre nazioni, gli ebrei hanno la particolarità unica di essere un popolo, una comunità, ma non uno Stato”.
La dispersione, insomma, si configura già come una forma di liberazione, poiché consente al popolo ebraico di percepire l’unità futura dell’umanità in una diversità di vere nazioni.
Appannata ormai dal falso dibattito che vede l’antisionismo come forma di antisemitismo, questa tradizione messianica ed internazionalista è ancora viva nello stesso Stato di Israele , dove autori come Warschavski o Finkelstein (obbligato a lasciare Israele per le continue minacce alla sua vita) o il movimento intransigente degli haredim hanno continuato a lottare contro la trasformazione della Palestina in un unico, grande campo di concentramento.
Se fin qui sembra esser chiara la centralità del pensiero di Landauer all’interno del dibattito su alcuni temi che toccano tuttora l’attualità, ancora di più lo è oggi per le riflessioni sulla scuola e l’Università. Riflessioni che egli ebbe modo di approfondire e cercare di applicare proprio durante l’ultimo periodo della sua vita, quando per pochi giorni (una settimana) egli rivesti l’incarico di Commissario del popolo per l’istruzione popolare.
Era il 7 aprile 1919 e in quell’occasione scrisse, profeticamente, ad un amico:”La Repubblica dei Consigli di Baviera mi ha fatto l’enorme piacere di trasformare l’odierna data del mio compleanno in festa nazionale. Sono ora Commissario del popolo per l’istruzione, la cultura, la scienza, l’arte e altro ancora. Se mi saranno lasciate un paio di settimane di tempo, spero di fare qualcosa. Verosimilmente, è tuttavia possibile che avremo solo un paio di giorni, e allora sarà stato soltanto un sogno”.
In quei pochi giorni, però, ispirato anche dalle esperienze pionieristiche dell’anarchico catalano Francisco Ferrer y Guardia, che nel 1901 aveva fondato la Escuela Nueva e nel 1909, poco prima di essere condannato a morte, la Lega Internazionale per l’educazione razionale, s’impegnò con vigore nell’approntare la riforma dell’istruzione e in particolare dell’Università, anche se, considerate le condizioni di precarietà della nuova repubblica, considerava i progetti del suo ministero, che fu il più attivo una “testimonianza per il futuro”.
Nelle parole di Ragona “in primo luogo, promosse la trasformazione della pubblica istruzione partendo da una revisione dei gradi della scuola primaria: tra i sette e i tredici anni prevedeva un primo livello di scolarizzazione, con al centro l’arte e lo sport e l’eliminazione dei banchi, simbolo di una scuola di cui gli scolari erano parte meramente passiva. La scuola privata non era abolita, “se offriva lo stesso minimo fondamentale della scuola di Stato”. Il secondo livello di istruzione, tra i tredici e i quindici anni, comportava una possibilità di scelta: un’attività pratica, con corsi di perfezionamento professionale; un collegio, che ai classici insegnamenti univa una disciplina manuale; la scuola media. L’amministrazione e la decisione dei contenuti curricolari era demandata ai costituendi consigli dei genitori e degli insegnanti, la cui collaborazione Landauer giudicava di grande importanza.
Per quanto riguardava l’Università, uno dei primi atti del ministero fu la sospensione delle lezioni, con decreto del 9 aprile e la nomina di un Consiglio Rivoluzionario dell’Università, con tre obiettivi principali: primo, creare le condizioni per facilitare l’accesso di tutti gli strati della popolazione ai gradi più elevati dell’istruzione; secondo, con attenzione specifica ai programmi, integrare le discipline scientifiche e quelle filosofiche e superare le facoltà di teologia e di diritto; infine, costituire un governo degli Atenei, che si configurasse quale comunità di studenti e docenti, che dovevano partecipare insieme all’amministrazione” (pag. 425).
Per le scuole superiori e l’Università, poi, intendeva ridurre i poteri di presidi e rettori, riconoscendo piena libertà di assemblea e dia associazione a studenti, lavoratori e docenti.
La Repubblica Bavarese dei Consigli sarebbe caduta dopo pochi giorni, il13 aprile, per le lotte interne e esterne tra socialdemocratici e comunisti.
A fine mese il socialdemocratico Noske avrebbe inviato a Monaco trentamila uomini aderenti ai Corpi Franchi nazionalisti che il 1° maggio avrebbero occupato Monaco ed arrestato Landauer. Ucciso, come si è visto, il giorno seguente nel carcere di Starnberger.
Per Landauer, la rivoluzione non avrebbe mai dovuto essere affare di partito e il socialismo avrebbe dovuto essere anche una forma di realizzazione artistica. Come afferma Gianfranco Ragona nell’ultima pagina del suo testo:”Frasi lontane nel tempo, ma che sembrano ancora poter rincuorare e richiamare a un impegno etico i singoli, i gruppi, le classi, che nel difficile passaggio al ventunesimo secolo hanno addirittura paura di desiderare un ordine nuovo fondato insieme sull’eguaglianza e sulla libertà: frammenti isolati, disperati o disincantati, che essi provino prima di tutto a ritrovare le parole per esprimerlo”.
Il fantasma di Landauer è stato sicuramente presente nelle lotte di fabbrica degli anni sessanta e settanta, nel comunismo eretico del ‘900, nelle manifestazioni studentesche del ’68, del ’77 e di oggi, nelle comuni degli hippy degli anni sessanta e nei centri sociali occupati e autogestiti…ma, forse è mancato proprio sui tetti delle Università italiane di oggi, dove altrimenti non sarebbero saliti Bersani, Di Pietro e Fini.