Da qualche settimana a questa parte, l’attenzione dei mass media internazionali è tornata un po’ a intermittenza a concentrarsi su Haiti, a causa dello scoppio di un’epidemia di colera nelle regioni centro settentrionali (nei pressi di Saint Marc) e dell’altissima probabilità che la piaga s’estenda massicciamente fino al cuore della capitale. A Porto Principe, infatti, 1354 campi d’accoglienza, allestiti d’urgenza con tende e teloni di plastica, ospitano in condizioni estremamente precarie e miserevoli oltre un milione e trecentomila di persone che hanno perso le loro case a causa del terremoto del 12 gennaio 2010. Fanno scalpore nei TG italiani anche le notizie delle due vittime rimaste sul campo nella città settentrionale di Cap-Haitien in seguito alle manifestazioni popolari (provocate dall’esasperazione della gente, dalle tensioni preelettorali e dalla convinzione generale che il colera sia stato reintrodotto nel paese dai caschi blu nepalesi) che sono state represse a colpi di mitra dalla Minustah, la forza “di pace” dell’ONU che svolge funzioni di polizia e militari ad Haiti. Si parla nuovamente di morti, più di 1100 in meno d’un mese per l’epidemia, dei primi contagi nella vicina Repubblica Dominicana e le ultime notizie ci riportano in quest’angolo dimenticato dei Caraibi per immortalare l’ennesima crisi umanitaria. Paradossalmente, per l’accresciuta attenzione mediatica dedicata al dramma del colera, è stata interrotta per un po’ la spirale di silenzio e indifferenza che s’era creata sulla situazione del paese caraibico, il più povero dell’emisfero occidentale che solo alcuni mesi fa è stato colpito dalla peggiore catastrofe naturale della storia moderna: un terremoto del grado 7,3 della scala Richter ha devastato la capitale, una metropoli da due milioni d’abitanti, e altri centri urbani limitrofi come Leogane e Carrefour facendo oltre 250.000 vittime e obbligando centinaia di migliaia di sfollati e senzatetto a vivere per la strada o in tendopoli “provvisorie”.
Ancora oggi le cifre relative alle dimensioni del disastro variano a seconda della fonte scelta (governativa, mass media nazionali o esteri, ONG, governi stranieri, organismi multilaterali, ecc…) e cambiano di mese in mese, ma resta comunque la realtà di una tragedia senza precedenti in termini assoluti. Anche se utilizziamo delle stime prudenti, il numero dei decessi rappresenta una cifra enorme che, in termini percentuali, si colloca tra il 10% e il 15% della popolazione dell’area di Porto Principe e del suo hinterland.
Alla tragedia umanitaria del sisma si sono aggiunti i disagi causati dalla stagione delle piogge che è iniziata il maggio scorso e che nei mesi di ottobre e novembre raggiunge il suo momento di massima pericolosità: sebbene sia rientrato l’allarme per l’uragano Tomas, che un paio di settimane fa ha fatto comunque ventuno vittime, trentasei feriti e seimila danneggiamenti di case, resta altissimo il rischio per la popolazione delle tendopoli e per i meno fortunati che s’arrangiano dormendo in strada.
All’incombente minaccia metereologica si aggiunge anche l’emergenza battereologica con il propagarsi del colera che ha già provocato 1110 morti fino ad oggi nel nord e nel centro del paese, soprattutto nei pressi di Saint Marc; c’è stato anche il ricovero in ospedale di oltre 18mila persone affette da questa patologia. Purtroppo il bilancio delle vittime viene aggiornato quotidianamente ed è destinato a crescere dato che i problemi che più di tutti favoriscono il propagarsi delle malattie come quello dell’acqua potabile, una delle peggiori al mondo già prima del terremoto, e quello delle condizioni igieniche in cui versa gran parte della popolazione, esposta quotidianamente alle intemperie e costretta a vivere nel fango o sui marciapiedi, non sono ancora stati affrontati adeguatamente, malgrado il flusso di aiuti internazionali.
Si segnalano anche tra i trenta e i quaranta morti per l’epidemia nel quartiere slum di Cité Soleil a Porto Principe, il che significa che il colera si sta lentamente diffondendo nella capitale. Lo straripamento dei fiumi e dei canali risulta essere un pericoloso e ulteriore veicolo per le malattie proprio ora che la stagione delle piogge sta raggiungendo il suo punto critico.
Il clima politico ad Haiti risulta sempre più teso, come conseguenza delle elezioni parlamentari e presidenziali, previste per il 28 novembre, in cui quattro milioni e mezzo di elettori sono chiamati a rinnovare le camere, scegliendo i novantanove deputati e gli undici senatori che le compongono, e a scegliere il successore dell’attuale mandatario Renè Preval, in carica dal 14 aprile 2006. I partiti politici registrati per la tornata elettorale sono sessantotto e i candidati sono diciannove in totale, ma i quattro favoriti per la presidenza secondo diversi sondaggi sulle intenzioni di voto sarebbero (in ordine decrescente di preferenze): la costituzionalista Mirlande Manigat (RDNP – Riunione dei Democratici Nazionali Progressisti) con circa il 17%, l’ingegnere Jude Célestin (INITE – Unità), il candidato “del potere” sostenuto da Renè Preval, con il 13%; l’industriale Charles Henri Baker (Respect/Rispetto) con il 12,5% e al quarto posto il cantante Michel Martelly (Repons Peyizan/Risposta Cittadina), vicino al rapper statunitense Wyclef Jean, escluso dalla competizione l’agosto scorso.
Incertezza e frammentazione si uniscono alla poca chiarezza circa le proposte e le differenze reali tra i vari contendenti che non sembrano voler prendere minimamente le distanze dalle politiche di abbandono dello stato sociale e di apertura completa al capitale straniero emanate dal governo uscente. L’unico candidato che sembra distinguersi dagli altri e distanziarsi dall’establishment politico ed economico attuale sembra essere la favorita Manigat che ha alle spalle un’importante carriera accademica e politica in ambito nazionale e internazionale.
Come segnalano le Nazioni Unite nei loro rapporti e comunicati dell’agosto scorso riguardanti il mantenimento dell’ordine pubblico, che è poi uno dei compiti affidati ai caschi blu della MINUSTAH (Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti) in base alla risoluzione ONU 1542 del 30 aprile 2004, l’intensificarsi della violenza e degli scontri, prima e dopo le elezioni politiche, è una possibilità concreta in un contesto socio-economico drammatico e potenzialmente esplosivo.
Altri problemi gravi riguardanti il processo elettorale sono senza dubbio la probabile scarsa affluenza alle urne, aggravata dalle disperate condizioni di vita della gente dopo il terremoto, e la difficoltà di reperire personale qualificato per gli scrutini.
Al riguardo si sottolineano i pericoli per il processo elettorale e per la stabilità generale del paese rappresentati dalla crescente diffusione di armi nella popolazione, dalla ricostituzione di gruppi dediti al traffico di stupefacenti e al sequestro e dalla eventuale connivenza di questi con le forze politiche in cerca di finanziamenti. Inoltre i movimenti sociali legati al partito Fanmi Lavalas e i gruppi di cittadini fedeli al suo fondatore, l’ex presidente Jean-Bertande Aristide, esiliato nella Repubblica Sudafricana in seguito al colpo di Stato contro di lui del 29 febbraio 2004, sostengono che, ancora una volta, viene negato il diritto degli haitiani a decidere autonomamente il proprio destino.
Infatti, mentre tra agosto e settembre i mass media globali si occupavano ampiamente del caso del popolare rapper statunitense Wyclef Jean, escluso dalla rosa dei possibili candidati alla presidenza per problemi legati al requisito che impone almeno cinque anni di residenza ad Haiti, il partito politico che ha ottenuto i maggiori consensi elettorali negli anni novanta e nel 2000, per l’appunto il Fanmi Lavalas, veniva estromesso dalla partecipazione alle prossime elezioni così com’era accaduto anche in quelle del 2006.
In effetti lo Stato haitiano non ha mai goduto di una reputazione d’imparzialità mentre lo scambio di favori, il clientelismo e le logiche patrimoniali sono stati i meccanismi privilegiati che hanno regolato il funzionamento complessivo dell’apparato politico: le percezioni sulle condizioni della competizione elettorale e il funzionamento dello stato di diritto sono ben esemplificate dai dati forniti da Transparency International sulla corruzione nel mondo che collocano Haiti agli ultimi posti (146esima nel 2010) con un punteggio di 1.4, 2.8 e 2.2 su 10 rispettivamente nel 2008, 2009 e 2010.
Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le manifestazioni popolari degli sfollati che protestano per l’insufficienza degli aiuti umanitari e la mancanza quasi assoluta di degne opportunità di lavoro data la stagnazione dell’attività economica, soprattutto nelle città, e la scarsa efficienza nell’utilizzo dei 10.194 milioni di dollari stanziati, ma non ancora totalmente versati e impiegati, dalla comunità internazionale. Si annuncia una vera e propria guerra tra i paesi donatori, specialmente gli Stati Uniti, il Canada e la Francia (potenze storicamente coinvolte nella regione caraibica e in particolare ad Haiti), e le relative imprese multinazionali per accaparrarsi le ricche prebende degli appalti pubblici per la ricostruzione del paese e utilizzare, quando sarà arrivato il momento, l’enorme bacino di manodopera a basso costo reclutabile tra le file dei disoccupati e dei disperati dei campi d’accoglienza.
Sotto accusa è finito l’ente che gestisce la maggior parte dei fondi donati dalla comunità internazionale, la Commissione ad Interim per la Ricostruzione di Haiti (CIRH) presieduta dall’ex presidente USA Bill Clinton e dal Primo ministro haitiano Jean-Max Bellerive, cui vengono imputati i ritardi e le colpe per l’inadempimento delle promesse fatte in primavera. La CIRH è stata creata da un decreto presidenziale dello scorso 21 aprile con la missione di organizzare rapidamente la pianificazione, il coordinamento e la messa in atto dei progetti di sviluppo finanziati da enti nazionali e stranieri, pubblici, privati e non governativi, in seguito al terremoto del 12 gennaio 2010. La composizione del suo consiglio d’amministrazione è mista, nel senso che vi siedono sia consiglieri haitiani (14 con diritto di voto) che stranieri (13, incluso l’ex presidente Clinton) (http://www.cirh.ht/). I singoli paesi donatori che più hanno contribuito con capitoli di spesa solo in parte sborsati sono nell’ordine il Venezuela, gli Stati Uniti, la Spagna, il Canada, la Francia e il Brasile, quasi a riflettere gli interessi geopolitici in gioco nella regione dei Caraibi e, più in generale, in America Latina.
Se da una parte non stupisce la forte presenza delle attuali e storiche potenze coloniali o economiche dell’area, come gli USA, il Canada, la Spagna e la Francia, dall’altra sembrano avanzare anche le potenze emergenti come il Venezuela e il Brasile, che è a capo della missione ONU, la MINUSTAH. Ricordiamo pure che il Venezuela partecipa da un decennio a un gran numero di progetti di cooperazione e, insieme a Cuba, è stato il più generoso nell’invio di medici ed elementi della protezione civile un giorno dopo il terremoto, ma è anche il primo paese creditore (il secondo è Taiwan) di Haiti cui fornisce petrolio e gas nel quadro dell’accordo Petrocaribe (il debito di Haiti con Petrocaribe è stato condonato mentre rimane quello con il Venezuela).
In più occasioni la società civile tramite la stampa, le manifestazioni pacifiche e le petizioni ai parlamentari in carica ha denunciato il mancato rispetto del diritto costituzionale alla casa e la mancanza di trasparenza della Commissione per la Ricostruzione le cui riunioni e processi decisionali sono strutturalmente inaccessibili ai più, mass media compresi. I beneficiari teorici dei fondi stanziati dalla CIRH per una buona parte dei 49 progetti approvati finora le contestano ritardi e inadempienze gravi nelle erogazioni dei finanziamenti che bloccano la loro realizzazione (http://www.haitianalysis.com/2010/10/18/donor-money-still-bypassing-haiti-s-homeless-and-jobless). Un altro punto critico nei rapporti tra la comunità internazionale, lo stato haitiano e la società civile è rappresentato senza dubbio dalle strutture parallele create negli anni dalle circa diecimila organizzazioni governative e non presenti sul territorio nazionale.
Queste hanno conformato una specie di “Repubblica delle ONG” visto che, da una parte, hanno provvidenzialmente supplito alla mancanza di una serie di apparati statali, gestiti da quasi vent’anni secondo i principi più ortodossi dello stato minimo e del Consenso di Washington, in praticamente tutti i settori del welfare, soprattutto istruzione, sicurezza e salute, mentre poi, dall’altra, hanno generato una spirale d’inerzia, paternalismo e irresponsabilità che alla lunga è risultata deleteria per per la società e i governanti haitiani, ormai abituati a dipendere dall’esterno per la risoluzione di qualunque problema. In questo senso la perdita di sovranità politica, militare ed economica così come la scarsa presenza istituzionale sul territorio sono fattori innegabili per spiegare le relazioni esterne e persino l’evoluzione storica complessiva del paese al quale, in base anche a questi elementi, viene applicata la categoria politologica di “stato fallito”. L’esame di coscienza su cause e motivi del fallimento dovrebbe, però, partire da questioni “esterne” e analisi dell’elite nazionale di Haiti che con il grosso del popolo haitiano c’entrano davvero poco (link REPORTAGE “Le guerre dimenticate di Haiti”).
Ad ogni modo le voci più veementi della protesta si levano, paradossalmente, proprio dalla tendopoli più grande, organizzata e visitata dai mass media che si trova attualmente sotto la “protezione” e il patrocinio dell’attore Sean Penn, dell’esercito americano e dell’Ong statunitense Catholic Relief Service. Malgrado questi fattori di “relativo sollievo”, le condizioni di vita nel campo sono pessime sotto tutti i punti di vista: igiene, sicurezza per donne e bambini, micro criminalità, disponibilità d’acqua potabile, tende, strutture mediche e scolastiche, sistema fognario e di drenaggio dell’acqua piovana, salubrità per la conservazione e preparazione di cibi e bevande.
Il tifo, il colera, la diarrea, la salmonella e tutte le patologie legate al consumo di acqua e alimenti contaminati costituiscono pericoli latenti ma sempre pronti ad esplodere in ambienti di questo tipo: le malattie e le epidemie sono sempre state all’ordine del giorno ad Haiti ma l’attenzione su di esse si spegne e s’accende ciclicamente. (LINK video e LINK foto) Questa tendopoli costituisce un’enclave nell’ex quartiere esclusivo Petion-Ville, ridotto in macerie dopo il terremoto, che ospita sessantamila persone stipate in un ex campo da golf, costruito dai marines per lo svago dell’elite capitolina durante la prima occupazione americana di Haiti nel ventennio 1915-1934.
NOTA FINALE e IMPORTANTE
Stiamo promuovendo, insieme all’associazione haitiana di avvocati per i diritti umani AUMOHD e alla SCUOLA di PACE di Roma, varie iniziative umanitarie in favore della popolazione di Haiti e quindi vi chiediamo di dare un’occhiata a questo sito e donare qualunque cifra riteniate opportuna. Basta poco per poter comprare delle cisterne d’acqua potabile o delle medicine per allestire piccole cliniche di quartiere. Grazie per l’attenzione.
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