Con la riedizione di Mao II, il complesso capolavoro di Don DeLillo, si torna a parlare di religione americana e planetaria. La leggendaria scena di apertura di Mao II è un matrimonio di massa, celebrato in uno stadio di football dal Reverendo Moon. Dalla cosiddetta fiction alla realtà: pubblichiamo un intervento – uscito anni fa su L’Espresso – di Steven Hassan, uno psicologo americano di famiglia ebraica che a 19 anni viene agganciato all’università dalla setta del Reverendo Moon, il santone coreano che ha creato una vasta rete internazionale alla quale aderiscono decine di migliaia di persone (anche in Italia). Per 27 mesi Hassan lavora nella setta, sempre più condizionato: recluta e indottrina nuovi adepti, raccoglie fondi, fa propaganda politica. Poi i suoi genitori lo convincono a parlare con alcune persone che riescono a salvarlo. Hassan si specializza in tecniche di decondizionamento. Sulla sua esperienza ha scritto un libro (Mentalmente liberi. Come uscire da una setta, Avverbi editore). Nel brano che pubblichiamo racconta il bombardamento psicologico messo in atto dalla setta per cooptarlo.
UNA VITTIMA DEL REVERENDO MOON RACCONTA
Poi mi svuotò il cervello – Si comincia col “love bombing”. Seguono le pressioni psicologiche. E insorgono violenti sensi di colpa… Uno psicologo spiega come fu irretito dal santone. E come se ne liberò.
di Steven Hassan
Un giorno, mentre leggevo un libro nella sala dell’associazione studentesca, alcuni coetanei mi si avvicinarono. Avevano dei libri sottobraccio e quando mi chiesero se potevano sedersi al mio tavolo acconsentii. Mi dissero che anche loro erano studenti e che avevano messo su una piccola comunità di giovani provenienti da tutto il mondo. Mi invitarono ad andarli a trovare. Il semestre era appena iniziato. Quella sera stessa, terminate le lezioni, mi recai a casa loro, dove trovai un gruppo di trenta ragazzi provenienti da una mezza dozzina di paesi. Quando chiesi se fossero un gruppo religioso, mi risposero di no, ridendo. Mi dissero che facevano parte di una certa “Crociata per l’unità del mondo”, una associazione il cui scopo era il superamento delle barriere culturali tra i diversi popoli. Partecipai con piacere alla conversazione. L’atmosfera vivace della riunione mi piacque. I ragazzi si comportavano tra loro come fratelli e sorelle e sembravano davvero far parte di un’unica famiglia.
Il giorno seguente mi imbattei in uno di loro. Mi chiese se mi era piaciuta la serata. E alla mia risposta affermativa, propose: “Oggi pomeriggio Adri, che è olandese, terrà una breve conferenza su interessanti temi esistenziali. Perché non vieni?”. Alcune ore più tardi mi recai ad ascoltare l’intervento di Adri. Era vago, peccava di eccessivo semplicismo, ma ascoltarlo era piacevole e condividevo quasi tutto quello che diceva. Ma nel suo discorso non trovavo nulla che potesse spiegare il motivo della felicità dipinta sul volto di quei ragazzi. Pensavo che ci fosse qualcosa di sbagliato in me o qualcosa di eccezionale in loro. La mia curiosità era al massimo.
Finii col ritrovarmi con loro anche il giorno dopo. Questa volta l’oratore tenne un discorso sull’origine dei problemi umani. Il suo intervento aveva un taglio religioso: parlava di Adamo ed Eva e di come si erano perduti per aver fatto cattivo uso dell’amore. In quel momento non mi rendevo conto che tutte le mie domande rimanevano comunque senza risposta e non sospettai minimamente che mi si teneva deliberatamente sulla corda. La mia confusione cresceva e perciò annunciai che quella per me sarebbe stata l’ultima serata con loro. Non appena ebbi pronunciato queste parole, nella sala scese un silenzio di tomba.
Uscii ed ero appena salito in auto quando venni raggiunto da una dozzina di ragazzi che, nonostante il freddo, si precipitarono fuori con le sole calze ai piedi: mi circondarono e mi dissero che non mi avrebbero lasciato andar via se non “dietro la promessa” che sarei tornato la sera successiva. Pensai che erano matti. Stavano fuori al gelo senza scarpe e senza giacca, tenendomi praticamente in ostaggio solo perché mi trovavano simpatico. Fui costretto ad arrendermi: mi sarei sentito in colpa se uno di loro si fosse ammalato.
Il giovedì successivo, al mio ritorno, fui letteralmente sommerso dalle attenzioni di tutti. Più tardi avrei imparato che questa tecnica si chiama love bombing, bombardamento affettivo. Mi fecero moltissimi complimenti: trovavano che ero simpatico, buono, intelligente e dinamico. Insistettero perché trascorressi con loro “un fine settimana di ritiro in un bellissimo posto di campagna”. Li informai del fatto che durante i fine settimana lavoravo come cameriere: non avrei potuto partecipare alla gita. Prima di andare via fui costretto a promettere che, se fossi riuscito a liberarmi, avrei accettato l’invito. Il giorno seguente telefonai al mio datore di lavoro, all’Holiday Inn. Mi disse: “Steve, non ci crederai, ma il banchetto per il matrimonio è stato cancellato proprio oggi pomeriggio. Hai il fine settimana libero!”. Partii quel venerdì stesso. […]
Mentre attraversavamo l’imponente cancello in ferro battuto di una tenuta miliardaria di Torrytown, nello Stato di New York, qualcuno alle mie spalle disse: “Questo fine settimana terremo un seminario insieme alla Chiesa dell’Unificazione”. La testa mi si riempì di domande, che in quel momento evitai di esternare. Seminario? Chiesa? Perché non me ne avevano parlato prima? Come potevo tornarmene a casa? Una volta scesi dal furgone, fummo condotti in una piccola casa di legno nascosta tra alberi secolari. Provai un senso di paura. Dissi che volevo tornarmene a casa. Un ragazzo biondo, con un sorriso stampato sul viso, mi diede una pacca sulle spalle: “Ti divertirai! Comunque, stasera non c’è nessuno che possa darti un passaggio e riportarti in città”. Entrammo in una stanza, dove fummo divisi in piccoli gruppi. I capi ci diedero fogli di carta e pennarelli e ci chiesero di disegnare una casa, un albero, una montagna, un fiume, il sole e un serpente. Nessuno chiese perché: tutti fecero quanto era stato loro chiesto. Appresi in seguito che si trattava di un test di personalità. […]
A turno ci presentammo gli uni agli altri, seduti a gambe incrociate sul pavimento. Finite le presentazioni, cominciammo a intonare canzoni folk. In quell’atmosfera da asilo infantile, mi sentivo a disagio ma nessun altro sembrava farci caso. Quella notte dormimmo in letti a castello, dentro un garage trasformato in dormitorio. Donne e uomini dormivano in camerate separate. Al mattino fui avvicinato da un giovane dall’aspetto ascetico che avevo conosciuto nella casa di Queens. Si sedette accanto a me e mi disse che anche lui era rimasto perplesso da alcune stranezze viste e sentite al suo primo seminario e mi consigliò di non chiudermi a riccio e di dar loro la possibilità di presentare ciò che chiamavano il Principio Divino: “Non giudicarli finché non avrai un quadro completo della situazione”. Se avessi lasciato il gruppo ora, mi disse, lo avrei rimpianto per tutta la vita. Il suo tono intrigante e carico di mistero, suscitò in me un’enorme curiosità. Al mattino, prima di colazione fummo condotti a far ginnastica ritmica e ci furono altri canti. Poi fece la sua comparsa un uomo dall’aspetto carismatico: voce suadente e occhi blu freddi come il ghiaccio. Si presentò come il direttore del seminario e ci illustrò le regole che avremmo dovuto seguire quel fine settimana. Dovevamo rimanere nel gruppo assegnatoci; ci era vietato passeggiare nella proprietà da soli; avremmo potuto fare domande solo al termine di ciascuna lezione, e solo dopo esserci nuovamente ricongiunti al nostro gruppo. Ci presentò poi l’oratore che quella mattina avrebbe tenuto il suo intervento, Wayne Miller. Trentenne, in completo blu, il signor Miller aveva l’aspetto rassicurante del medico di famiglia. Ascoltandolo, il mio disagio andò crescendo. Il seminario aveva veramente qualcosa di strano. Quasi tutte le persone che erano là mi piacevano: erano tutti studenti brillanti e di buon cuore. Ciò che non mi andava a genio era l’ambiente costrittivo, l’infantile atmosfera religiosa e il fatto che non mi fosse stato detto in anticipo che cosa sarebbe avvenuto in quel fine settimana. Ogni volta che sollevavo obiezioni venivo invitato a rimandarle: “È una buona domanda, ma aspetta: troverai la risposta giusta nella prossima lezione”. Non dovevo giudicare prima di avere sentito tutto: dovevo sorbirmi una gran quantità di lezioni sull’umanità, la storia, lo scopo della creazione, il mondo spirituale opposto a quello materiale e via dicendo.
L’intero fine settimana era stato minuziosamente programmato. Non c’era possibilità di rimanere da soli. I nuovi arrivati erano in maggioranza: non venivano mai lasciati soli e non potevano parlare tra loro se non in presenza di un “responsabile”. Al termine del primo giorno, il mio senso della realtà era rimasto più o meno intatto. Prima di andare a letto ci fu chiesto di scrivere le nostre “riflessioni”, e io lo feci. Il secondo giorno, la domenica, iniziò come il primo. Eravamo lì da 36 ore. […]
Domenica sera ero pronto a tornarmene a casa. Ma diverse persone mi scongiurarono di non farlo. L’indomani sarebbe stata la giornata più importante. Spiegai che il giorno dopo avevo lezione all’università: per me era impossibile rimanere un altro giorno. Il direttore del seminario mi prese in disparte e mi disse che si sarebbero tutti trattenuti fino al giorno dopo. […] Non volevo arrecare fastidio ad amici o familiari chiedendo loro di farsi chilometri e chilometri per venirmi a prendere con urgenza, né volevo fare l’autostop in una località che non conoscevo, di notte e in pieno inverno.
Il terzo giorno ci venne fatto raggiungere un livello emozionale mai toccato prima. La lezione che Miller impartì quel giorno si intitolava La Storia della restaurazione. Miller sosteneva si trattasse di una accurata ricostruzione del Disegno Divino che avrebbe riportato gli uomini al Suo intento originario. “E’ scientificamente provato che esistono corsi e ricorsi storici”, asseriva Miller. Dopo ore e ore di lezione sembrava che questi cicli storici convergessero tutti intorno ad un’unica, incredibile conclusione: tra il 1917 e il 1930 Dio aveva mandato sulla Terra il suo secondo Messia. Chi era questo Messia? In quel seminario nessuno lo disse. Quando giunse l’ora del ritorno in città ero esausto e sempre più confuso. Mi sentivo inebriato al solo pensiero che ci fosse una remota possibilità che Dio avesse guidato tutta la mia vita per prepararmi a questo momento storico; in altri momenti mi pensavo che fosse tutto uno scherzo di pessimo gusto. Ricordavo i momenti finali del discorso di Miller. “E se… fosse vero? Tradireste il figlio di Dio?”. Miller aveva posto la domanda alla platea con voce appassionata, rivolgendo lentamente lo sguardo al cielo. […] Quando, a notte fonda, il pullman tornò alla sede dell’organizzazione ero esausto; il mio unico desiderio era di tornare a casa , ma non mi fu permesso. Jaap Van Rossum, il direttore, insistette perché rimanessi a parlare un po’ con lui. Volevo andarmene ma lui si faceva più insistente. Mi fece sedere davanti al caminetto e mi lesse la biografia di un umile coreano, Sun Myung Moon, di cui non avevo mai sentito parlare. Si diceva che Moon aveva dovuto superare mille difficoltà e sofferenze per diffondere la verità di Dio e combattere Satana e il comunismo. Quando finì, Jaap mi invitò a pregare per quanto avevo appena ascoltato e mi disse che ora ero responsabile della grande verità che mi era stata insegnata e che, se le avessi girato le spalle, non me lo sarei mai potuto perdonare. Cercò di convincermi a passare la notte lì. Per liberarmi mi misi a urlare: “Lasciami stare!”; poi fuggii nella notte, a gambe levate. Ma, provai un senso di colpa per essere stato tanto sgarbato con quelle persone che erano state così sincere. Guidai verso casa con le lacrime agli occhi. […]
Vedendomi i miei genitori pensarono che fossi stato drogato e mi dissero che avevo un aspetto orribile: i miei occhi erano velati e sembravo molto confuso. Cercai di spiegare loro quanto era appena successo, ma ero esausto e incoerente, e quando dissi che il seminario aveva a che fare con la Chiesa dell’Unificazione, mio padre e mia madre si preoccuparono, pensando che volessi diventare cristiano. Domande incessanti mi martellavano. Che Dio mi avesse preparato per tutta la vita alla missione di realizzare il Regno dei Cieli in Terra? Che Sun Myung Moon fosse veramente il Messia? In quello stato di confusione mentale non mi sfiorò neppure l’idea di essere stato sottoposto a tecniche di controllo mentale e non realizzai che, se solo una settimana prima non credevo affatto in Satana, ora avevo addirittura paura che stesse influenzando i miei pensieri. I miei genitori mi dissero di stare alla larga dal gruppo. Non volevano che abbandonassi la religione ebraica. Nemmeno io: volevo solo fare la cosa giusta. Se Moon è il Messia, pensavo, nel seguirlo rispetterò la mia eredità ebraica. E mi ritenevo in grado, a 19 anni, di prendere da solo le mie decisioni Quando mi rifeci vivo con il Centro, fui trascinato a un altro seminario di tre giorni. Chiesi a un affiliato perché mi fosse stata tenuta nascosta la natura religiosa del movimento; mi rispose: “Se te ne avessero parlato, saresti venuto?”. Ammisi che non lo avrei fatto. Mi spiegò che da quando Satana aveva indotto con l’inganno Adamo ed Eva a disubbidire a Dio, il mondo era caduto sotto il suo controllo. Ma era giunto il momento che fossero i figli di Dio a indurre con l’inganno i figli di Satana a seguire la volontà divina.
Divenne evidente, in seguito, che questo “inganno celeste” veniva ampiamente utilizzato in tutti i vari stadi dell’organizzazione: reclutamento, raccolta fondi e pubbliche relazioni. Dal momento che i membri del gruppo erano così determinati a raggiungere il loro scopo, se necessario anche a prezzo dell’inganno, non vi era più spazio per i principi della «vecchia morale». In sostegno di questa tesi il movimento adduce la Bibbia, sostenendo che Dio più volte nella storia aveva perdonato il tradimento, quando questo era stato finalizzato al compimento del Suo Piano Divino. […] Alla fine dei tre giorni lo Steve Hassan che aveva partecipato al primo seminario non esisteva più. Ero esaltato all’idea di essere stato prescelto da Dio e di essermi finalmente incamminato sulla retta via. Provavo sentimenti discordanti: ero onorato del posto da leader che mi era stato assegnato, spaventato dalla responsabilità che mi ricadeva sulle spalle, emozionato al pensiero che Dio stesse lavorando per ricostituire il Paradiso Terrestre. Niente più guerra, povertà, inquinamento: solo amore, verità, bellezza e bontà. Una flebile voce dentro di me diceva di stare in guardia e di mettere in dubbio ogni cosa. Ma, tornato a casa, decisi di trasferirmi per qualche mese nella sede dei moonisti, per farmi un’idea del loro stile di vita e studiare il Principio Divino, prima di prendere un impegno a vita. Nelle prime settimane, feci la conoscenza di un capo molto potente, Takeru Kamiyama, un giapponese responsabile della Chiesa dell’Unificazione per la città di New York. Fui affascinato dalla sua spiritualità e dalla sua umiltà, e desiderai imparare da lui tutto ciò che potevo.
[…] Appresi solo più tardi di essere stato il primo abitante del quartiere dei Queens ad aderire al Centro. Solo un mese prima la sede di Manhattan era stata suddivisa in otto centri satellite periferici. Kamiyama disse che si trattava di un segno che indicava che sarei diventato un grande capo. Mi inserì nel gruppo dei suoi dodici discepoli americani, supervisionando ogni mia attività. L’essere entrato a far parte di una ristretta cerchia elitaria mi fece sentire speciale.
Grazie al mio rapporto con Kamiyama, potevo avvicinarmi al Messia: Sun Myung Moon.