Di Andrea Scarabelli
Esce oggi nei pochi negozi di dischi superstiti il ritorno del progetto di Vasco Brondi, ovvero Le luci della centrale elettrica. Questa non è però una recensione musicale: le sue canzoni sono da qualche settimana in heavy rotation nel mio cervello, e quanto leggerete è piuttosto una concatenazione di pensieri a proposito di “cultura e immaginario di opposizione”.
In questi ultimi anni ho visto diversi miei coetanei, ovvero la generazione nata negli anni ottanta, fare il proprio esordio sul piano espressivo, chi nella musica, nella scrittura e in altri campi ancora; cercare insomma di lasciare un segno. Tutti però si sono dovuti confrontare con un problema importantissimo. Che linguaggio utilizzare per rappresentare il nostro presente, come reagire a un periodo storico che tutti liquidano come disastroso, come comunicare in un ronzio di messaggi che anche quando cercano di essere abrasivi si disinnescano da soli?
Quando in Canzoni da spiaggia deturpata ho sentito domandare a Vasco cosa avremmo raccontato di questi anni zero, il suo urlo è rimasto a lungo indelebile, privo di risposta. Senza abbandonarsi a futili discorsi generazionali, proibendo qualsiasi riferimento a Twin Towers o precariato, il quesito era davvero lacerante. Insomma, il suo esordio è riuscito a smuovere le acque, e per questo attendevo al varco il suo nuovo lavoro.
Ho ricevuto Per ora noi la chiameremo felicità nella forma immateriale di mp3, con una semplice email, e l’ho ascoltato attraversando la pianura padana su un treno lentissimo. Guardando il nulla immerso nella nebbia fuori dai finestrini, in un attimo non riuscivo più a distinguere i confini tra ciò che stavo ascoltando e la realtà. Uno scroscio di parole su un paesaggio musicale che supera la domanda posta in precedenza, e racconta, racconta senza pretese di inquadrare nulla. Eppure ci riesce, paradossalmente, proprio nella sua essenza narrativa.
È sicuramente troppo presto per trarre conclusioni su un decennio ancora rovente alle nostre spalle, ma è già possibile intuirne la scia, gli strascichi nebulizzati sul futuro a venire. Quel futuro che è stato dato per morto da così tanto tempo che, ora che forse è diventato davvero una categoria inutile, nessuno ci ha fatto caso. Dagli auricolari non arrivavano storie estreme, di trasgressione o sentimenti esasperati, ma la vita quotidiana in Italia di noi tutti, raccontata prendendo di peso le parole che ci circondano e associandole in connotazioni nuove, portandone a galla incongruenze, potenzialità e trauma. Non certo il tagliacarte nel dizionario dadaista, ma una mano paziente che strappa titoli di free-press, cinguettii virtuali, brandelli di voci che veicolano inconsapevolmente parole assurde, suoni amplificati e vomitati da schermi al plasma, interferenze radiofoniche, messaggi affidati ai muri, mantra pubblicitari, infinite catene sintattiche costruite altrove che legano le vite di tutti. Con un lungo lavoro li amalgama, li avvolge e restituisce, non sotto forma di collage ma come qualcosa di nuovo. È questa a mio parere l’importanza dell’operazione di Vasco, che sceglie come terreno di scontro la provincia che è coscienza profonda del Paese, e affianca immagini in una ripetizione che restituisce in qualche modo un movimento. È quasi difficile separare un brano dall’altro, mentre veniamo sommersi dai frammenti dell’esistenza di due individui irreali, ipertrofici, che diventano autobiografia collettiva, staccata dall’esperienza personale dell’autore.
Il disco continua ad accompagnarmi ancora adesso, non posso dire di averlo metabolizzato, e non desidero neanche farlo troppo in fretta. Ma l’aderenza alla realtà di cui avevo avuto subito impressione mi è apparsa sempre più forte con l’aumentare degli ascolti, così come il suo porsi in netta opposizione rispetto al nulla che avanza, spazzando via con facilità così tanti miei coetanei. Se quello che viviamo è il disastro, se abbiamo a tal punto familiarizzato con la catastrofe da rivolgerci a lei con dolcezza, è a partire da questo che dobbiamo tessere per conquistare abiti nuovi, questa volta sì capaci di rappresentarci. In questo modo il titolo supera il suo status di citazione da Léo Ferré: questi cieli bianchi, quasi trasparenti, questi cieli colorati con pennarelli scarichi, questi cieli coperti da copertoni bruciati, questa cappa avvelenata di polveri sottilissime di stasi e disperazione, questo arretrare costante e dimenticare, questo continuo arrendersi, questo perdere, tutto ciò per ora noi lo chiameremo felicità. Inutile vestirsi a lutto per il futuro negato, per il presente pietoso, inutile rimpiangere passati che in fin dei conti ci hanno portato esattamente dove ci troviamo, inutile sperare di fuggire: questa è la nostra realtà, la nostra vita, il terreno inquinato e friabile su cui costruire. Vasco oggi non grida una domanda, ma una constatazione: “Ci troverai schierati”.