di Julián Díez
[Di cosa parliamo, quando parliamo di fantascienza?… Carmilla pubblica una proposta polemica dalla Spagna, nella speranza, forse vana, di rianimare il dibattito in Italia. A.D.]
La vera ragione della maggior parte dei problemi della letteratura che chiamiamo “fantascienza”, e ciò che secondo me la rende irrilevante nell’ambiente culturale, è la sua indeterminazione. Per molto tempo la fantascienza è (a fatica) sopravvissuta a due tendenze incompatibili che ne impediscono una definizione chiara.
Alcuni pensano che la fantascienza sia un semplice passatempo divertente.
Altri, me incluso, pensano che la fantascienza possa diventare un potente strumento letterario per elaborare ipotesi speculative sulla nostra società.
Temo che queste due posizioni siano ormai inconciliabili, almeno in Spagna, visto che hanno ben poco in comune, aldilà dell’origine.
Entrambe le categorie preferiscono mezzi che rispettino realismo e credibilità, mentre sviluppano per il lettore uno scenario immaginario. Ecco perché penso che i generi fin’ora conosciuti come “fantascienza” siano letteratura realistica d’immaginazione, in contrapposizione alla letteratura d’immaginazione in generale, che non cerca affatto di dimostrare come le sue speculazioni assomiglino a qualcosa che potrebbe accadere in futuro, secondo le leggi fisiche o sociali conosciute. Questo background è tutto ciò che hanno in comune le due tendenze. Durante la loro evoluzione hanno collaborato solo occasionalmente, e molto più spesso si sono scontrate, dato che hanno obiettivi opposti. Per chiarire meglio le differenze, vorrei approfondire un punto che ritengo importante: le motivazioni per le quali uno scrittore decide di utilizzare gli strumenti della fiction speculativa, che considero fondamentalmente quattro:
1. Allegoria. L’azione si svolge nel futuro o in una società alternativa, in modo da rappresentarne simbolicamente una delle caratteristiche – spesso in modo grottesco.
2. Prospettiva ammonitrice . La vicenda mette in guardia sui possibili sviluppi delle tendenze attuali nella nostra società estremizzandole, per denunciarne la pericolosità
3. Speculazione scientifica . L’autore vuole descrivere un futuro possibile, illustrare sviluppi scientifici, o immaginare condizioni sconosciute, ma possibili – o almeno non impossibili – secondo le conoscenze attuali.
4. Puro intrattenimento. Utilizzando il consolidato immaginario di genere, l’autore vuole solo raccontare una storia situata in uno dei convenzionali ambienti che un certo numero di lettori continua a gradire, benché possa aver perso il suo valore allegorico, anticipatorio, o speculativo.
Naturalmente, le motivazioni miste sono frequenti, ma sto descrivendo le categorie di base.
Vorrei richiamare l’attenzione sulle prime due motivazioni. Chiunque conosca abbastanza la storia del genere, sa come fossero le più comuni nei testi considerati gli illustri i precursori della SF. Da quelli di Luciano di Samosata, a Jonathan Swift, inclusi Sir Thomas More e Cyrano de Bergerac. Queste motivazioni hanno anche attratto scrittori recenti, che hanno utilizzato metodi unilateralmente considerati SF da osservatori esterni, senza però riconoscere il loro debito verso di essa: Cormac McCarthy, Kazuo Ishiguro, Margaret Atwood e Paolo Ruffin, praticamente tutti, con due importanti eccezioni – ”Zig Zag” di José Carlos Somoza e ”The Time Traveler’s Wife” di Audrey Niffenigger – hanno scelto una trama realistica d’immaginazione per fini allegorici o ammonitori.
Allo stesso tempo, ma in linea con la sua storia, la stessa SF ha praticamente abbandonato allegorie e prospettive ammonitrici . Se guardiamo alle definizioni nate all’interno del genere, vediamo che non vi si adattano:
“Le storie di fantascienza sono viaggi straordinari verso uno o infiniti futuri possibili”. – Isaac Asimov
“La fantascienza è una forma di narrativa fantastica che sfrutta le potenzialità creative della scienza moderna.” – David Pringle
“La fantascienza è qualsiasi cosa venga pubblicato come fantascienza.” – Norman Spinrad
Dimostrando cinismo o pura ignoranza, le stesse persone che promuovono questo tipo di definizioni della fantascienza si infuriano quando Philip Roth sostiene che ”The Plot Against America” non sia SF – anche se a certe definizioni non si potrebbe mai adattare – e si gloriano di prendere sotto l’ala opere e autori che quelle loro stesse definizioni invece escludono automaticamente, come ”1984” o ”Brave New World”, tradizionali cavalli di battaglia di ogni tentativo di nobilitare il genere. Diciamolo chiaro una volta per tutte: George Orwell e Aldous Huxley non condividevano nessuna delle intenzioni, influenze o espedienti letterari della fantascienza, un genere che esisteva già quando hanno creato le loro opere, e del quale ovviamente non volevano far parte.
Solo occasionalmente nel corso della sua storia, e praticamente mai negli ultimi venti anni, la fantascienza ha rivisitato i temi che costituiscono la spina dorsale di questi due romanzi. Perché non è ancora nato un genere parallelo alla fantascienza, ma con maggiori ambizioni letterarie? Suppongo che chiunque a questo punto chiederebbe : “E perché dovrebbe succedere?” Mi vengono in mente due buone ragioni
1. Perché questo è successo, più o meno esplicitamente, in tutti gli altri generi letterari. Devo spiegare a qualcuno che nel fantasy esiste un filone guidato da Jorge Luis Borges e Julio Cortázar, e un altro da JRR Tolkien, Robert E. Howard, George RR Martin o Andrzej Sapkowski, con tutti i loro relativi discepoli? La letteratura crime è suddivisa fra thriller convenzionale e noir. Nei romanzi storici, il fenomeno è stato più lento a prendere piede, ma ormai è più che evidente la distanza tra il “mistery storico” di Dan Brown e le opere di Robert Graves.
2. Perché nella realtà SF e letteratura allegorico-prospettica (che da ora, in mancanza di un nome migliore, mi limiterò a chiamare “letteratura prospettica”) si ostacolano a vicenda. I lettori arrivati al genere in età adulta, per esempio attraverso le opere di Philip K. Dick e Ballard, si sentiranno respinti da ”Ender’s Game”, o dai commenti nei forum che lo proclamano un capolavoro. Allo stesso modo, un appassionato del ciclo di ”Warhammer” sarà deluso quando le categorizzazioni letterarie lo convinceranno a leggere ”The Road”. Costringere i due filoni sotto lo stesso ombrello fa perdere lettori da entrambi i lati.
Abbiamo un buon esempio nel cinema, dove la fantascienza mantiene una solida egemonia e ottiene risultati commerciali di gran lunga superiori a quelli della letteratura
Torniamo alla domanda precedente. Perché i due sottogeneri non si sono evoluti? La risposta si trova nella nascita del genere nel mercato americano delle riviste specializzate. La compartimentazione commerciale stabilita a New York, e successivamente sviluppata dai due nefasti giganti, Hugo Gernsback e John W. Campbell, è diventato una categoria illogica, com’è dimostrato dalla sua manifesta incapacità di definire in modo corretto l’incoerente e disarticolato guazzabuglio contenuto sotto l’etichetta “fantascienza”.
Il resto è opera del fandom. A livelli non riscontrabili in nessun’altra branca della letteratura, l’esistenza di un gruppo di fans che si identificano con la SF, e vi si dedicano volontariamente, è riuscita ad agevolare la carriera di molti scrittori, e prolungare la sopravvivenza delle opere di alcuni autori meritevoli ma dimenticati come Fredric Brown, ma ha anche perpetuato tradizioni assurde, e mantenuto il mercato abbastanza vincolato da giustificare l’esistenza di collane, riviste, autori, e ghetti specializzati.
Consideriamo il percorso di Roger Zelazny, che negli anni sessanta ha scritto meraviglie come ”A Rose for Ecclesiastes”. Negli anni ottanta s’era ridotto a collaborare con Robert Sheckley su romanzi dai titoli come ”Bring Me the Head of Prince Charming”. La sua carriera è solo una delle molte completamente sacrificate al reddito assicurato e alla gratificazione immediata — piacevole e tossica — fornita dall’immersione nella comunità della fantascienza.
Vale la pena notare che i fenomeni di categorizzazione non s’erano riprodotti in Europa fino a poco tempo fa. Le opere degli autori locali che utilizzavano temi realistico-immaginativi o con un’iconografia fantascientifica venivano pubblicate senza categorizzazione di genere. E gli autori andavano e venivano dal suo campo senza infamia, come Tomás Salvador in Spagna, Italo Calvino e Dino Buzzati in Italia, Robert Merle in Francia o Adolfo Bioy Casares in Argentina. Faceva eccezione l’Europa dell’Est, dove la categoria “scienza” era diventata in breve uno strumento privilegiato di promozione, sebbene gli autori riusciti a superare le frontiere – Stanislaw Lem e i fratelli Strugatsky — l’avevano fatto con opere sostanzialmente allegoriche.
Tuttavia, in tutti i paesi occidentali, le opere statunitensi rientravano nella categoria della fantascienza, nonostante il fatto che i buoni autori trattassero temi simili in collane di letteratura generale. Lentamente, lo sviluppo della categoria e gli studi letterari all’interno del genere notarono queste opere eterodosse, e le accusarono di due cose: di appartenere in realtà alla fantascienza nonostante evitassero con vergogna la categoria, e di avere un basso tenore speculativo.
Sul primo punto, dovrei dire che ho cercato rimandi nella saggistica sul genere per stabilire quando esattamente la fantascienza abbia deciso di appropriarsi unilateralmente di tutte le opere con temi di realismo immaginativo, anche quando avevano poco a che fare con l’insieme di severe regole fissato dai venerabili Gernsback e Campbell. L’idea divenne un luogo comune nel momento in cui opere di sociologia letteraria trovarono ospitalità in riviste come Galaxy e Magazine of Fantasy and Science Fiction, come per esempio i racconti di Frederik Pohl e Alfred Bester. Nella speranza di nobilitare progressivamente la fantascienza e collocare i loro ambiziosi autori in un contesto favorevole, i redattori Horace L. Gold e Anthony Boucher, assieme a critici dell’epoca come Damon Knight, Judith Merrill e Algis Budrys, rivendicarono una connessione con opere di più profondo valore speculativo. Ovviamente l’idea si diffuse durante la New Wave degli anni sessanta, che si spinse un po’ più avanti nella critica delle principali linee guida della fantascienza. Ma solo un po’ più avanti: e gli esperimenti per liberarla dalle sue pastoie, come la creazione dell’etichetta “fiction speculativa”, rimasero a metà strada.
Queste successive evoluzioni ebbero un evidente effetto benefico sulla fantascienza. Oggi è in genere scritta meglio di quella degli anni quaranta e include temi adulti — in particolare il sesso — che un tempo erano tabù. Ma il gli autori degli anni cinquanta e sessanta hanno conosciuto una vera e propria Waterloo nel successivo tentativo di ottenere un pubblico più ampio, e il riconoscimento della letteratura realistico-fantastica da parte dei critici e del pubblico non specializzato.
Non penso che sia sostanzialmente colpa loro. Di fatto, i pregiudizi contro il genere erano già troppo forti, solidificati da fenomeni come l’apparizione negli anni cinquanta di film di fantascienza destinati al mero intrattenimento. E’ stato ancora più difficile in Spagna, dove il fatto di essere un lettore viene spesso brandito come simbolo d’appartenenza a un’élite sociale invece d’essere fonte di cultura e intrattenimento. E così anche un mucchio di buona fantascienza pura, creata con obiettivi scientifici o come semplice intrattenimento, è stata stupidamente messa da parte senza indugi.
D’altronde, è anche vero che l’atteggiamento degli stessi autori della New Wave non era abbastanza determinato. E’ difficile dare credito a qualcuno che insiste sulla serietà e l’importanza della fantascienza, e al tempo stesso scrive sceneggiature per serie televisive con gente del futuro in pigiama, come nel caso di Harlan Ellison con Star Trek. La New Wave voleva cambiare tutto, ma senza correre rischi o abbandonare il gregge. Oggi, gli autori che vanno dai media mainstream a chiedere il riconoscimento della qualità delle grandi opere del genere associandole all’opera di Orwell, dimostrano poi la loro mancanza di rigore e di principi quando assicurano il pubblico riconoscimento al lavoro di artigiani della penna che erano onesti ma mediocri — rispetto al contesto della grande letteratura mondiale — come Asimov o Heinlein. Le ragioni per non ripudiare, o al limite per non collocare questa parte sostanziale del genere nel suo contesto logico, mi spiace ammetterlo, sono assolutamente meschine. Infatti, una volta fallita la rivoluzione, la maggior parte degli scrittori che l’avevano tentata, continuarono a guadagnarsi da vivere nel confortevole ambiente chiuso della SF.
L’unico movimento prodottosi all’interno del nucleo della fantascienza da allora è stato il Cyberpunk. Ma non era una cosa seria. Piuttosto, s’è dimostrato essere solo un sottogenere, retto da scrittori con ambizioni personali diverse, che volevano però tutti diventare una sorta di rockstar. Come nella fantascienza in generale, dal Cyberpunk sono usciti alcuni scrittori di valore. Lo ripeto: solo perché un’opera è finalizzata alla speculazione scientifica o al puro intrattenimento, questo non significa che sia necessariamente di cattiva qualità. Dagli anni ottanta, la fantascienza in senso stretto è stata sostenuta dalle opere di Dan Simmons, Vernor Vinge, Bruce Sterling, Ian Banks e China Mieville, assieme a Ted Chiang, Connie Willis, Greg Egan… ma quando si tratta di opere con un carattere allegorico-ammonitorio, nessun autore con interessi di questo tipo s’è imposto nel genere a partire dagli anni settanta.
Cosa è successo dai tempi della sconfitta della New Wave? Da allora la fantascienza ha reagito al rifiuto del mondo esterno col comportamento tipico del complesso d’inferiorità. E’ introversa, e va orgogliosa di quegli stessi difetti per i quali pensa d’essere stata rifiutata. Di conseguenza, ha lentamente perso l’interesse del resto dei mortali a causa del tipo di opere preferito dai fan, l’auto-referenzialismo, la continua creazione di novità tematiche modaiole per distinguere un’opera dalll’altra, che conduce a una progressiva e barocca sterilità, e la richiesta di auto-ghettizzazione dal resto della letteratura come misura della propria qualità. A un certo punto, la fantascienza s’è detta: “Se non possiamo essere come tutti gli altri in questa città, ce ne andremo da un’altra parte”.
Niente di male di per sé. Si può scegliere la propria strada. Il problema sta nel fatto che la fantascienza ha cercato di catturare, e trattenere all’interno delle proprie mura, tematiche e scrittori che in realtà non avevano né volevano avere niente a che fare con quello che accade lì dentro. Di fatto, questi scrittori e temi occupano una terra che la fantascienza ha lasciato fuori dalle proprie mura quando ha cominciato a costruirle. Devo ripetere questo punto: le definizioni di SF proposte molto spesso dai membri del suo “zoccolo duro” escludono opere di letteratura prospettica. E la stessa SF durante gli ultimi trent’anni (!) ha voltato le spalle ai temi prospettici. Quindi questa terra è de facto esterna alle mura della fantascienza.
Una delle più singolari conseguenze dell’auto-segregazione della fantascienza è la sua determinazione a far vivere dentro le proprie mura persone che non hanno nessun interesse a farlo, piuttosto che riconquistare le terre abbandonate. Di volta in volta, con un atteggiamento degno di un nazionalista serbo o di un jihadista nostalgico dei tempi in cui Al-Andalus era islamica, la fantascienza ha mandato la sua polizia a casa di Cormac McCarthy, di Margaret Atwood, e di tutti quelli che ha ritenuto avessero invaso i territori che le appartenevano. L’agente SF informa questi presunti invasori che devono venire a vivere dentro le mura, e che per essere accolti devono obbedire alle regole che gli abitanti hanno stabilito: non ripetere idee già usate, attenersi a una scienza strettamente realistica, che sia necessario alla trama o meno, evitare il futuro immediato per non rischiare di essere superati dalla realtà…Immagino che McCarthy, Atwood e gli altri neanche fossero in casa quando quelli della Squadra Speciale SF sono andati a suonare il loro campanello. Se c’erano, ed erano in buona, gli avranno offerto qualche biscotto, gli avranno fatto pat-pat sulla testolina, e li avranno buttati fuori appena diventati troppo petulanti.
Oltretutto, il territorio che la fantascienza rivendica come proprio, urlando dalle merlature delle mura, anche se nessuno la ascolta, era già stato edificato prima che Jules Verne costruisse la sua piccola fattoria nel luogo in cui più tardi Hugo Gernsback avrebbe gettato le fondamenta della propria fortezza. E’ vero che per un po’ è sembrato che la fantascienza potesse abbattere una parte delle proprie mura e aprirsi a nuovi territori. Ma non ha funzionato. Le mura sono state ricostruite più alte, e i diritti storici rivendicati su quei territori non valgono niente, perché la gente che vive lì, o che occasionalmente visita il posto, non rispetta le leggi in vigore dentro alle mura.
Il territorio dei temi allegorico-ammontori è esistito, come ho detto, sin dai tempi di Luciano. Oggi si è esteso perché molti scrittori, da José Saramago a Amin Maalouf, hanno lentamente scoperto che una via per dimostrare le loro preoccupazioni sull’evoluzione della società è ipotizzarne uno degli sviluppi più inquietanti.
Ciò di cui non ci si è resi conto è che questo fenomeno è esistito dalla nascita di Amazing Stories fino a oggi, e ha coinvolto non solo i suddetti cavalieri solitari fuori dagli Stati Uniti, ma anche molti scrittori, accidentalmente assorbiti dalla fantascienza, ma le cui opere devono in realtà essere considerate allegoriche-ammonitorie. Non ricevevano il meritato riconoscimento perché vivevano all’interno delle mura. E avevano dovuto traslocare in quartieri nascosti a causa della loro eterodossia.
La SF non li ama. Tipi strani, che guardano oltre le mura, come se si credessero più importanti degli altri. Che creano letteratura usando idee prospettiche come veicolo, una strana forma di eresia ibrida, ovunque male accettata.
In realtà trovo che la SF dovrebbe essere felice di liberarsi di questi autori. Sono quelli che hanno urtato le ristrette definizioni del genere, coloro che i critici che amano la SF hard si sentono obbligati a citare quando riassumono la storia del genere, benché non apprezzino affatto le loro opere o, per essere schietti, neanche le capiscano. Eppure temo che, come in ogni secessione, la mia proposta sarà dolorosa. Magari voglio tirare fuori da quelle mura anche qualcuno che là dentro è adorato. Ma… come ho già detto, sarebbe meglio per tutti.
Chi sono gli autori le cui opere appartengono alla letteratura d’immaginazione prospettica piuttosto che alla fantascienza? Io credo che la questione sia troppo ampia per poter essere trattata del tutto in questa sede. Tuttavia vorrei esporre alcune idee. Per cominciare, penso che ci siano tre autori del genere il cui lavoro contiene quasi sempre delle chiare intenzioni allegoriche o ammonitorie:
– Thomas M. Disch. I suoi tre romanzi emblematici, ”Camp Concentration”, ”The Genocides” e ”On the Wings of Song” sono dei capolavori nell’uso che fanno degli strumenti della fantascienza per denunciare le tendenze della nostra epoca e sviscerare la condizione umana, senza nessun interesse per i temi della fantascienza in se stessi.
Diversità di interessi che potrebbe inoltre spiegare il fatto che Disch non sia mai stato stimato quanto avrebbe meritato per il suo lavoro. La SF ha “ricompensato” il suo sforzo nel genere permettendo che i suoi splendidi romanzi andassero fuori catalogo, e l’autore è morto in povertà un paio d’anni fa.
– J.G. Ballard. Potrebbe essere l’autore che meglio esemplifica questa tipologia e che ha già ottenuto un elevato grado di riconoscimento fuori dal genere. Chiunque conosca i suoi lavori sarà d’accordo nell’affermare che questi non cercano d’intrattenere il lettore o di offrire una prospettiva scientifica realistica. La fantascienza ha “ricompensato” la sua appartenenza al genere non riconoscendogli nemmeno un premio letterario nei suoi cinquant’anni di carriera.
– Ray Bradbury. La sua fantascienza — una parte relativamente piccola delle sue opere, nonostante abbia guadagnato notevole considerazione proprio per quelle — è, nel 95% dei casi, di tipo allegorico, un caso unico tra gli scrittori di fantascienza contemporanei e forse è per questo che ha ricevuto un vasto riconoscimento accademico.
Poi abbiamo altri autori di più incerta collocazione, che hanno scritto solo una parte delle loro opera con obiettivi propri della letteratura speculativa:
– Philip K. Dick. E’ il caso più spinoso. Tutta la sua opera utilizza un’ iconografia strettamente fantascientifica. Malgrado ciò, la usa per parlare di altre questioni: realtà, droga, solitudine, emarginazione…
– Frederik Pohl. La sua acclamata fase di speculazione politica e sociologica durante gli anni cinquanta, da solo o in collaborazione con C.M. Kornbluth — il quale a sua volta creò numerosi capolavori di letteratura prospettica durante la sua breve carriera — è il miglior esempio di quel tipo di speculazione completamente fuori dai canoni correnti della fantascienza. Da allora ha fatto di tutto, ma quasi sempre SF ortodossa.
– Ursula K. LeGuin. Ha scritto l’ultima grande opera su tematiche politiche nella storia della fantascienza, ”The Dispossessed”. Si potrebbe dire che a partire da questo testo lei abbia in effetti abbandonato la fantascienza, e si sia addentrata nel terreno della prospettica. Il resto della sue opere, alcune di esse magnifiche, si muovono in un genere difficile da definire.
– Stanislaw Lem. La sua serie ”The Star Diaries”, insieme ai lavori di Dick e Bradbury, è fra le grandi opere allegoriche della storia del genere, anche se con un risvolto umoristico completamente differente da quello dei suoi colleghi.
Per contrasto opere come ”Solaris” oppure ”The Invincible” potrebbero annoverarsi tra i capolavori della fantascienza pura d’anticipazione scientifica.
– Christopher Priest. Molte delle sue opere — sicuramente ”The Affirmation” e ”The Extremes”, forse ”The Separation” — sono chiaramente prospettiche. ”The Prestige”, dal canto suo, mi sembra essere un esempio superbo di come la fantascienza pura possa conquistare nuovi lettori. Ma questa è tutta un’altra storia.
– Samuel R. Delaney, Robert Silverberg, Roger Zelazny, John Brunner e James Tiptree Jr. mi sembrano essere gli autori più rilevanti del periodo “aperto” della fantascienza, i quali in tutta onestà avrebbero potuto sviluppare le loro carriere nell’ambito della letteratura prospettica più efficacemente di quanto non abbiano fatto nella fantascienza.
Se mettiamo le opere del genere allegorico—prospettico di questi autori insieme a quelle degli scrittori collocati al di fuori della tradizione della fantascienza, otteniamo un corpus abbastanza vasto che ha poco a che vedere con l’attuale egemonia della nuova space opera, dei generi misti con elementi fantasy e tutto il resto.
Questa è la mia proposta per risolvere i problemi della fantascienza: una secessione. La letteratura fantasy ci mostra la strada.
Anche se il fandom potrebbe non essersene al corrente, per anni — da quando Tzvetan Todorov lo suggerì nel 1970 — il mondo accademico è stato propenso a suddividere ciò che chiamiamo “letteratura fantasy” in due campi. Ho chiesto a Fernando Moreno, certamente più esperto di me in questo tema, di definirli con precisione e questo è quanto ci dice:
“Fantastica: letteratura basata su un evento soprannaturale che rompe traumaticamente le nostre convinzioni sul funzionamento della realtà”
“Immaginosa: letteratura ambientata in una società nella quale gli eventi soprannaturali sono accettati come fenomeni della vita di tutti i giorni
Che cosa significa tutto ciò? Che Cortázar e Borges appartengono al primo gruppo; mentre Tolkien e R.A. Salvatore al secondo.
Ammetto che in passato avevo sempre sentito parlare di questa suddivisione da accademici che a dire il vero storcevano il naso all’idea che qualcuno vendesse Dino Buzzati e Margaret Weis nella stessa sezione di una libreria.
Comunque, è una suddivisione che crea un nesso attraverso parametri logici che posseggono un’innegabile utilità in diversi ambiti. Ciò che maggiormente m’interessa è che ci permette di mettere in salvo un certo numero di autori collocandoli nella bella compagnia degli scrittori riconosciuti, come nei casi che ho menzionato. In effetti, insinua anche il malcelato sospetto che la letteratura “immaginosa” sia un genere minore, tuttavia alla lunga, la qualità dei suoi migliori esponenti — da Howard e Lord Dunsany a Gene Wolfe o Susanna Clarke — dovrebbe costituire una difesa sufficiente.
Dove porta questo ragionamento? In breve, la definizione di Fernando ci permette di distinguere facilmente la letteratura prospettica dalla fantascienza:
Prospettica: letteratura basata su un evento innnovativo che rompe traumaticamente le nostre convinzioni sul funzionamento della società.
Fantascienza: letteratura ambientata in una società nella quale eventi futuristici vengono accettati come fenomeni della vita di tutti i giorni.
Certamente ci saranno degli ibridi, così come ce ne sono parecchi nella suddivisione del fantasy. Ma d’altro canto, questo spiegherebbe perché la maggior parte degli scrittori del mainstream che hanno scritto ”fantascienza” ci assicurino che non lo stavano facendo. E la ragione per cui gli stessi editori che non pubblicano fantascienza e gli stessi lettori che non leggerebbero mai fantascienza, possano godersi la lettura di ”The Road”, ”The Handmaid’s Tale”, o ”Never Let Me Go”. La relazione tra il nostro ambiente reale e queste opere è molto più diretta, molto meno contrastante, e molto più accettabile per un pubblico che non vi è abituato. Si tratta, effettivamente, di un equivalente della letteratura fantastica di Cortàzar, ma la trama si sviluppa intorno a una base realistica o razionale che appartiene a un territorio differente.
Inoltre, accettare questa suddivisione ci consentirebbe di inserire molti autori in un campo dotato di regole proprie, e dove potrebbero trovare nuovi lettori. Non è forse vero che la SF ha emarginato scrittori come J.G. Ballard o Thomas M. Disch? Ebbene, ecco qui la spiegazione: in realtà, evidentemente, non stavano facendo fantascienza, così come il nocciolo duro dell’establishment ci ha detto tante volte. Stavano scrivendo letteratura prospettica.
Questa secessione rappresenterebbe una strada difficile per una letteratura che aspirasse a maggiori ambizioni e che fosse in lotta per la sua identità specifica nel cuore del mainstream, ma in cambio i suoi scrittori potrebbero ottenere a volte un riconoscimento maggiore.
Certo io non credo sinceramente che questa separazione avverrà. E’ solo una speculazione, un desiderio, una proposta per risolvere certi problemi. Ma credo che darebbe dei risultati positivi:
– Per la fantascienza, perché potrebbe continuare per la propria strada, libera da ponderosi “guastafeste”. Secondo me è una cattiva strada, ma non è un mio problema.
– Per le opere meritevoli nascoste all’interno della fantascienza, perché potrebbero guadagnarsi una nuova opportunità di ottenere riconoscimento e nuovi lettori, in un contesto più serio rispetto a quello che fornisce la critica specializzata attuale.
– Per gli accademici che continuano ad avvicinarsi al genere sempre in maggior numero, perché potrebbero contare su una chiara distinzione tra opere di diversi livelli che ora condividono una medesima categoria.
Senza dubbio a rimetterci sarebbero gli autori di fantascienza pura. Ma, nel caso nessuno lo avesse notato, di questi tempi ce ne sono pochi.
[Traduzione a cura di Carmilla]