di Walter Catalano

Burroughs

Barry Miles, Io sono Burroughs. Una biografia, Il Saggiatore, 2016, pp. 812, € 40,00

Iniziamo da una doverosa premessa: l’ammissione da parte di chi scrive, di non aver mai potuto sopportare William S. Burroughs. Come figura umana, da quando l’ho scoperto, negli anni lontani in cui la Beat Generation mi sembrava ancora una stagione letteraria sulla quale valesse la pena di spendere del tempo, mi ha sempre provocato un gagliardo disgusto. Niente mi piaceva di lui: il rampollo di una famiglia privilegiata che non ha mai avuto bisogno di lavorare in vita sua e, pur tagliando i ponti con i genitori, si è lasciato mantenere da loro fino ai 50 anni, quando ormai i diritti d’autore gli permettevano di provvedere sufficientemente a se stesso; ha stupidamente ammazzato la moglie, Joan Vollmer – ubriaco e drogato marcio – cercando di emulare Guglielmo Tell con una pistola, di fronte agli amici; ha trascurato e ignorato il figlio, spingendolo indirettamente alla tossicomania (per emulazione del padre) e infine a un lento suicidio; non ha mai fatto niente di costruttivo per la società a parte scrivere (ammesso che scrivere sia qualcosa di costruttivo per la società…), dedicando tutto il suo tempo a bere, spararsi ogni tipo di droga, collezionare (e maneggiare) ossessivamente armi da fuoco e da taglio, frequentare ambigue associazioni pseudo-mistiche come Scientology e soprattutto farsi inchiappettare da tutti i ragazzini che riusciva a sedurre (o, più spesso, a indurre per bisogno, alla prostituzione) in giro per il mondo: Città del Messico, Tangeri, Parigi, Londra, New York e infine Lawrence, Kansas.

Letterariamente l’ho apprezzato altrettanto poco: a parte Junkie (che mi piacque) e Queer (che non mi piacque), non sono mai riuscito a finire un suo libro (compreso il rinomato Il pasto nudo). Mi estenuano il suo stile frammentato e le pretese sperimentazioni del cut-up e del fold-in (che sono comunque un riciclaggio dadaista affinato del meno famoso sodale Brion Gysin, più che che da lui) e mi annoiano mortalmente le continue scene di pornografia omosessuale (devo ammettere, per non fare parzialità, che trovo altrettanto soporifera, in altri contesti, anche la pornografia etero…). Perché allora leggere la monumentale biografia burroughsiana scritta dall’amico e collaboratore inglese Barry Miles? Forse solo per capire meglio questo personaggio che ho sempre ritenuto – magari a torto – sopravvalutato e riformulare con maggiore obbiettività un giudizio su di lui: se è universalmente considerato un grande, chi sono io per affermare il contrario ? Il libro è accurato, le notizie tante. Almeno una cosa posso dire subito: mi ha stimolato, se non altro, a riprendere in mano i principali romanzi di Burroughs e, per ora solo in linea teorica,  a intraprenderne la rilettura, cercando, questa volta, di finirli… Non è poco.

Le premesse iniziali di Miles sono interessanti, peccato che non vengano sviluppate e approfondite nel resto del testo: Burroughs – che credeva fermamente nella magia nera, nella stregoneria, nel contattismo ufologico e in molte altre insospettabili idiozie – si sottopose in età matura ad un rituale di purificazione dei nativi americani, la camera essudatoria: ci restò quasi secco, perché aveva già il cuore malandato, ma disse con soddisfazione di essere finalmente riuscito a liberarsi dal male, il demone che lo aveva posseduto per tutta la vita. Un bel modo – un classico – di sgravarsi la coscienza: per questo abbiamo inventato i demoni, la colpa è sempre loro, non nostra. Tutta la vita di Burroughs, secondo questa comoda visione, non è stata che una lotta con lo spirito maligno, il suo demone personale. Sarebbe stato un filo conduttore in fondo divertente – degno di Blatty o di King – ma che purtroppo non viene più ripreso nei capitoli successivi.

Un altro aspetto originale che emerge dalle dettagliate informazioni raccolte con maniacale rigore da Miles è la sostanziale estraneità di Burroughs al calderone in cui si è voluto ficcarlo a forza: la Beat Generation. Per estrazione sociale, età, educazione, visione del mondo e della letteratura, Bill ha ben poco a che vedere con gli idealizzati protagonisti delle ingenue agiografie compilate da Fernanda Pivano e dai suoi emuli in cerca di facili miti: Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Neal Cassady, Gregory Corso, tutti più giovani di lui, tutti di estrazione proletaria, tutti cresciuti ed educati ben lontano dai college esclusivi e dalla Harvard University, tutti provincialmente americani nel profondo e assai poco inclini allo sradicamento cosmopolita: sono amici o conoscenti, occasionali amanti, talvolta confidenti e amanuensi devoti, ma non molto di più. Burroughs si lamenta ripetutamente e con severità dell’abbigliamento trasandato e dei modi da buzzurro di Corso, della spilorceria e della grettezza di Kerouac, non sopporta Cassady che considera solo un buono a nulla e uno scroccone, apprezza giusto un po’ di più Ginsberg, con il quale ha una relazione sentimentale lunga e tormentata, e che almeno è gentile e premuroso e si presta a fargli da editor, segretario e dattilografo (non risparmierà però neanche a lui pesanti ironie negli anni ’70, rimproverandogli orientalismi e pacifismo hippie).

Burroughs, a differenza loro, non ama l’America, non gli interessa percorrerla coast to coast, criticarla o mitizzarla, la ignora e scappa appena può, prima in Messico, poi in Marocco, in seguito a Parigi e a Londra: gli amici Beatnik, se proprio vogliono venire in visita nei suoi rifugi esotici o europei, sono sempre ospiti graditi, ma di preferenza Bill si sceglie compagnie più raffinate, come Paul Bowles a Tangeri, Francis Bacon a Londra, insieme a tutto il Gotha snobistico della pederastia artistica internazionale ispirata da Maugham e Isherwood. La mitizzata relazione con Kerouac si limita a poco più di un episodio di cronaca nera: a New York, i due vengono arrestati per favoreggiamento nei confronti dell’amico Lucien Carr, che aveva ucciso per motivi passionali  un altro amico comune, Dave Kammerer: entrambi escono su cauzione e su quella vicenda scrivono, un capitolo per uno, un mediocre romanzo, E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, pubblicato 63 anni dopo. Negli anni seguenti i rapporti tra loro sono per lo più saltuari e freddi: Burroughs aveva sempre detestato le pagine di On the Road in cui Kerouac lo aveva rappresentato sotto il nome di Old Bull Lee; da parte sua, non senza icastica esattezza, seppe trovare la perfetta definizione del Jack degli ultimi anni: “un coglione sovrappeso che si scola una birra dietro l’altra seduto a guardare la televisione accanto alla vecchia mamma”. Di certo, proprio perché non ha quasi niente a che vedere con essa, Burroughs è l’esponente letterariamente più solido della Beat Generation. Questa fu inventata, a posteriori e ad usum delphini, soprattutto da Ferlinghetti e da Ginsberg (nelle ricadute italiane, ovviamente anche dalla Pivano) e, frutto occasionale e discontinuo di individui isolati, non esistette mai come movimento unitario e consapevole di se stesso

Dunque Burroughs non fu affatto un Beatnik: è grande merito del libro infrangere questo come gran parte degli altri luoghi comuni e delle leggende accumulate sulla figura del protagonista e su tutto il suo background. Burroughs, per esempio, non fu astiosamente misogino, come si racconta, se non per posa: per quanto prevalentemente omosessuale passivo, ebbe saltuari affair con donne (come, del resto, anche Ginsberg) e si sposò ben due volte (la prima, in giovane età, addirittura per motivi cavallereschi: perché fosse concessa la cittadinanza americana ad un’ebrea austriaca permettendole di lasciare l’Europa), dichiarò perfino che andare con una donna ogni tanto non era sgradevole, anche se “era come mangiarsi una tortilla quando avevi voglia di una bistecca” (Miles, con britannica puntigliosità, ha allegato anche le testimonianze della moglie e di alcune partner occasionali che esprimono piena soddisfazione). Al di là della maschera, non fu un uomo impassibile e dal cuore di pietra: tendeva invece al sentimentalismo nei rapporti affettivi e prendeva forti cotte per i ragazzini che si rimorchiava, trasformandosi di solito, da sfruttatore in sfruttato; non riuscì mai inoltre a superare del tutto il senso di colpa per l’uxoricidio commesso: tutta la propria carriera letteraria viene letta consapevolmente dall’autore stesso (e questa è anche l’interpretazione che sceglierà David Cronenberg nel suo adattamento cinematografico di Naked Lunch) come un unico psicodramma espiatorio.

Non fu un duro e un tipaccio da hard-boiled novel: nonostante andasse sempre in giro armato, quando non era ubriaco o troppo fatto (cosa non troppo frequente, in verità), fu persona di modi estremamente formali e cortesi, un british gentleman dall’aspetto e dall’abbigliamento da impiegato di banca. Non ebbe alcuna chiara coscienza politica: criticava il sistema capitalistico americano ma in Texas alla fine degli anni ’40 tentò di impiantare un’azienda agricola sfruttando i braccianti messicani, nei brevi periodi in cui fu proprietario impose affitti ben poco equi ai suoi inquilini e, residente straniero in paesi poveri come Messico e Marocco, si approfittò sessualmente della fame di decine di giovani peones o fellahin; a Chicago nel 1968 però dimostrò sensibilità sociale, insieme a Ginsberg e a Jean Genet, appoggiò la campagna presidenziale di Eugene McCarthy e dopo la violenta repressione poliziesca contro gli yippies, denunciò con vigore su Esquire le violenze degli sbirri definendoli “cani feroci”: i tre scrittori avevano guidato una marcia illegale di protesta attraversando quasi indenni i lanci di lacrimogeni e le cariche rabbiose della Guardia Nazionale, per rifugiarsi poi nelle proprie camere all’Hotel Sheraton. Infine fu un tossicomane per tutta la vita ma sempre a intervalli: le continue terapie di disintossicazione conducevano a periodi di sobrietà anche lunghi, con successive, inevitabili ricadute: al di là di ogni forzatura epica maledettistica, restò un consumatore abituale soprattutto di metadone.

Ultimo pregio del volume è la capacità da parte di Miles di individuare molto chiaramente le fondamentali connessioni dell’opera di Burroughs con quella di altri intellettuali, scrittori ed artisti, che ne trassero ispirazione in ambiti spesso lontanissimi da quello di origine: un esempio di slittamento progressivo dall’arte di avanguardia alla cultura di massa. E’ il caso, ad esempio della nuova fantascienza britannica dell’entourage di New Worlds: Michael Moorcock, Brian Aldiss e soprattutto James G. Ballard, lessero con molta attenzione la trilogia burroughsiana di The Soft Machine, The Ticket That Exploided, Nova Express, e più tardi The Wild Boys, romanzi senza i quali probabilmente non sarebbero mai nati (o sarebbero stati assolutamente diversi) personaggi come Jerry Cornelius o testi come The Atrocity Exibition o Crash. Della musica rock e in particolare del punk: già negli anni ’60, il gruppo prima psichedelico, poi di jazz-rock d’avanguardia dei Soft Machine, prese nome dal romanzo di Burroughs; David Bowie tentò di ibridare The Wild Boys con 1984 di George Orwell, nell’album concept fantascientifico Diamond Dogs  del 1974; Tom Waits scrisse con lui la “fiaba musicale” The Black Rider; Ian Curtis e Kurt Cobain, Frank Zappa e Patti Smith, Debby Harry e Jimmy Page, Joe Strummer dei Clash e Lou Reed, Genesis P-Orridge e l’epica Industrial dei Throbbing Gristle, furono, in contesti  e gradazioni diverse, tutti in profondo debito culturale e ispirativo nei suoi confronti. Perfino nell’ambito delle arti figurative, i suoi shooting paintings – pittura fatta sparando con armi da fuoco su barattoli di colore – inflazionarono per un certo periodo le gallerie d’arte d’avanguardia e trovarono innumerevoli ammiratori e imitatori. Anche questa volta l’idea non era stata sua ma di Marcel Duchamp nel 1915: dove però l’artista francese si era annoiato subito, Burroughs aveva costruito una nuova e remunerativa carriera. Ormai bastava il suo nome e la sua faccia, già vecchia e rugosa, a inventare un fenomeno.

Con tutte le sue contraddizioni – alla fine delle 800 pagine di questa densissima biografia – Burroughs resta un personaggio ambiguo e sfuggente, e proprio per questo interessante: il mistero del suo successo e del suo possibile genio non viene sciolto, ma un volto più umano ora traspare dietro l’impassibile maschera delle sue immagini pubbliche. Forse, con pazienza, non resta ormai che riprendere faticosamente in mano i suoi libri per scoprire finalmente se the Invisible Man abbia mai avuto davvero qualcosa da dirci.