di Mauro Baldrati
Si dice: la fede. Qui nessuno si sogna di mancare di rispetto alla religione, cattolica, ebraica o islamica che sia. Ma un conto è la preghiera, la trasfigurazione dell’energia attraverso il mantra (anche le preghiere cattoliche dei vespri sono un mantra), un altro è usare la religione per la guerra e il terrorismo. E un conto è prendere la religione per girare un film come questo. Leggiamo qua e là che Silence è un’opera complessa sulla religione affrontata da varie angolazioni: il dubbio della fede, una certa arroganza di chi si considera depositario della Verità, il coraggio di fare una scelta che esuli da se stessi per cercare il bene altrui.
Con la tecnica della scrittura giornalistica non è difficile trovare variabili e dinamiche in un film, o in un testo. Qualche forzatura nei punti più deboli, il gioco dei simboli, colpi di luce negli angoli bui e la recensione è pronta. Un film debole si carica di forza, un altro piatto e noioso diventa ricco di sorprese e di metafore. C’era uno scrittore che si divertiva a confezionare due recensioni di una stessa opera: una positiva e una negativa. Entrambe erano credibili. Si chiama mestiere.
Così, giocando su elementi perlopiù teorici, si può parlare di Silence come di un film di tutt’altra natura rispetto a quella reale: quando invece si tratta di un pachiderma che schiaccia lo spettatore sotto una cappa di prediche, di dialoghi teologici, di sacrificio per la fede, di voglia di essere punito, di “perdonami perché ho peccato”. Anche la mimica è pedante e scontata: i giapponesi cristiani si commuovono quando vedono i “padri”, con lacrime, mani giunte, suppliche di essere confessati e assolti. Così dobbiamo contemplare questi lunghissimi, primissimi piani di devoti che guardano il cielo e piangono, mentre i due frati li consolano, li accarezzano.
La trama è nota, come per tutti i blockbuster: nel ‘600 due frati gesuiti partono per il Giappone alla ricerca di un confratello, che è stato il loro maestro, del quale si sono perse le tracce. O meglio, pare che sia diventato un apostata, ovvero che abbia rinnegato la fede cristiana. Arrivano nella terra misteriosa, un’isola chiusa al mondo (a parte il commercio con gli olandesi, gli unici ammessi) e per tutto il film cercano di sfuggire alla persecuzione contro i cristiani. Le autorità imperiali infatti vogliono estirpare le radici stesse del cristianesimo, perché non attecchisca nella loro terra. Seguono scene di esecuzioni, torture, tutto per obbligare i fedeli ad abiurare, calpestando un’immagine sacra.
Le sequenze sono girate con maestria, (e come potrebbe essere il contrario con Scorsese), ma quanta poca tensione, persino nei roghi, negli annegamenti, quanto controllo filtrato dall’unica esigenza che pare muovere il regista: dichiarazioni di fede, sofferenza cristiana, invocazioni a Dio perché metta fine al suo silenzio, per poi concludere che “è nel silenzio che riposa la Tua voce.” Fino ad arrivare in una delle ultime sequenze, quando il padre, messo di fronte all’immagine sacra da calpestare, dilaniato dal dubbio se farlo per salvare altre vite o restare coerente fino alla morte (sua e degli altri), riceve finalmente un messaggio di Dio. Cioè, Dio gli parla con voce umana, gli dice cosa fare, come in Don Camillo. Senza scherzi.
Viene da chiedersi perché Scorsese abbia girato un film come questo. Una conversione? Oppure, come è probabile, è sempre stato un cattolico fervente? Nulla di strano, ma perché imporre con un tale integralismo la propria fede in un’opera, sacrificando ogni stile, ogni ritmo, ogni tensione? Ci chiediamo se il regista produttore del magnifico documentario sul blues sia la stessa persona. Viene da arrabbiarsi, anche con se stessi, perché di questi tempi nei quali l’avventura e la fiction possono transitare bruscamente nel manierismo e nel didascalico senza mediazioni, non è più possibile, per lo spettatore, affrontare un’opera senza documentarsi prima con puntiglio, per evitare il “pacco”, che è sempre in agguato, anche da parte di autori che stimiamo.
All’inizio, quando parte il viaggio alla ricerca del padre apostata, è inevitabile evocare Apocalypse Now. Il padre scomparso come Kurz. Ma quando finalmente avviene l’incontro, quanta poca tensione, quanta epica sbrigativa.
Beh, forse evocare il film di Coppola in fondo non è del tutto sbagliato: infatti è davvero l’apocalaypse, qui e ora; ma dello spettatore.