di Gioacchino Toni
Sara Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2016, pp. 106, € 8,00
Madri assassine di Sara Fariello affronta la questione del figlicidio mettendo in evidenza come, al di là della morbosa attenzione dell’opinione pubblica alimentata dai media, i processi di stigmatizzazione e di criminalizzazione della donna nel ruolo di madre assassina risultino «funzionali al mantenimento e al rafforzamento di un sistema che, da un lato, smantella il Welfare e le garanzie a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici e, dall’altro, tende ancora – o di nuovo – ad estromettere le donne da alcuni ambiti per relegarle, dopo i movimenti di liberazione ed emancipazione degli anni ’70, nel ruolo di “buone madri”» (p. 11).
Nel saggio i figlicidi vengono affrontati con un’ottica sociologica che sposta lo sguardo dalla prospettiva individuale di ogni singola figlicida alla società ed alle sue responsabilità. «I figlicidi rappresentano qui solo un “pretesto” per parlare di soggettività femminili, crisi del Welfare e diritti negati in un’epoca che stiamo imparando a definire “post-patriarcale” o “neo-patriarcale”» (p. 13). Con il termine “post-patriarcale” la studiosa fa riferimento ad un contesto trasformato dalle conquiste e dalle libertà femminili che permettono alle donne di accedere alla sfera pubblica ed al mondo del lavoro, mentre con il termine “neo-patriarcale” si riferisce al ritorno del patriarcato sotto nuove spoglie. «La femminilizzazione del mondo del lavoro e dello spazio pubblico, infatti, non corrisponde ad un reale rafforzamento del ruolo della donna, ma ad un’ulteriore fase del processo di sfruttamento delle risorse femminili, operato da un sistema che alterna vecchi registri misogini alla capacità di appropriarsi delle abilità femminili per piegarlo ai suoi fini. In questo contesto, la libertà femminile diventa una nuova forma di schiavitù rispetto ai valori consumistici del neo-liberismo e rispetto ai dispositivi utilizzati per gestire pubblicamente le soggettività» (p. 13).
La studiosa si sofferma sulla distinzione tra infanticidio e figliocidio. Nel primo caso ci si riferisce all’uccisione del neonato subito dopo il parto e se tale fenomeno in passato veniva legato a gravi situazioni di emarginazione, ignoranza e precarietà economica, oggi, nelle società occidentali, tende ad essere letto come reato commesso dalle giovani madri, spesso non sposate che presentano fenomeni di “negazione della maternità” tanto che il parto sovente giunge del tutto inaspettato. L’infanticidio in alcune società antiche è incoraggiato dai valori culturali e dalla legislazione. Il figlicidio rappresenta invece, per certi versi, un caso più complesso ed avviene solitamente dopo il primo anno di età, quando tra madre e figlio si è già stabilita una precisa relazione di affetto ed accudimento.
«La tendenza ad attribuire alla donna che uccide i propri figli delle limitate capacità mentali […] non è solo propria del discorso giuridico ma, più in generale, riguarda il modo “comune” di accostarsi al fenomeno, ed è questo forse il motivo per cui la tematica in questione è stata sempre studiata e analizzata dal punto di vista della psichiatria e della criminologia. Si tratta di un discorso stereotipato, fondato su una rappresentazione culturale della donna che la vede completamente incapace di uccidere e di esprimere una tale violenza fisica se non per cause psicopatologiche. Sembra sia questo l’unico modo di reagire allo sgomento provocato dall’irruzione nel nostro immaginario, che tende ad attribuire alla maternità un valore assoluto, di immagini di violenza e di brutalità sui propri bambini da parte di donne in apparenza “normali”» (p. 24).
Tale tipo di omicidio non può essere spiegato ricorrendo all’idea che sia determinato dalla “pazzia” o da un “raptus”. Solitamente il figlicidio è preceduto da situazioni ricorrenti che, soprattutto in Italia, sembrano scarsamente ricevere la giusta attenzione da parte non solo di medici ed assistenti sociali ma anche, e soprattutto, della famiglia. Esiste una “responsabilità sociale” alla base di tali tragedie che, secondo la studiosa, è stata sino ad ora scarsamente indagata e troppo spesso si sorvolano le responsabilità di politiche che stanno progressivamente smantellando il Welfare. La precarizzazione dei rapporti di lavoro e la mancanza di reti sociali solidali rendono la vita delle donne-madri particolarmente difficile. «Esistono forse oggi condizioni sociali che favoriscono l’esplosione della tragedia: molte giovani coppie entrano in crisi proprio con l’arrivo del primo figlio poiché la trasformazione dei ritmi e delle abitudini di vita che la nascita di un bambino provoca – perdita dell’intimità e del tempo libero, cambiamenti legati alla sfera psico-fisica – s’intrecciano a condizioni di difficoltà economica e precarietà occupazionale» (p. 31). Inoltre, sottolinea la studiosa, la maternità acuisce l’ineguaglianza all’interno della coppia.
Pur avendo perso smalto rispetto al passato, la “mistica della maternità” fatica ad essere considerata parte delle grandi costruzioni politiche e culturali della “civiltà dell’uomo”. Secondo la studiosa per riportare l’infanticidio alla “normalità” occorre che questo sia contestualizzato all’interno delle trasformazioni della vita privata e pubblica ed occorre indagare la percezione che una donna ha di se stessa e del mondo. È forse possibile immaginare che nelle madri-assassine si manifestino i segnali di una società in profonda crisi: «un senso di soffocamento all’interno di contesti familiari e sociali frustranti, di meccanismi percepiti come privi di senso come terribilmente vincolanti delle aspirazioni personali; inoltre, un vivo senso d’inadeguatezza rispetto a ruoli sempre più performanti, nella vita professionale come in quella affettiva. Una società, basata ancora sulla divisione sessuale dei ruoli, in cui non è prevista nessuna responsabilità o modalità collettiva per il soddisfacimento (non alienante) dei bisogni, ma che ha (ri)collocato tale soddisfacimento all’interno dei rapporti affettivi più importanti: dentro e fuori la famiglia, alla donna viene chiesto di soddisfare e riconoscere il bisogno altrui, vecchi, malati, bambini e maschi adulti, nella misura in cui le si impedisce di riconoscere il proprio. Viviamo d’altronde in una fase storica e sociale nella quale le donne sono continuamente sotto pressione in casa come nel mondo del lavoro: da un lato, esse sono un “bacino strategico” per il capitalismo flessibile e cognitivo che “mette a valore” le attitudini comunicative, relazionali e di cura che si considerano tradizionalmente “femminili” in ragione del loro ruolo riproduttivo, dall’altro esse vivono e sperimentano condizioni di precarietà sempre peggiori […] Di fronte alle “richieste” sempre più pressanti di un sistema economico e lavorativo che pretende partecipazione, disponibilità infinita di tempo e risorse, anche in assenza delle tutele minime, le donne sono spesso costrette a indietreggiare per poter preservare la sfera privata degli affetti» (pp. 38-39).
Fariello, dopo aver spiegato come il “post-patriarcato” contemporaneo sia caratterizzato da un “patriarchismo di ritorno” che determina una “maternità intrappolata dal politicamente corretto”, nel Secondo capitolo del saggio passa in rassegna la figura della madre nella riflessione femminista a partire dalle considerazioni di Simone de Beauvoir di metà Novecento, passando per il pensiero della differenza, sino ad affrontare le proposte che mettono in discussione l’idea di una soggettività femminile unitaria e che vedono la costruzione sociale e discorsiva dell’identità soggettiva come il risultato della combinazione del “genere” con altri assi di differenza (razza, classe sociale, orientamento sessuale…).
Nel Terzo capitolo vengono analizzati i “Processi di stigmatizzazione nella società sessista”. A lungo le teorie sulla delinquenza hanno ragionato sul divario tra il tasso di delinquenza maschile e quello femminile a partire dalla subalternità sociale femminile e dalla presunzione di un’inferiorità biologica ed intellettuale della donna giungendo così, di fatto, a concepire le donne come “naturalmente incapaci di condotte autonome”, dunque anche di atti di devianza. Nelle teorie della criminalità femminile elaborate nel corso degli anni Settanta del Novecento, si individua nel “genere” una variabile per comprendere la devianza e l’aumentata propensione delle donne all’atto criminale viene ricollegato al processo di emancipazione femminile: sarebbe l’accesso della donna a ruoli in società solitamente maschili a comportare un suo maggior coinvolgimento in attività illecite.
Dunque, sostiene Fariello, «se volessimo leggere il probabile aumento dei reati legati al figlicidio materno all’interno di tali prospettive teoriche, potremmo affermare che il motivo per il quale le donne compiono reati strettamente legati alla propria condizione biologica è che esse sono sostanzialmente relegate in un ambito familiare; se, al contrario, fossero maggiormente coinvolte nella società e occupassero posizioni rilevanti anche nel mondo del lavoro, con ogni probabilità commetterebbero più crimini tradizionalmente “maschili” quali la frode, i furti, la truffa o i reati dei “colletti bianchi”. È, dunque, proprio l’ambito familiare, lo scenario d’elezione del crimine femminile in ragione del “ruolo” assegnato alla donna nell’ambito della vita domestica: essa è, da un lato, vittima della violenza maschile, e dall’altro, artefice di altre violenze» (pp. 80-81).
Il femminismo radicale «sottolinea l’importanza dei meccanismi di “costruzione” sociale della devianza occupandosi dei modi in cui il sistema economico capitalista favorisce e produce l’oggetto “criminalità” attraverso la creazione di una società maschilista e patriarcale caratterizzata dal dominio degli uomini sulle donne (qui, dunque, l’aspetto del crimine scivola in secondo piano). Il maschilismo definisce il valore di una donna in relazione alla famiglia e conferisce agli uomini il controllo sulla riproduzione. In questa prospettiva, la liberazione delle donne dal dominio maschile, attraverso l’acquisizione di nuove consapevolezze e il controllo sul proprio corpo, non provocherebbe un aumento dei tassi di criminalità femminile ma, al contrario, faciliterebbe sia la riduzione dei reati commessi dalle donne, sia un calo della violenza maschile sulle donne. Di conseguenza, è possibile ipotizzare che anche i reati di “figlicidio”, così come quelli di “femminicidio”, tenderebbero a diminuire se le relazioni sociali e familiari si ristrutturassero intorno ad un modello diverso» (p. 83).
Statisticamente i crimini commessi dalle donne sono soprattutto contro il patrimonio e ben raramente si tratta di omicidi. Nonostante ciò i delitti “al femminile” che ottengono le prime pagine dei giornali e la ribalta televisiva sono quelli contro la persona, in tal modo «viene confermato e si riproduce lo stereotipo culturale (nel quale si riflettono gli assunti della criminologia positivista e delle teorie biologiche) che rappresenta la donna come un essere incapace di violenza e, nel caso di devianza, come biologicamente anormale, come una “malata” o una “pazza” da curare o allontanare dalla società» (p. 86).
Fariello sottolinea come «gran parte dei figlicidi sembra essere compiuto dai padri, ma tali delitti vengono spesso classificati come stragi familiari o suicidi allargati poiché gli uomini uccidono spesso, insieme ai figli, anche le proprie mogli e compagne. Gli omicidi in famiglia, cioè, sono equamente distribuiti tra uomini e donne e quindi non è vera l’affermazione per la quale le madri uccidono di più. La differenza è che i padri tendono ad uccidere figli più grandi a causa dei contrasti e dei conflitti familiari. Uccidono di meno i bimbi piccoli perché hanno un ruolo diverso da quello delle madri e non li percepiscono come una propaggine di se stessi, una parte da eliminare» (pp. 86-87). Perché allora non esiste la figura del “padre assassino”? Perché l’uccisione di un figlio da parte di un padre non provoca lo stesso stupore che si riscontra quando è una madre ad uccidere?
La parte conclusiva del saggio è in buona parte dedicata alle modalità con cui i media affrontano i casi di “madri assassine” ed a tal proposito la studiosa insiste sul ruolo di “distrazione di massa” svolta soprattutto dal mezzo televisivo. «È come se la “televisione del crimine” – c’è chi ha parlato di “televisione assassina”– sostituisse la televisione dell’informazione e dell’inchiesta sociale, dal momento che si riducono gli spazi concessi ad altri tipi di notizie, come quelle riguardanti la crisi economica. In altri termini si potrebbe affermare che la “questione criminale” soppianta la “questione sociale” anche nelle dinamiche mass-mediatiche delle società post-fordiste. L’ipotesi che si fa strada è che questi meccanismi non rispondano solo ad esigenze di “commercializzazione”, ma siano utilizzati anche per orientare l’attenzione dell’opinione pubblica in un senso piuttosto che in un altro, con modalità e tecniche discorsive che “distraggono” i cittadini-telespettatori e che, spesso, confondono le idee» (p. 89).