di Girolamo De Michele
Questo testo è tratto dalle pp. 295-310 di La scuola è di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla, minimum fax, Roma 2010 [qui la scheda del libro]
Circola da qualche tempo una versione edulcorata, friendly del fascismo. Che recita, più o meno, così: «A parte la mancanza di libertà, la guerra e il razzismo — su cui non sono d’accordo — considero il fascismo un regime che ha avuto lati positivi, e Mussolini uno statista che ha fatto del bene all’Italia».
È una versione Ikea, o prêt-à-porter, del fascismo:15 passo col carrello e prendo quello che mi serve, quello che non mi piace lo lascio sugli scaffali, o magari prendo quell’affare lì, ma invece che appenderlo in orizzontale lo metto a terra in verticale, che funziona meglio. È un fascismo talmente facile che lo capisce anche un calciatore — e infatti è capitato di sentirlo enunciare anche da qualche calciatore con la celtica tatuata.
È un aspetto di quella fascistizzazione cui stiamo andando incontro nell’apparente indifferenza dell’opinione pubblica: l’ignoranza del fascismo ne produce versioni caricaturali, da appaiare alle versioni caricaturali della Resistenza.
Rimane il problema di non poter dare per scontata la conoscenza del fascismo. E di doverne dare una definizione che non si limiti al fascismo storico, ma tenga conto della fascistizzazione in corso, che il maestro reggiano Caliceti denuncia con vigore [qui l’integrale]:
«Questa è la regola non scritta della Gelmini: siate ubbidienti e servili. L’ideologia pericolosa del Governo-Azienda si riproduce nella Scuola-Azienda. Non ti licenzio, osi protestare? La concezione della democrazia e del rapporto fra i funzionari dello Stato e i loro dirigenti è sempre più preoccupante. Chi è dipendente dello Stato non potrebbe esprimersi criticamente e pubblicamente su come i superiori operano per quel “bene comune” che è sempre meno bene e sempre meno “comune”. […] Nessuno si accorge che stiamo arrivando a larghe falcate alla fascistizzazione della Scuola?»
Umberto Eco ha provato a dare una definizione complessa di quello che ha chiamato «Ur-fascismo», una sorta di archetipo che consente di usare la parola fascismo per designare sia i diversi fascismi storici (italiano, spagnolo, croato, tedesco, rumeno, ecc.), sia i molti, e non coincidenti, neofascismi contemporanei [qui il testo di Eco]. Il contenuto di alcune definizioni non mi ha del tutto convinto, ma il metodo sì: e quindi proverò a tracciare, nel mio piccolo, una sorta di mappa del fascismo pedagogico, per poter dire con chiarezza che cosa dobbiamo riconoscere, temere e combattere in quanto fascismo. Con ogni mezzo necessario.
Seguendo il metodo di Eco, proporrò dieci tratti caratteristici del fascismo pedagogico.
A differenza di Eco, io non sostengo che ogni singola caratteristica di quelle che andrò a enumerare sia in sé pedagogicamente fascista: ne ha la potenzialità, ma non lo è in sé. Vale a dire: una di queste caratteristiche potrebbe esistere (e a volte accade) all’interno di una didattica non fascista. Il tratto fascista emerge quando alcune di queste caratteristiche fanno sistema, si legano l’una all’altra. Facendo sistema, rendono concreta la possibilità, o la predisposizione, al fascismo che cova dentro ciascuna di esse.
Dal punto di vista di una comprensione della scuola del fascismo storico, considero un falso dilemma la reale natura della pedagogia (e della prassi ministeriale) di Giovanni Gentile: le differenze tra Gentile e il fascismo, e anche il riconoscimento di alcuni tratti tuttora validi della pedagogia gentiliana, non contraddicono il fatto che la sua teoria venne a costituirsi come uno dei tratti della fascistizzazione dello Stato e della costruzione dello Stato totalitario.
Funzione selettiva
La funzione che Gentile attribuiva al liceo — nello specifico, a quello classico — era di formare la classe dirigente del paese. In linea teorica, questa selezione non era il mero rispecchiamento della distinzione di classe: l’appartenenza ai ceti dominanti non era, secondo il filosofo, elemento sufficiente a determinare l’accesso alle funzioni dirigenti della società. Nondimeno l’uomo universale, «forte della piena coscienza dell’esser suo», in definitiva l’uomo eroico è per Gentile «l’uomo, dicasi pure, delle classi dirigenti; senza il quale non è neanche possibile quell’altro [uomo] della buona digestione». Si può argomentare che la scuola fascista diede, nel riformare e attenuare certi aspetti della riforma Gentile, un riconoscimento sociale a quel ceto medio che del fascismo aveva costituito il terreno di coltura, e che costituiva la base di consenso del regime. E che la Carta della Scuola di Bottai riconosceva l’avvenuto ingresso delle masse popolari nella scuola e sanciva «l’avvento di fatto di una scuola popolare». Nondimeno, lo stesso Bottai ammoniva che «una scuola di popolo in tanto è tale in quanto è capace di selezionare». E tale proponimento viene più volte ribadito da Bottai contro l’eccessiva diffusione sul territorio dei licei classici: «Ridotto il liceo classico a scuola per tutti, la cultura classica corre il rischio di precipitare verso un generico verbalismo ed un formalismo del tutto esteriore» [Gianluca Gabrielli e Davide Montino (a cura di), La scuola fascista, Ombre Corte, Verona 2009, pp. 37-38, 115].
È evidente che questa selettività affondava le proprie radici in una divisione di classe che la scuola, al di là dell’utopia di Gentile e dei casi isolati di subalterni che riuscivano a conseguire una preparazione d’eccellenza, si incaricava di fatto di sedimentare, legittimare e perpetuare.
Ogni sistema scolastico che abbia come obiettivo non il più ampio conseguimento del più alto grado di preparazione possibile, ma la selezione di una élite è classista nei fatti, e potenzialmente fascista.
Autoritarismo
L’insegnamento è, nella visione di Gentile, basato sulla libertà: su un libero atto dello spirito all’interno del quale soggetto e oggetto si fondono nel processo vivente della coscienza che apprende. Ma tale libertà, ammonisce Gentile, è libertà per il docente, mai per l’allievo. A fondamento di questa visione è la convinzione che senza classe dirigente non c’è società, che la società non «è concepibile senza classi dirigenti, senza uomini che pensino per sé e per gli altri». La scuola fascista, con la militarizzazione del corpo, con la fascistizzazione della didattica, con l’eliminazione dello spazio tra tempo della scuola e tempo della vita, non farà altro che dare forma più esplicita e rozza all’assunto che il magistero del docente ha lo scopo di inculcare nello scolaro l’idea che l’autorità è un elemento naturale e necessario, e dunque non può essere messa in discussione.
Il mito dell’autorevolezza non fa che ricoprire di ipocrisia questo assunto. Un mito che si presenta spesso con correlati al limite del ridicolo: ad esempio che un insegnante non possa mettere il massimo dei voti, perché significherebbe elevare lo studente all’altezza del docente.
Ogni didattica che non ammetta la possibilità di errore, che non riconosca il valore formativo della messa in discussione e della critica degli assunti del docente da parte dello studente è potenzialmente fascista.
Didattica normativa
La scuola fascista ebbe, come punto di approdo, l’elaborazione di una serie di «catechismi» e di slogan che rendevano i contenuti da apprendere non solo facili da memorizzare, ma soprattutto acquisibili senza alcun uso della facoltà di giudizio. Credere, obbedire, combattere era la sintesi di una didattica finalizzata a rendere naturale, istintiva l’obbedienza alla norma, che in quanto tale non poteva essere messa in discussione.
Non potrebbe esistere distanza più grande rispetto all’idea di cittadino-persona presente all’interno della Costituzione nata dalla Resistenza, che concepisce la massima espansione della persona, delle sue capacità, dei suoi diritti — sino alla possibilità di inserire nuovi diritti all’interno della Carta Costituzionale. La messa in discussione delle norme è il vero discrimine tra queste due concezioni della scuola.
Ogni sistema scolastico che non contempli tra le proprie finalità la formazione di menti in grado di esercitare con giudizio la critica dello stato di cose esistente — di avere il coraggio del sapere — è potenzialmente fascista.
Totalità
Il ministro Gentile si faceva «un punto di merito dell’aver sbarazzato il funzionamento dell’amministrazione scolastica dal metodo della consultazione di commissioni eterogenee e delle rappresentanze di classe» [Adolfo Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Mulino, Bologna 2007, p. 147], rifiutandosi al confronto con le organizzazioni degli insegnanti. Non è un caso, e non solo perché nei congressi degli insegnanti il filosofo idealista ha più volte assaporato il gusto della contestazione e dell’essere in minoranza: il metodo di lavoro di Gentile è coerente tanto con la sua filosofia, quando con l’ideologia totalitaria del fascismo. Come non si può spezzettare la totalità dello Stato ammettendo la rappresentazione degli interessi particolari, così il punto di vista della Totalità non può ammettere punti di vista particolari o differenti: conta solo il tutto, non le parti.
La scuola, integrata all’interno dello Stato fascista, non sfugge a questa reductio ad unum: il valore creativo e costituente del conflitto che scaturisce dall’incontro-scontro tra interessi diversi non può avere spazio all’interno della totalità organica che si incarna in chi si attribuisce il possesso, o l’interpretazione univoca, della Volontà Generale.
Il sistematico rifiuto del confronto con gli insegnanti e gli studenti sembra oggi essere ridiventato il metodo di lavoro del ministro e dei suoi collaboratori: ne è un significativo esempio la delegittimazione dello Statuto delle studentesse e degli studenti, che trova accoglienza nella parte peggiore della scuola.
Ogni concezione della scuola che rifiuti di attribuire il diritto di critica, o quantomeno di interpellanza, a tutti i soggetti coinvolti nel processo educativo è potenzialmente fascista.
Semplificazione
«Il fascismo», scrive Mussolini nella Dottrina del fascismo, «aspira a risolvere solo i problemi che si pongono da sé e che da sé trovano o suggeriscono la propria soluzione». Dietro questa concezione c’è l’idea di una dottrina commisurata a un mondo tutto sommato semplice, dove pochi elementi invarianti — la lotta permanente, l’emergere dei superiori sugli inferiori, lo Stato, il culto della personalità — sono sufficienti a orientarsi nel permanente divenire della storia. La riforma Gentile, per ragioni diverse (nelle intenzioni del suo autore), presentava un quadro disciplinare altrettanto semplice, fondato su un numero limitato di discipline. E questo dato non cambia quando il fascismo si impossesserà, con la militarizzazione del tempo libero, di quel tempo che Gentile pensava dovesse essere dedicato al «lusso» della cultura. Comunque motivata, dietro questa idea di scuola c’è la convinzione che un numero relativamente basso di campi disciplinari — o addirittura uno solo, che li riassume tutti — sia sufficiente a orientarsi nel mondo.
Nell’epoca della globalizzazione — che non ha reso complessa la società: ha mostrato questa complessità in tutta la sua evidenza — ogni idea di scuola che rifiuti o eluda il confronto con la complessità e ricerchi soluzioni semplicistiche e semplificatorie è potenzialmente fascista.
Nozionismo
Una delle revisioni che i ministri succedutisi a Gentile operarono sulla sua riforma fu una netta virata verso il nozionismo, che Gentile rifiutava. È chiaro che il nozionismo, l’apprendimento fondato sulla supremazia dei contenuti, è del tutto adeguato a un sapere da spezzettare analiticamente e riassumere in «catechismi». È altrettanto evidente che questa centralità dei contenuti rispetto alle capacità e alle competenze segna la distanza tra il dibattito pedagogico italiano e quello nordamericano, che giungerà in Italia assieme al vento del Nord soltanto nel dopoguerra. Autoritaristico nella sostanza e arretrato nell’impostazione culturale, il nozionismo si riassume oggi nel primato della «testa piena» di contenuti sulla «testa ben fatta», nell’illusione che ci sia un pacchetto di nozioni che, appreso una volta per tutte, sia adeguato alla società complessa. Dietro il culto del nozionismo si nasconde la pericolosa figura dell’insegnante che si erge ad arbitro del sapere, sulla base di una superiorità nei confronti dell’alunno basata sul convincimento di essere il solo possessore, o testimone, di quei contenuti.
Una scuola che rifiuti di «insegnare a imparare» e ritorni alla centralità dei contenuti è, oltre che profondamente arretrata e inadeguata, potenzialmente fascista.
Gerarchizzazione
Il carattere normativo e disciplinante della scuola fascista ha, come correlato, una corrispondente gerarchizzazione delle materie. Dalla più generale distinzione del sapere nei due diseguali campi, quello umanistico e quello scientifico, alle interne gerarchie del campo umanistico. Una volta ammesso il principio gerarchico, viene da sé la sovradeterminazione politica di talune discipline. Ad esempio, la moltiplicazione delle cattedre di tedesco a scapito di quelle di francese all’indomani della creazione dell’Asse Roma-Berlino. Ad esempio, l’uso politico della lingua latina, imposto, come scriveva Guido Calogero, da «un dittatore altruista» che, «non sapendo il latino, pretendeva che tutti gli altri lo imparassero». L’idea che alcune discipline abbiano un valore formativo superiore alle altre, comunque motivata, corrisponde a un’idea molto povera della mente umana e dei processi cognitivi. Questa idea è dietro la pretesa superiorità del percorso liceale sugli altri percorsi scolastici, e all’interno del percorso liceale della necessità che alcune materie siano presenti in ogni indirizzo per caratterizzarne la «licealità». È quasi ovvio ricordare il fondamento fascista di questa idea di scuola. Meno ovvio — meno politicamente corretto — è ricordare che la scuola repubblicana non ha saputo elevare l’istruzione professionale al livello di quella liceale, e l’ha confinata sul limite di una camera di compensazione aperta verso la dispersione scolastica e il mondo del lavoro, mantenendo un potenziale elemento di fascismo pedagogico al proprio interno.
Ogni concezione della scuola fondata su gerarchie di valore tra le discipline e gli ordini di studio è potenzialmente fascista.
Naturalizzazione della distinzione tra «fare» e «sapere»
È fin troppo semplice tracciare una sintesi della scuola gentiliana e fascista come una scuola che faceva propria una distinzione, più o meno naturale, tra un’élite aristocratica e un popolo radicato nella terra e nell’arretratezza. Ma la questione è più ampia. La distinzione tra filosofi e contadini, condivisa ai primi del Novecento tanto da Gentile quanto dal socialista Salvemini, è una delle chiavi di lettura non solo della storia della scuola italiana, ma dell’intera cultura nazionale. Scotto di Luzio, che non nasconde le proprie simpatie gentiliane, arriva a tracciare un canone che vede da un lato Gentile (e Salvemini), dall’altro il gramscismo e «l’egualitarismo evangelico di Lorenzo Milani», «le due principali linee di svolgimento del populismo italiano del dopoguerra». [Adolfo Scotto di Luzio, op. cit., p. 126]. Ma è troppo facile ridurre una così complessa tradizione culturale alla categoria di «populismo». Tra Gramsci e don Milani ci sono autori e narratori quali De Martino, Carlo Levi, Cesare Pavese; e c’è un’intera generazione di pedagogisti — Borghi, Agazzi, Visalberghi. Gli uni e gli altri hanno messo in questione non solo i presupposti sociali dell’accettazione naturalistica della divisione sociale, ma la stessa subalternità cognitiva del mondo contadino.
Nella critica gramsciana all’idealismo, la filosofia cessa di essere possesso privilegiato di un’aristocrazia del pensiero, e diventa una funzione naturale della mente umana, giacché ogni essere umano è in grado di esprimere una visione del mondo. È su questa idea che si fonda la scuola della Costituzione nata dalla Resistenza. Un’idea che oggi è contraddetta dal ridimensionamento e depotenziamento dell’istruzione tecnico-professionale: un’istruzione professionale concepita come avviamento al lavoro dà per scontata l’esistenza di studenti naturalmente portati al «fare» piuttosto che all’«apprendere», ai quali non è necessario né utile fornire una completa istruzione.
Una visione del mondo e della scuola, comunque motivata, che reintroduca come «naturale» la distinzione tra l’homo sapiens e l’homo faber è potenzialmente fascista.
Mammismo pedagogico
La donna era confinata dal fascismo in una dimensione subalterna, del tutto coerente con l’arretratezza sociale e culturale dell’Italia, che percepiva questa inferiorità come parte di un ordine immutabile delle cose. Non diversamente, la cultura idealistica individuava, nelle parole di Benedetto Croce, la vocazione alla maternità della donna come realizzazione del proprio fine, e ne deduceva l’esclusione dalla sfera della politica (e del pensiero filosofico). La figura della maestrina dalla penna rossa coniata da De Amicis e ripetuta nelle scuole e nelle case con le letture del libro Cuore contribuiva a sostenere questa idea della naturale subordinazione della donna, facendo della maestra una figura sostitutiva di quella materna. In forme e modi diversi, il mito della «naturale vocazione» all’insegnamento della donna come espressione della peculiare dimensione del «prendersi cura» del femminile perpetua questo stereotipo. Lo stesso accade con quelle concezioni della scuola di base come spontaneo prolungamento della dimensione affettiva familiare, come mostrano bene le parole del ministro Gelmini: «A quell’età, sei, dieci anni, non serve uno specialista di italiano e di matematica. Serve una persona che rappresenti la continuità della figura della madre, del genitore» [Intervista rilasciata a Luigi Amicone su Tempi.it, 16 sett. 2008].
Ogni scuola che accolga al proprio interno, anche in forma implicita, uno stereotipo sessista, palese o mascherato, è potenzialmente fascista.
Insegnamento della religione cattolica
L’insegnamento della religione cattolica, previsto dal Concordato, costituisce uno scandalo pedagogico che dura da sessant’anni — e questo sia detto col massimo rispetto per le singole soggettività che con passione e onestà si adoperano per dare credibilità didattica a questa disciplina. Il problema non è lo Stato fascista che stipula questo accordo, anche se vale sempre la pena di ricordare le parole del papa all’indomani della stipula: «…ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi». Il problema è la stessa visione gentiliana della religione come philosophia minor, esposta già nel 1907. La religione cattolica implica, come ogni altra religione, una tavola di valori che non può essere discussa dal fedele: il che, nella dimensione della fede, non costituisce problema. Il problema sorge, anche nel campo delle fedi, quando questa confessione pretende l’esclusiva della religione cristiana, e l’esclusiva del cristianesimo come religione rivelata nel campo delle religioni: come scrive Adriano Prosperi [qui l’integrale], «insediando nella scuola pubblica, vera cittadella della democrazia, una religione dominante insegnata al di fuori del controllo pubblico da insegnanti cui è richiesto solo il permesso del vescovo». E diventa scandalo, in una scuola non fascista o antifascista, introdurre un contenuto dogmatico: perché la scuola non deve inculcare valori, ma favorire la crescita consapevole e autonoma di strumenti cognitivi che consentano a ogni libera mente di tracciare la propria scala di valori e credenze, all’interno di un quadro di norme generali che coincide con la Costituzione. Pretendere di insegnare un valore presentandolo come il valore, una religione pretendendo che sia la religione, è, nel senso evangelico del termine, scandalo. Ed è uno scandalo potenzialmente fascista. Così come sono potenzialmente fasciste le parole del ministro che ha affermato [in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 2009/10, Roma, 25 settembre 2009]: «Perché avvenga l’integrazione [degli stranieri] è indispensabile insegnare la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione e la nostra storia»: perché è dalla caduta del fascismo che l’Italia non ha una religione di Stato, è dalla spontanea decisione della maggioranza cattolica dei Costituenti (primo tra loro Giorgio La Pira), che rinunciarono alla proposta di premettere la locuzione «In nome di dio» alla Carta Costituzionale, che non esiste una «nostra religione» che lo Stato debba insegnare o imporre.
Ogni scuola che insegni o imponga una religione, una fede, un sistema di valori spirituali come «propri», esclusivi o comunque superiori rispetto ad altri è potenzialmente fascista.