di Domenico Caringella
“Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.”(Giovanni, 15, 6)
Il 12 di giugno Anna, alla giovane donna in cuffietta bianca che le portava da mangiare in cella, chiese del lago. La ragazza, che non aveva quasi mai fatto sentire la sua voce nei giorni precedenti, se non per poche parole di circostanza, sul cibo, sulla biancheria che scarseggiava, quella sera non riuscì a non alzare lo sguardo verso di lei, dimenticò di avere paura e disse ad Anna, Anna la strega, esattamente quello di cui lei aveva bisogno. Con quello che sentì, Anna disegnò con precisione le acque azzurre del Klontalersee che restituivano perfettamente la sagoma delle montagne, la luce abbagliante del sole che colorava tutto e gettava una colata d’oro sulla superficie del lago, la neve che ormai apparteneva soltanto alle cime.
Mancava pochissimo alla fine della primavera, la stagione più bella e fuggiasca, e a quella di un’altra stagione che da secoli purificava i paesi e le valli con il fuoco dei roghi e il gelo del terrore.
E in cui la caccia era sempre aperta.
Quella ad Anna era stata breve, perché certe voci si inseguono senza scampo e perché la cattura non valeva onore e ma l’argento di 100 corone.
Era stato mentre la conducevano a cavallo a Glarona che aveva visto per l’ultima volta il lago, l’unica cosa bella che ricordava di quel luogo che non l’aveva mai voluta davvero e che adesso invece la reclamava. Quella mattina era bianco come la neve, azzurro come il ghiaccio, grigio come il cielo di febbraio. Quei colori, e il freddo che ne era materia, le avevano suggerito sottovoce, un urlo travestito da sussurro, che ad un passo da lì, ad attenderla avrebbe trovato la follia degli uomini, l’indifferenza delle donne, il supplizio, la fine di tutto.
All’inizio fu l’illusione.
Quella di potersi salvare. Di riuscire a cavarsela come aveva sempre fatto in una vita passata ad obbedire a tutti, a ministri del culto, panettieri, medici, rilegatori, governatori, a servire le loro amabili mogli, e a rompersi la schiena per loro; l’amore, clandestino e quando le capitava, l’unica luce.
All’inizio fu l’illusione.
Che si accorgessero che quello che pretendevano non era orrore ma solo errore. Perché era errore un biscotto che faceva vomitare ferro ad una bambina. O al più, non poteva che avere del miracoloso la piccola Annamaria che un mese dal giorno in cui la sua Anna – l’amava Anna — le aveva offerto un lakerli — che buono che era, sua madre non gliene dava mai — aveva cominciato a sputare spilli nella tazza, nel piatto, come pallini da uno schioppo.
All’inizio fu l’illusione.
Solo all’inizio. Poi furono giorni interminabili, senza notti. Torture, dolore, abisso.
Della sentenza del Consiglio le restarono solo brani, singole parole che erano stracci e coltellate: Avvelenatrice, Lakerli, Annamaria, A morte.
La morte, che già ha dentro di sé i semi della paura e del buio, diventa la cosa meno accettabile di tutte quando arriva senza che un motivo per cederle e seguirla docili non esista, o non lo si trovi.
Era quello che accadeva ad Anna, perduta nel terrore cieco e nella vertigine che accompagna l’attimo prima dalla caduta; e la scudisciata dell’ingiustizia della fine che vedeva lì ad un passo danzare intorno alla scure e all’incappucciato che la brandiva – come un fabbro il martello, lo scrivano la penna – si rivelava la peggiore di quelle torture ai cui misteri tanto benevolmente era stata introdotta negli ultimi giorni della sua vita.
Fu come se le mancasse il fiato, d’improvviso; e annaspando cercò un soffio d’aria da qualche parte, nei volti muti o deformati del popolo di Glarona, nelle montagne, nelle fessure tra le assi della forca, nelle lacrime degli Steinmuller che le rimanevano vicini anche quel giorno, in cui il sole che tanto lei amava era un tradimento, una beffa.
Con la testa già china, fu l’ultimo insulto a dare ad Anna quella manciata d’aria che le servì per regolare di nuovo il respiro, darsi una ragione, chiudere piano gli occhi. Perché ad apparire e a riecheggiare, senza ragione apparente, furono il viso trasfigurato e la voce baritonale del portavoce del consiglio evangelico, che dopo la sentenza che faceva calare il sipario sul dramma dell’ultima strega d’Europa, farsa e tragedia, per infierire o darsi forza o pace cantava un nuovo dogma, quello dell’esistenza al mondo di persone che in un modo o nell’altro sono sempre colpevoli, che nascondono delitti indegni, che sono comunque meritevoli di castigo.
Anna si riconobbe.
Ricordò la disperazione dell’abbandono e l’abominio della notte in cui, sola senza rimedio, aveva strozzato il bambino senza padre che aveva appena partorito; e del suo silenzio a Strasburgo quando le avevano portato via un altro frutto del peccato, sempre in nome di un dio distratto e dell’onore.
Questo la aiutò ad accettare il filo della lama; e quella strana carezza sul collo.
Anna Göldi fu l’ultima donna ad essere condannata a morte per stregoneria in Europa.
Morì per decapitazione il 13 giugno 1782.
226 anni dopo il Parlamento Cantonale di Glarona l’ha riabilitata.